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Segreteria Rinascimento - 24 maggio 1997
Da "L'UNITA'" del 24 maggio 1997, pag. 17

ORDINE DEI GIORNALISTI. AL REFERENDUM NOI VOTEREMO SI'

Di Alberto Leiss e Letizia Paolozzi

Sembra ormai che i tentativi i approvare in Parlamento una legge di riforma dell'Ordine dei giornalisti in tempo per evitare il referendum siano definitivamente falliti. A questo punto spetta ai giornalisti abbandonare alibi e reticenze e dire ai cittadini e prima di tutto a se stessi come si comporteranno il prossimo 15 giugno, giorno della consultazione referendaria. Non ci convincono i meccanismi referendari, anche se molti pensavano e pensano che grazie alla vittoria dei si o dei no si possano produrre magiche rigenerazioni della società e della politica. Ci piace ancora meno, pero, l'idea che di fronte a una questione così rilevante come lo statuto di una professione per eccellenza pubblica, la "linea" come sembra ritenere il dottor Petrina, attuale presidente dell'Ordine sia quella di "andare al mare", sperando che venga a mancare il quorum per il generale disinteresse. Siamo d'accordo invece con quanto ha detto qualche giorno fa il segretario della Fnsi Paolo Serventi Longhi: se il referendum si cel

ebra, bisogna andare a votare e votare sì all'abrogazione dell'Ordine. Questo è il solo modo per tenere aperta anzi, per aprire sul serio una discussione ampia e pubblica sul ruolo del "quarto potere", sui suoi diritti, i suoi doveri, sulla sua autonomia e la sua responsabilità in questa fase estrema della lunga e travagliata transizione italiana. Uscendo dalla ormai estenuata oscillazione tra i "mea culpa" per gli eccessi di superficialità da una parte, e le proteste contro i ricorrenti pericoli di "bavaglio" ogni volta che qualcuno, dall'esterno, indica qualche limite di decenza (davvero la "libera stampa" morirà per dover rinunciare ai pettegolezzi sulla vita privata delle persone?) e qualche controllo per la nostra professione. Forse siamo a un "redde rationem", dopo un periodo in cui una maggiore libertà guadagnata dall'informazione nei confronti del ceto politico, spazzato dalle inchieste di Mani pulite, non è stata utilizzata al meglio. Ce lo dice il drammatico calo delle vendite dei quotidiani, rip

iombati sotto la soglia dei 6 milioni all'anno. Ce lo dicono le polemiche e le paure suscitate dall'entrata in vigore di una legge sulla tutela della privacy che al di là delle solite imprecisioni e incongruenze tipiche del modo di legiferare italiano mette in campo alcuni principi sacrosanti. Ce lo dice la reazione che dal seno della stessa magistratura vedi le contestatissime decisioni del procuratore romano Vecchione, che vorrebbe abolire ogni contatto tra magistrati e cronisti sta venendo (come reazione?) a una stagione segnata da relazioni troppo strette e molto pericolose tra giornali e pm. E' stato Giuliano Zincone, qualche giorno fa, a chiosare alcune ruvide dichiarazioni di Antonio Di Pietro, che ha detto di voler prendere "a schiaffi e a pedate" chi l'ha indotto alle dimissioni da ministro, e di ritenere giuste sanzioni gravissime (sospensione delle pubblicazioni per giorni e giorni) per i giornali che si rendessero colpevoli di diffamazione. Un linguaggio simbolicamente significativo di una cert

a idea del ruolo della giustizia. Ma lo stesso Di Pietro, in altra sede, ha apprezzato pero l'incondizionato e spesso del tutto acritico appoggio I che la stampa diede alle inchieste di I Mani pulite. E in arrivo un meritato "castigo" per quegli entusiasmi eccessivi? Del resto l'insofferenza del potere politico verso i modi del giornalismo italiano è ormai quasi una moda. Non solo D'Alema chiede un miliardo di indennizzo all'Espresso, che ha pubblicato servizi sulla sua nuova abitazione, violando sostiene il suo avvocato il diritto alla privacy. Ma il presidente della Camera, Violante, afferma che "i mezzi di informazione hanno svolto e svolgono una funzione impropria di indirizzo politico". Ci sarà anche del vero. Tuttavia, come si stabilisce a chi, come e quando spetti l'esercizio di una funzione "propria" di indirizzo politico? Si capisce l'obiettivo di riequilibrare la distribuzione della funzione politica, in questi anni sbilanciata da partiti e istituzioni in grave crisi verso altri poteri come que

lli della magistratura e dell'informazione. Ma nelle complesse e spaesate società moderne del mondo globalizzato, la funzione politica è assai diffusa e poco afferrabile. La vera questione non è tanto chi abbia - per regola - il "diritto" di esercitarla, ma con qualche modalità e per quali modalità e per quali fini la esercitano i vari soggetti che in ogni caso hanno gli strumenti e il potere per farlo. Se ci tosse una tentazione della politica di reagire alla propria crisi comprimendo l'autonomia di altri poteri e funzioni giustizia e informazione l'errore più grande sarebbe per giudici e giornalisti reagire con arroccamenti corporativi, o con mediazioni opache sul terreno delle regole. Ecco perchè ci sembra i m portante una ampia e seria discussione pubblica sugli statuti del giornalismo (specialmente quello scritto e stampato, visto che il tormentone sul sistema tv giunge finalmente a conclusione) e sulla definizione della responsabilità con cui deve essere esercitata una funzione politica connaturata a

lla nostra professione. La questione, del resto, va ben al di là di una legge per la riforma dell'Ordine (che comunque deve essere fatta bene, senza improvvisazioni), e investe modi di produrre, regimi proprietari, ruolo dello Stato, rapporti col mercato e col pubblico. Se ragionassimo così, allora anche la scadenza referendaria potrebbe essere vissuta più come una occasione da cogliere che come un rischio da evitare.

 
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