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Segreteria Rinascimento - 22 maggio 1997
Da "Il Giornale" del 22 maggio 1997 - pag. 5

IMPRENDITORI TRADITI DAI RAPPRESENTANTI

Devono essere più presenti nella società

Di Iuri Maria Prado

Uno dei mali d'Italia è l'impresa italiana. Per meglio dire: il modo difettoso in

cui l'impresa italiana si pone e opera rispetto al complesso economico politico, sociale, culturale del Paese. E apposta dico "difettoso": perché è indubbio che l'impresa italiana, la sua vasta e raffinata trama di piccole e attivissime unità, rappresenta come si dice "la spina dorsale" del Paese, ma è un dato di fatto troppo evidente che a questo eccellente protagonismo produttivo e competitivo corrispondono una presenza, una rappresentanza sociale e culturale molto sproporzionate per difetto, ciò da cui discende l'incapacità assoluta degli imprenditori di contribuire allo sviluppo (anche economico) della società.

Come "forza sociale", l'impresa italiana non esiste. L'imprenditore italiano (il piccolo e il medio s'intende) riesce meglio di ogni suo collega al mondo a fare bene e in meno tempo, con qualità e professionalità invidiate e, soprattutto, a minor costo e, dunque, in posizione di vantaggio concorrenziale. Nonostante l'aggressione dei mercati da parte di Paesi a fortissimo sviluppo e a bassissimo costo del lavoro, l'impresa italiana, ancora e in moltissimi settori produttivi (anche in quelli con poco valore aggiunto), è competitiva: una specie di miracolo. Ma i protagonisti di questa realtà non esistono, non sono nessuno, non hanno alcuna capacità di intervento e modificazione al di fuori delle loro aziende, in una situazione di "assenza" sociale, politica e culturale che non ha pari in alcun Paese avanzato. Perché? Le ragioni, ovviamente, sono varie e complesse. Per un verso è un fatto di leggi. La proclamazione della libertà di iniziativa economica è seguita dalle canoniche e in effetti dovute limitazioni

dell'interesse comune e dell'utilità sociale. Se non che, come per le altre norme di principio, nel settore delle libertà economiche si è assistito a un prevalere delle limitazioni, e dunque alla riduzione a simulacro di quelle libertà. Ma in questo processo di progressiva erosione dell' "ammesso" da parte del "vietato", prende parte anche un'altra degenerazione: e cioè quella per cui l'impresa, nei suoi luoghi "rappresentativi", è andata sempre più scollandosi dall'impresa quale è nella realtà. L'impresa, cioè, nei luoghi in cui è presente con ufficialità, si è burocratizzata e non rappresenta non ha mai rappresentato veramente se stessa. Quanto si imputa giustissimamente ai sindacati dei lavoratori (e cioè il fatto di non essere rappresentativi), deve onestamente imputarsi anche alle aggregazioni burocratiche degli imprenditori. Parlare ai lavoratori, oggi, non è parlare al sindacati, nella stessa misura in cui parlare agli imprenditori non è parlare a chi, formalmente e istituzionalmente, li rappresen

ta. E non riconoscere questa realtà impedisce ogni discorso compiuto sullo sviluppo economico, politico e sociale dell'Italia. La risposta consueta e in effetti comprensibile dell'imprenditore italiano è che lui deve lavorare, farà profitto, fare insomma il proprio lavoro e non quello di altri (politici, amministratori della cosa pubblica, intellettuali, ecc.). Il che sarebbe vero se l'Italia fosse un Paese in cui l'imprenditore può veramente fare il proprio lavoro e vederselo riconosciuto. Ma il Paese appunto non è non è ancora questo: e perché lo diventi c'è bisogno che gli imprenditori diventino "completi" e provino a farsi, in una parola, "cittadini".

 
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