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Segreteria Rinascimento - 11 giugno 1997
Da "La Repubblica" del 11 giugno 1997 - pag. 1

TRE RAGIONI PER VOTARE

Di Andrea Manzella

La crisi del referendum è ora sotto gli occhi di tutti. Il fatto stesso che autorevoli voci di giuristi e politologi chiamino all'astensione elettorale contro il suo abuso, dovrebbe convincere Parlamento e Corte costituzionale che è giunto, infine, il tempo di intervenire in maniera decisiva. Il Parlamento, per definire condizioni e natura delle domande da sottoporre agli elettori in modo che la loro risposta sia un "sì" abrogativo o un "no" conservativo ("il più viene dal Maligno?2, si potrebbe evangelicamente stabilire). La Corte costituzionale, per tutelare il diritto degli elettori a cogliere il significato del voto e a convincersene. Il diritto, cioè, a non essere travolti da una valanga svariata e illimitata di quesiti.

Questi due organi costituzionali, sia detto con tutto il rispetto dovuto, hanno finora preferito chiudere occhi e orecchie dinanzi all'evidenza. Nel caso della Corte, con una contraddittoria giurisprudenza che si preoccupa di verificare la "matrice razionalmente unitaria" delle questioni all'interno di ogni singolo referendum, ma non si cura della disarticolazione e della irrazionalità provenienti dall'affollamento di più referendum. Nel caso del Parlamento, con la tolleranza di una legislazione "di risulta": accettando, cioè, come legge quello che si fa dire alla norma dopo l'amputazione referendaria e ammettendo, quindi, che la legge possa nascere, come la pecora Dolly, senza legislatore. E cosi lontana questa situazione dalla previsione costituzionale che la propaganda per lo sciopero elettorale, diretta a far fallire i referendum per assenza della maggioranza degli aventi diritto al voto, non solo è legittima ma sembra giustificata dalla passività di chi avrebbe dovuto evitare così gravi deviazioni e man

omissioni dell'Istituto. Alla mala gestione del massimo strumento di democrazia diretta, verrebbe così a contrapporsi una reazione ugualmente diretta del corpo elettorale per affermare il suo diritto a non votare senza cognizione di causa. E anche per affermare il suo "diritto al Parlamento". Il diritto cioè a vedere normalmente risolte le questioni della politica secondo l'ancora insuperato metodo del confronto parlamentare e non a colpi di "si" e di "no", resi opachi dalla contiguità e dai trascinamenti reciproci. Detto questo, ci sono però tre buone, e per noi prevalenti, ragioni per andare a votare domenica prossima. La prima ragione è la tradizione repubblicana. In questa stagione confusa di revisionismi e di apprendistati, strappare il certificato elettorale, sia pure per una fondatissima protesta, ci parrebbe come smentire anche l'educazione civica alla partecipazione di massa al voto, l'educazione che questa Repubblica ci ha dato e di cui le siamo grati. Sono romanticismi forse fuori moda in tempi di

Bicamerale: ma, insomma, chi ce l'ha è meglio che se li tenga stretti. La seconda ragione è il dovere di distinguere tra i sette (e troppi) quesiti che ci verranno sottoposti. Per votare su quelli che rispondono alla logica propria del referendum abrogativo e che possono essere dunque risolto con un "si" e con un "no". E per rifiutare il voto su quelli in cui è evidente la sopraffazione referendaria rispetto al Parlamento, perché la materia non è tale da potere essere tranciata di netto come una bistecca. Non tutti saranno in grado di fare questa selezione ? Ma non è importante il numero. Importante è che, da pochi o da molti, un segnale sia dato per indicare l'insopportabilità del lassismo finora consentito in questa cruciale questione. La terza e più alta ragione che ci spingerà a votare è che, malgrado gli sforzi contrari di certi promotori, è necessario salvare il referendum nella evoluzione costituzionale della nostra Repubblica. La crisi di rigetto in corso non ci deve fare infatti dimenticare che il

referendum abrogativo in uno sviluppo presidenzialista e maggioritario, costituirà un bene essenziale per gli equilibri profondi del sistema, per far valere le ragioni dell'opposizione "chiusa" in Parlamento, per dare flessibilità al corso politico. Nel regime costituzionale che si delinea, il Parlamento da solo non ce la può fare come contropotere al potere di governo se non sorretto da altri istituti come la Corte costituzionale e il referendum appunto. Questa riflessione su un futuro istituzionale che è già cominciato ci distoglie perciò dalla tentazione di contribuire ad affossare nell'astensionismo i referendum di domenica prossima. Perché ci sembrerebbe di indebolire, ora per allora, uno strumento che presto dovrà avere una sua più giusta vitalità.

 
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