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Segreteria Rinascimento - 22 giugno 1997
Da "IL CORRIERE DELLA SERA" del 22 giugno 1997, pag. 21

LIBERALIZZAZIONE IN PILLOLE DELLE FARMACIE

Di Alessandro Penati

Quasi tutti d'accordo. All'Italia servono: meno Stato nell'economia; un mercato del lavoro più flessibile; più federalismo; e meno dirigismo. Perché allora tanta fatica per mettere in pratica ciò che raccoglie tanto consenso? Per capire le grandi verità, a volte è utile guardare alle piccole cose: il caso delle farmacie comunali è illuminante. La loro storia ha origini lontane e un complesso prologo giuridico. I Comuni sono proprietari di 1.800 farmacie, retaggio di anni in cui ci si illudeva che il pubblico potesse fornire la migliore risposta ai bisogni del cittadino. Negli anni Novanta, l'illusione si è trasformata in incubo e il legislatore ha autorizzato i Comuni a gestire i servizi pubblici a mezzo di società per azioni (Legge 142, 6/90); ma, diffidando del privato, queste società dovevano rimanere a prevalente capitale pubblico. Con il crollo della lira, nel 1992, crolla anche la voglia di pubblico: una nuova legge (498, 12/92) abolisce il vincolo della proprietà maggioritaria e delega il Governo a e

manare un decreto che disciplini le nuove società. Passano i mesi, e il Governo lascia cadere la delega: bisogna aspettare il gennaio 1995 per avere il decreto, che a sua volta richiede un Regolamento attuativo emanato finalmente dopo altri 18 mesi (Dpr 553, 9/96). Sette anni per un quadro legislativo. Sette anni per arrivare a cosa? I Comuni devono obbligatoriamente mantenere una quota minima del 20% nel capitale della Farmacie S.p.A.; l'azionista privato deve essere scelto con una procedura simile all'appalto concorso (le pratiche dell'investment banking per le privatizzazioni offerta pubblica di vendita, book building e asta competitiva non bastano; bisognava inventare qualche cosa di nuovo); con il Comunesocio, l'azionista di maggioranza (sic!) privato deve stipulare convenzioni in modo da assicurare la conformità dell'assetto societario all'interesse pubblico; il privato non può cedere le proprie azioni per cinque anni, e successivamente lo può fare solo con il gradimento del Comune (dopo le ordin

arie, di risparmio e di privilegio, il legislatore ha creato le azioni a circolazione gradita e vincolata). Sette anni per una legge di privatizzazione peggiorativa anche rispetto al regime di concessione, perché permette ai Comuni di giocare un ruolo attivo nella gestione delle farmacie. Niente male. Se dalla privatizzazione delle farmacie comunali è meglio non aspettarsi troppo mercato, il regime in cui operano quelle già private (sono oltre 16.000) è l'esatta negazione della concorrenza. La legge (362, 11/91) disciplina rigidamente le autorizzazioni: una farmacia ogni 5.000 abitanti nei comuni piccoli, una ogni 4.000 in quelli con più di 12.500 residenti; in deroga a questi limiti, le province autonome di Trento e Bolzano possono autorizzare nuove farmacie purché distanti almeno 3.000 metri da quelle esistenti. Il conferimento delle nuove farmacie (metà delle quali sono ancora assegnate per legge ai Comuni) avviene per concorso entro il mese di marzo di ogni anno dispari. Chi intenda trasferire una farma

cia in un nuovo locale lo può fare (previa trafila di permessi) purché ad almeno 200 metri da un'altra farmacia (»la distanza è misurata per la via pedonale più breve tra soglia e soglia ).

Soltanto le persone fisiche con meno di 60 anni iscritte all'Albo professionale dei farmacisti possono diventare titolari di una farmacia privata (come individui o società di persone). La titolarità è dinastica: chi eredita una farmacia, mantiene il diritto a gestirla per dieci anni anche se non è iscritto all'Albo, a patto che si iscriva subito a una facoltà di farmacia (dieci anni per laurearsi: la legge si preoccupa anche dei rampolli più svogliati). Alla faccia della flessibilità del mercato del lavoro e della corporate governance. Si può possedere una sola farmacia; la titolarità è incompatibile con qualsiasi attività nella produzione, distribuzione e intermediazione dei farmaci. Economie di scala tramite concentrazioni e integrazioni verticali sono quindi vietate dalla legge. Così ci ritroviamo con 218 società di distribuzione intermedia (che collocano l'80% dei farmaci) contro le 20 in Germania, 10 in Francia e 16 in Gran Bretagna. Non sembrerebbe insensato reclamare più concorrenza ed efficienza nel

la distribuzione di un settore che fattura 21.000 miliardi. Ma se anche l'ottenessimo con un colpo di bacchetta magica, a monte rimarrebbe sempre il problema di uno Stato che ogni anno fissa per legge i margini delle medicine erogate dal Servizio sanitario nazionale, quasi la metà di tutto il mercato: 66,65% del prezzo di vendita al produttore, 6,65% al grossista, 26,7% al farmacista, meno uno »sconto anche questo fissato per legge. Naturalmente non poteva mancare il sussidio per le farmacie rurali. Tutti uguali di fronte alla legge, dunque: ma che senso ha parlare di privatizzazioni in un simile mercato? E, soprattutto, che senso ha parlare di federalismo e decentramento dei servizi pubblici, primo fra tutti quello sanitario?

 
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