CINQUE REFERENDUM PRONTI A ESPLODERE
Di Gino Giugni
Pannella chiama e Confindustria risponde. E' stata, per verità, una risposta piuttosto sobria, dato che non se n'è accorto quasi nessuno. Ma è comunque l'esperienza a confermarci che la circa suona solo dopo il giudizio di ammissibilità: e quando questo interviene è allora troppo tardi, perché il Parlamento si assuma le responsabilità di adeguati interventi legislativi. Su quarantuno proposto di referendum, una vera e propria overdose, una decina riguardanti la materia del lavoro, cinque tra essi hanno avuto in promessa l'impegno di divulgazione da parte del piccolo ma iperattivo gruppo che si definisce liberale liberista. La precedente proposta era stata letteralmente falcidiata dalla Corte Costituzionale, ma con quanto ne è residuato saremo prossimamente chiamati alle urne. Per l'anno successivo, poi, eccoci ad affrontare l'overdose delle quarantuno domande. Nel coacervo che verrà sottoposto a un sempre più confuso elettorato, si distinguono ora cinque quesiti che hanno ottenuto l'approvazione da parte de
lle maggiori associazioni degli imprenditori. Si potrebbe ricordare, che dopotutto, anche il presidente dell'Antitrust si è fatto portavoce della necessità di liberare il mercato dai laccia e lacciulo. Ma qui ci troviamo di fronte a domande che appaiono (un paio) pressochè inutili e già superate, alter automaticamente dirompenti. O almeno tali sono quelli che mettono in giuoco alcune fondamenta dello Stato sociale. Soffermiamoci, per ora, sulle prime. Quelli dirompenti sono due: l'una, già "falcidiata" dalla Corte Costituzionale, riguarda la soppressione della sanità pubblica ; l'altra, a cui davvero nessuno aveva ancora pensato, prevede l'abolizione dell'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro che mette in giuoco una delle più antiche leggi di tutela della lavoro, che risale a niente po' po' di meno che cento anni or sono, emanata dalle classe dirigente liberale ancor prima di Giolitti. E sono stati cento anni, nel complesso, non portati male. Viene poi la strana proposta di abrogare un istituto che n
on c'è ancora, vale a dire il lavoro interinale, ritenuto ormai da tutti, meno che dalla piccolo ma fattiva minoranza di Rifondazione comunista, una utile istituzione: e, semmai si volesse fare un esempio agli antipodi dell'abrogazione di ciò che ancora non esiste. Ma c'è un'altra faccia del problema, ed è il fatto che, onde ottenere questo risultato, si rischia di spazzar via tutta una serie di cautele di cui tale istituto non potrà non essere circondato. Se vogliamo che il lavoro interinale veda la luce in un contesto di caporalati, di attività mediatorie di basso e infimo livello, questo sarebbe il contesto più appropriato; ma in quello corrispondente ai più elementari principi di condotta etica degli affari. Una conclusione pressochè identica può valere per l'abrogazione e privatizzazione del collocamento pubblico, che , oltre a non servire più a nulla in termini funzionali, non è più neppure un laccio o un lacciuolo. Ma che tuttavia, trasformato in un servizio concorrenziale tra il pubblico e il privat
o, sarebbe tanto più utile proprio nelle aree dove l'offerta del lavoro è in eccesso, e tutt'altro che certa è la capacità di sviluppo di adeguati servizi privati sottratti alla mera logica speculativa. E' evidente come un referendum abrogativo avrebbe l'effetto di spazzar via l'utile e l'inutile, di non rendere più possibile sceverare il grano dall'olio. E passiamo al referendum che sopprime la reintegrazione nel posto di lavoro nei confronti di chi sia ingiustamente licenziato. Questo è un campo in cui nessuno può e deve concedersi di riposare sugli allori. Il meccanismo della reintegrazione effettiva funziona male perché è la giustizia civile il grande ammalato del sistema, molto e molto più che non la giustizia penale. Ma cambiare non significa sopprimere, e il fatto che chi abbia perduto il posto senza che la giusta causa ne subisca danni materiali ma nache di ordine morale, e che a ciò si possa e si voglia porre a riparo, specie nelle grandi imprese, può ben costituire uno degli elementi portanti dello
Stato sociale. Ce lo ha ricordato Gunther Grass, che non sarà un giurista ma è comunque una voce ascoltata. La Costituzione deve entrare oltre i cancelli della fabbrica, si disse, ormai trent'anni or sono. Modificare e regolare le modalità di tale entrata non significa pero trasformarla nel suo contrario. La verità è che la scelta operante delle organizzazioni degli imprenditori corre nella direzione atta a più eccitare cariche emotive che non ad avviare il cambiamento verso al strada delle riforme possibili. E non si tratta di un operazione politicamente neutra. Può avere un forte appello nell'area dei piccoli e medi imprenditori, non avvezzi alle sottili mediazioni, quelle cui al stessa Confindustria è stata maestra. Marco Pannella è parso un sensibile che anche se grossolano interprete di questo stato d'animo in tutta la sua carica di energia negativa. Il rischio è che , con l'esperienza di questi ultimi anni insegna, nella beata speranza che un imprevedibile legislatore provveda, l'elettorato si trovi c
oinvolto in una campagne per un verso incomprensibile e per l'altro a esito esplosivo. Così che, mentre si discute di riforma dello Stato sociale, il rischio che appare all'orizzonte è che a scadenza di un anno o poco più, lo Stato sociale non ci sia più davvero.