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Segreteria Rinascimento - 15 giugno 1997
Da "Il Messaggero" del 15 giugno 1997 - pag. 1

ITALIA ALLE URNE

SI VOTANO I SETTE REFERENDUM

Seggi aperti dalle 7 alle 22

di Vittorio Emiliani

I REFERENDUM in Italia soltanto abrogativi sono un atto di controllo popolare sulle leggi in vigore, oppure una forma di legislazione essi stessi? Sono un modo per chiamare gli italiani a valutare la bontà o meno di norme esistenti, oppure un pungolo (e anche più) per spingere il Parlamento a fare quanto sin lì non ha fatto? L'ambiguità di fondo dei referendum che i costituenti vollero, dopo un intenso dibattito, semplicemente abrogativi sta in questa divaricazione di funzioni, con un confine molto sottile spesso tra democrazia e populismo. Anche nelle polemiche serrate di questi giorni nessuno ha però negato l'utilità del referendum per sciogliere grandi nodi istituzionali, o legislativi: Monarchia o Repubblica, si o no al divorzio, all'aborto. In questione è la grande facilità con la quale si possono raccogliere le firme necessarie per proporre quesiti che poco hanno a che fare con la democrazia diretta dei referendum e che tendono a mutare forme e sostanza di una democrazia la quale nasce, dalla Costi

tuzione repubblicana, rappresentativa, cioè delegata alle assemblee elette, ai vari livelli, dallo stesso popolo. Prendiamo il referendum Segni sul maggioritario. Esso ha ottenuto una valanga di consensi. Poi però. quando agli stessi cittadini viene presentata, di nuovo, una possibilità proporzionalista, tutte le liste e listarelle ottengono voti. I gruppi minori, i quali si oppongono ora al completamento del maggioritario attraverso il superamento del "mattarellum" e il restringimento della quota proporzionale, sono essi pure espressione di un elettorato tutt'altro che trascurabile. D'altronde, se è stato sbagliato utilizzare i referendum come arma per "castigare" i partiti e la stessa democrazia rappresentativa (o comunque per votare, con entusiasmo, "contro"), è pur vero che il sistema dei partiti si è rivelato a lungo e rocciosamente impermeabile a riforme e a modernizzazioni indispensabili. Insomma, i dilemmi non sono da poco, né possono venire liquidati a colpi di accetta. Personalmente penso che, per

quanto usurato dall'uso e dall'abuso, lo strumento referendario non vada affatto buttato, né sepolto nel limbo della nonpartecipazione elettorale. Taluni dei referendum proposti al voto pongono quesiti che gli elettori possono ben affrontare con un "si" o con un "no" anche sostituendosi ad un legislatore inerte. Altri, francamente, non mi paiono interrogativi "da referendum": non lo è, a mio avviso, quello delle Regioni sulla sopravvivenza del ministero per le Risorse agricole. Un centro, sia pure più snello di coordinamento delle politiche agrarie e di raccordo con Bruxelles è essenziale.

Anche se l'attuale ministro, Michele Pinto, ha fatto di tutto, sulle quotelatte e sui problemi dell'ippica, che pure coinvolgono 5060 mila posti di lavoro, per dimostrare l'esatto contrario. A colpi di referendum, insomma, non si riforma di certo lo Stato. Al massimo lo si sforacchia rendendolo ancor più inefficiente (cosa si è sostituito al ministero del Turismo? Nulla, e il turismo è un mercato planetario, altro che regionale o locale). Nonostante quindi una ormai pluriennale assuefazione referendaria dal 1974 quanti sono stati mai? , nonostante il caldo estivo precoce, credo che sia giusto votare, scegliere, magari rifiutando la scheda del quesito che non convince o che risulta incomprensibile. Lo stesso discorso (partecipazione consapevole, responsabile, al voto) vale per i due referendum comunali sulla privatizzazione della Centrale municipalizzata del latte e sulla trasformazione dell'Acea in società per azioni a maggioranza pubblica. Qui siamo di fronte a due referendum soltanto consultivi e però r

ivolti, strumentalmente, contro l'amministrazione Rutelli. Capisco chi vuole "ideologicamente" ancora il latte o lo yogurt "comunale" alle soglie del 2000 col mercato già liberalizzato (Rifondazione comunista). Capisco ma resto, nettamente, di opposto parere. Non capisco né condivido le posizioni di quanti (il Polo essenzialmente) alla privatizzazione dicono "no" e parlano di "svendita" a priori di una Centrale che ha ingoiato 250300 miliardi di denaro pubblico, dei romani, per avere più funzionari e impiegati che operai e per produrre nuovi disavanzi. Quanto all'Acea, e un solido patrimonio per la politica ambientale romana che immettendo azioni sul mercato, col 51 per cento in mano al Comune, potrà fruire di nuove, importanti risorse ed estendere come SpA in modo più agile le sue attività ecologiche. Votare "contro" mi parrebbe davvero una insensatezza.

 
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