"NOI PRIVATIZZEREMO COSI' SENZA BOIARDI NE' YESMENParla il ministro dell'Industria, dopo il ribaltone all'Iri.
Bersani: l'autonomia dei manager, rischio calcolato.
di Marco Patucchi
ROMA - "Vorrei chiarire una volta per tutte che non si tratta di uno sfizio ideologico o di un vincolo di bilancio. Noi vendiamo per liberalizzare e per rianimare i mercati finanziari". L'onda lunga del socialismo francese lambisce molte sponde del centrosinistra italiano, ma non quella delle privatizzazioni. E così, mentre a Parigi Lionel Jospin spinge con decisione sul freno delle vendite di Stato, qui a Roma l'omologo esecutivo di Prodi continua imperterrito nella direzione opposta. Parola di Pierluigi Bersani, ministro dell'Industria targato Pds: "Ho parlato nei giorni scorsi con il mio collega francese e, più che di blocco delle privatizzazioni, parlerei di pausa di riflessione. Ma la nostra situazione è ben diversa: non è più il caso di riflettere, lo abbiamo fatto per anni. Ormai si tratta solo di agire con rapidità e senza ripensamenti, perchè le privatizzazioni italiane sono anche un veicolo di politica industriale che ci deve portare alla liberalizzazione dei mercati. La decisione francese, semmai,
comporta un altro rischio...".
Quale, ministro?
"Negli orientamenti del governo di Jospin, oltre al colpo di freno sulle dismissioni c'è anche la scelta di procedere il più possibile ad integrazioni interne tra le aziende francesi. E questo in prospettiva può complicare gli scenari di partnership che coinvolgono le società italiane, a cominciare dal gruppo Finmeccanica".
Eppure, la recente vicenda del cambio di guardia al vertice dell'Iri non sembra dimostrare una granitica condivisione degli obiettivi all'interno del nostro governo. Avete discusso sul dafarsi fino all'ultimo minuto, arrivando addirittura a far slittare l'assemblea di via Veneto in seconda convocazione...
"Non c'è stato scontro. Siamo un governo compatto nella sobrietà delle comunicazioni e, così, l'attenzione dei mass media si è concentrata, sbagliando interpretazione, sul dilemma "Tedeschi sì, Tedeschi no", mentre in realtà noi ci confrontavamo sulla definizione della missione finale dell'Iri".
Appunto. La resa dei conti tra il partito "proIri" che alberga a Palazzo Chigi e quello "antiIri" che ha il suo quartier generale a via Venti Settembre. Lei come si colloca in questa diatriba?
"Intanto vorrei far notare che sul destino dell'Iri c'è stato un dibattito senza posizioni preconcette, come dimostrano le affermazioni pubbliche fatte, negli ultimi mesi, dai presunti appartenenti ad ognuno dei due partiti. Io, personalmente, sono sempre stato affezionato all'idea che non fosse possibile una riforma o autoriforma dell'Iri. Comunque, la cosa essenziale è stata quella di assegnare con la massima nettezza la missione finale a via Veneto: privatizzare tutto quello che rimane e poi chiudere. In questo contesto il nome di Tedeschi è rimasto in ballo per una eventuale conferma: è una persona per certi versi aspra ed essenziale, ma ha ottenuto risultati positivi nel corso del suo mandato".
Che non gli sono valsi, però, la riconferma. Come si è arrivati alla nomina di GrosPietro?
"Seguendo la logica che ha guidato tutte le scelte del governo in materia di manager, e cioè individuare persone che non interpretino le privatizzazioni solo come mediazione finanziaria o come ritorno ai tempi delle Partecipazioni Statali. Insomma, dirigenti consapevoli e convinti della messa in opera di precise scelte industriali: GrosPietro risponde perfettamente a questo profilo, è inequivocabilmente legato alla missione che gli è stata assegnata per averla già condivisa in altri ruoli che ha svolto nell'ambito di questo governo".
GrosPietro, Tatò, Rossi, Spaventa...le nomine del governo Prodi oltre ad incassare le scontate accuse di "lottizzazione" da parte delle opposizioni, hanno innescato un dibattito molto acceso sui margini di autonomia dei manager pubblici. C'è chi ha evocato addirittura Enrico Mattei. Siete pentiti delle scelte fatte?
"Il governo si è dato una precisa linea, in tema di privatizzazioni e liberalizzazione, che comporta qualche rischio evitandone però di peggiori. Avevamo davanti due possibilità: fissare gli obiettivi e poi procedere alla mera mediazione finanziaria, oppure considerare le aziende pubbliche esse stesse strumento di politica industriale, introducendo così una sorta di ministero delle PpSs mascherato. Abbiamo optato per una terza via, scegliendo profili manageriali che presentano una grandissima autonomia, ma che ci garantiscono la possibilità di centrare gli obiettivi delle privatizzazioni, della liberalizzazione e del rilancio dei mercati finanziari. D'altro canto, pur evitando di nominare degli yes man, il governo non ha perso di vista i punti di caduta strategici delle strategie di ogni azienda e si sente comunque tutelato dalla presenza di soggetti come l'Antitrust e le varie authority".
Intanto, però, i progetti dell'Enel nel campo delle telecomunicazioni rischiano di andare in rotta di collisione con l'altro operatore pubblico, la Stet. Senza contare che, quando quest'ultima in ottobre sarà privatizzata, in Italia resterà comunque un soggetto pubblico, come l'Enel, a gestire telefoni...
"Io direi di guardare al di là delle questioni domestiche. L'obiettivo del governo è di valorizzare sia gli asset dell'Enel che quelli della Stet e, questo, in un contesto di politiche combinatorie che ormai sono mondiali. Non vedo, dunque, alcun rischio di danno reciproco, senza contare che il placet del Tesoro all'accordo tra Enel e Deutsche Telekom è vincolato al successivo, completo abbandono del settore Tlc da parte dell'azienda elettrica".
Torniamo all'Iri. La missione assegnata ai nuovi vertici prevede che le privatizzazioni del gruppo dovranno essere ultimate in tre anni. Saranno sufficienti? Le vendite di Alitalia e Finmeccanica non sembrano operazioni di routine...
"Un triennio non è poco. Certo, in Italia esistono compravendite con code che durano anni e anni, ma l'importante è che nell'arco del mandato venga chiusa la sostanza delle operazioni. In questo senso io sono ottimista, perchè abbiamo collocato il vertice dell'Iri a capo di una struttura attrezzata adeguatamente a fare privatizzazioni, come dimostra quanto realizzato fino ad oggi: non ci dimentichiamo che sono state condotte in porto positivamente molte dismissioni industriali, prima fra tutte quella dell'acciaio. A via Veneto, insomma, c'è gente che di privatizzazioni se ne intende e che, magari, potrà continuare questo lavoro anche dopo".
Scusi, ministro, ma non è stato appena celebrato il de profundis dell'Iri?
"Certamente. L'Iri fra tre anni chiuderà i battenti, su questo non ci piove. Ma visto che di privatizzazioni in giro per l'Italia se ne dovranno fare molte altre, penso ad esempio a quelle delle aziende degli enti locali, l'esperienza di quanti le hanno fatte a via Veneto potrà forse tornare utile".