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Partito Radicale Rinascimento - 2 luglio 1997
da il "Corriere della Sera" del 2/7/97 pag. 1

Addio (in silenzio) a vere privatizzazioni

MONOPOLI E PRIVATI NELL'ERA DELL'ULIVO

di FRANCESCO GIAVAZZI

Da quando il governo dell'Ulivo ha sostituito i vecchi manager pubblici con persone di grande esperienza, come Guido Rossi e Franco Tatò, si è fatta strada l'idea che in fondo, quando le aziende pubbliche sono ben gestite, non vi è grande fretta di privatizzarle. Dopotutto, possedere aziende ben amministrate è un buon affare anche per lo Stato: nei mesi scorsi il ministero del Tesoro ha incassato da Enel, Eni e Stet dividendi per quasi 3 mila miliardi. Come dimostrano i progetti volti a far entrare l'Enel nel settore delle telecomunicazioni e l'Eni in quello dell'energia elettrica, un buon amministratore può accrescere rapidamente il valore dei monopoli pubblici che gli sono affidati. Chi ci assicura che azionisti privati gestirebbero meglio queste aziende? Le recenti disavventure di alcune imprese private (la grave crisi dell'Olivetti, la scomparsa dell'industria farmaceutica italiana, i successivi guai della Gemina, gli insuccessi della Comit nei tentativi di costruire una banca di dimensioni eu

ropee) sono segnali di un capitalismo incerto, spesso incapace di confrontarsi con un mercato sempre meno protetto, talvolta anche più timoroso dello stesso governo dell'Ulivo nell'affrontare il ricambio generazionale. Insomma, la vera ragione del ritardo delle privatizzazioni non è Bertinotti, ma una convinzione che va diffondendosi a poco a poco: non sarà forse l'Ulivo l'azionista migliore?

E così di vendere l'Enel non si parla più. Il governo si rifiuta di collocare sul mercato oltre il 49% delle azioni dell'Eni, nonostante il loro successo lasci prevedere che si potrebbe fare molto di più. L'Iri ha deciso di cedere a privati solo il 45% degli aeroporti di Roma. Anche quando la vendita sarà totale, come nel caso di StetTelecom, lo Stato, attraverso la golden share, conserverà il diritto di vietare una compravendita di azioni fra privati, in tal modo rendendo aleatorie le scalate in Borsa, e così ostacolando il meccanismo che dovrebbe garantire l'efficienza di un'azienda.

Sono convinto che se si potessero cancellare gli impegni assunti con la Commissione europea, probabilmente verrebbe rimandata anche la privatizzazione di StetTelecom. Abbagliati dall'improvvisa redditività delle aziende pubbliche, si dimentica che far fruttare un monopolio non è molto difficile, ma soprattutto si tende a sottovalutare i rischi del capitalismo di Stato.

»Anche il capitalismo privato nella Prima Repubblica non ha funzionato? . A questa domanda l'Avvocato Giovanni Agnelli rispondeva (Corriere, 20 febbraio 1996): »Certamente. Diciamo che gli anticorpi non hanno funzionato. Ma dovevamo scendere a patti con i politici e con l'impresa pubblica. Se in Italia, dopo cinquant'anni, la Fiat non è finita all'Iri o in mani estere è già un miracolo .

A ben pensarci non si è trattato di un miracolo, bensì della degenerazione di un rapporto tra Stato e imprese private che in Italia ha radici lontane. Ricordando la figura di Alberto Beneduce, fondatore nel 1925 dell'attuale Crediop (Credito per le imprese e le opere pubbliche) e poi primo presidente dell'Iri, Marcello De Cecco scrive: »Circondando le banche e i grandi gruppi industriali che da esse dipendevano di un cordone sanitario rappresentato dagli istituti di credito speciale, riuscì a Beneduce di spegnere le fiamme del grande incendio dei primi anni Trenta operando una riforma delle nostre strutture finanziarie che ha dominato la vita economica per i sessant'anni successivi. Si creò così un sistema assai più simile a quello dei Paesi del socialismo reale che a quello dei vari capitalismi nazionali. Alla finanza basata sul rischio si sostituì quella basata sulla garanzia statale .

Il modello funzionò bene negli anni dell'autarchia, e anche nel primo dopoguerra, finché le economie europee rimasero relativamente chiuse, e comunque finché la regìa fu affidata a uomini come Beneduce, Sinigaglia, Menichella e Visentini.

Ma negli anni Sessanta, con l'ingresso nel Mercato comune europeo, anziché evolvere verso il mercato, il modello degenerò, e non solo perché il castello costruito da Beneduce cadde in altre mani. Si saldò, tra lo Stato e i grandi gruppi industriali privati (i pochi che erano rimasti dopo la nazionalizzazione delle aziende elettriche e la crisi dell'industria milanese) un contratto implicito: il peso delle aziende pubbliche nell'economia raddoppiò (dal 12 per cento del 1963 al 20 del 1979) sottraendo ai privati ampi spazi di mercato, non solo in industrie che richiedono grandi investimenti a redditività differita, come l'elettricità, i telefoni, la siderurgia e l'aeronautica, ma anche nella meccanica, nell'impiantistica, nel vetro e, caso estremo, nell'industria alimentare. In cambio lo Stato garantiva ai privati un'ampia protezione dalla concorrenza internazionale: attraverso alcune restrizioni agli scambi che sopravvissero all'ingresso nel Mercato comune (per esempio con alcune quote sulle importazioni,

ancor oggi in vigore); con la politica degli appalti pubblici; ostacolando l'ingresso di concorrenti stranieri nel mercato italiano: quando un privato falliva comprava lo Stato, solo di rado un concorrente estero; attraverso l'isolamento del mercato finanziario italiano da quello internazionale, che peraltro consentiva allo Stato di coprire i propri disavanzi a condizioni favorevoli. Ma soprattutto lo Stato non interferiva con le regole del mercato in cui si scambiano la proprietà e il controllo delle aziende, rinunciando a imporvi maggiore trasparenza e concorrenza: la Consob venne istituita solo nel 1974 e la legge sulle offerte pubbliche di acquisto (Opa) non prima del 1992.

Non ci si può allora meravigliare se il capitalismo italiano appare incerto, incapace di rinnovarsi, poco preparato a confrontarsi con un mercato che oggi è sempre più difficile proteggere. L'Italia sarà forse la sesta potenza industriale del mondo, ma la nostra presenza nei settori alla frontiera della tecnologia è pressoché inesistente, e tra i Paesi industrializzati rimaniamo l'unico a non avere alcuna istituzione finanziaria di livello internazionale. Forse non è un caso che le nostre aziende di maggior successo siano quelle cresciute al di fuori del circuito pubblico: Benetton, Della Valle, Luxottica (Del Vecchio), aziende familiari che hanno sempre venduto più all'estero che in Italia, comunque mai allo Stato, che si sono quotate in Borsa a New York prima che a Milano, e le cui produzioni richiedono investimenti scarsi e tecnologicamente semplici.

»Vorrei imprese private più profittevoli e più forti, e magari (è questione di gusti) che non producessero tutte merendine (Pierluigi Bersani, ministro dell'Industria, Corriere 12 maggio 1997). Se davvero le vuole, il suo compito è uno solo: privatizzare, liberalizzare i mercati e imporre più concorrenza a tutti. Innanzitutto ai grandi monopoli pubblici: se consentirà che questi si trasformino in Leviatani finirà per »privatizzarli cedendone il controllo alle grandi banche pubbliche, oppure attraverso incroci azionari tra gli stessi monopoli pubblici. Quando egli consente a un grande monopolista come l'Enel di entrare nelle telecomunicazioni, e all'Eni di spaziare dal gas all'energia elettrica, forse queste aziende si valorizzano, ma nel contempo gli spazi del mercato si restringono, e soprattutto si perpetua un circolo vizioso in cui la linea di demarcazione fra pubblico e privato è fissata per accordo fra le parti: è un gioco che i privati hanno imparato da tempo, ma che non funziona più in un m

ercato sempre più integrato.

Anche ai privati va imposta più concorrenza, innanzitutto nel mercato in cui si scambiano la proprietà e il controllo delle aziende: il governo dispone di una delega, per la riforma del diritto societario e della legge sull'Opa: non la usi solo per modificare il ruolo del collegio dei sindaci nelle società per azioni. Pensare di ricostruire il modello di Beneduce combinando il capitalismo dei monopoli dell'Ulivo con la ristrutturazione del sistema bancario guidata dalla Banca d'Italia, il tutto sotto l'occhio vigile del Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, sarebbe un grave errore, non ultimo perché continuerebbe a illudere i privati che neppure essi debbano cambiare.

Il punto

E con il lancio di tre frecce

il Quirinale torna in gioco

Stefano Folli

L'intenzione era senza dubbio positiva: riconoscere il ruolo moderato e innovativo svolto da Fini

nella Bicamerale, e così facendo tenere agganciata Alleanza nazionale al progetto della nuova

Costituzione che comprenderà l'elezione diretta del capo dello Stato. Nella pratica le parole di

Scalfaro sono un imprevisto di cui gli altri protagonisti della Bicamerale, a cominciare da

D'Alema, avrebbero fatto volentieri a meno. E' un fatto che il presidente della Repubblica ha

offerto a Fini l'alloro del »maggior vincitore proprio nel momento in cui il presidente della

commissione (e con lui Berlusconi, Marini) si sforzava di destreggiarsi tra le polemiche e le

critiche del giorno dopo. Ma D'Alema non è stato nemmeno citato dal Quirinale, al pari di

Berlusconi e di altri.

Ne deriva una singolare novità. Dopo anni di asprezze, il Quirinale e Alleanza nazionale hanno

voltato pagina. Scalfaro rivolge a Fini un impegnativo complimento e quasi nelle stesse ore (certo

per una coincidenza) gli uomini dell'ex Msi dicono di vedere possibile una riconferma del

presidente della Repubblica, sia pure con un mandato a termine. Nel frattempo rimbalza nelle

redazioni dei giornali l'arringa di Di Pietro: una sorta di appello al popolo perché liquidi il

prodotto della Bicamerale nel referendum finale; la profezia lascia intravedere una »solenne

bocciatura per l'intera classe politica, dopo di che la strada sarà sgombra per eleggere la

Costituente.

Qual è il nesso tra eventi così diversi? La risposta più ovvia è che sta cominciando la seconda

fase delle riforme, con la doppia lettura in Parlamento. Ormai esistono due fronti che si stanno

organizzando. Il fronte dei partiti, fondato sul quadrilatero D'AlemaBerlusconiFiniMarini

(quest'ultimo in rappresentanza di un'area che comprende anche Casini e Buttiglione). E il »fronte

del no , fuori o ai margini del Parlamento. Un fronte a cui Di Pietro offre il suo braccio, ma che

comprende Mario Segni, un taciturno Francesco Cossiga, alcuni dei »professori e in un certo

senso Pannella.

Rispetto ai due fronti e al loro prevedibile scontro, il Quirinale non intende restare agnostico.

L'attivismo di Scalfaro rivela invece la volontà di seguire passo passo il processo riformatore. In

fondo ieri il capo dello Stato ha lanciato tre frecce in tre diverse direzioni. Con la critica all'uso

esagerato dell'arma referendaria ha rivolto un attacco a tutti coloro che ammiccano alla

»democrazia diretta . Ossia ha delegittimato, in un momento cruciale, il »fronte del no che si sta

attrezzando.

La seconda freccia Scalfaro l'ha diretta contro l'asse che ha sorretto la Bicamerale, vale a dire il

rapporto D'AlemaBerlusconi. Ponendo Fini sugli scudi, il capo dello Stato ha riconosciuto una

verità, cioè la svolta »costituente della destra. Ma ha pure sparso non poca zizzania nel campo

dell'Ulivo e di Forza Italia. Bastava vedere il nervosismo di Berlusconi e D'Alema ieri sera a

Porta a Porta. Per buona misura Scalfaro ha anche fatto un'allusione trasparente alla mediocrità

dell'attuale classe politica.

Il messaggio è forse questo: il Quirinale non vede con favore che la nuova Costituzione nasca da

una relazione prevalente, per non dire esclusiva, tra D'Alema e Berlusconi. E quindi Scalfaro si

adopererà nei prossimi mesi perché le altre voci (dei partiti medi e minori) si facciano sentire. Il

che potrebbe allungare il percorso delle riforme. Lo dimostra il fermento che già accompagna la

legge elettorale, con il Pds che non nasconde il suo desiderio di ancorarsi a un sistema

maggioritario, nonostante gli ordini del giorno della Bicamerale.

Infine la terza freccia riguarda il tema, certo prematuro e un po' lunare, della proroga del

mandato presidenziale. Scalfaro, che è disponibile, auspica una soluzione fondata sul »cemento

costituzionale . Il riferimento è forse a una legge costituzionale che preveda, ad esempio, una

rielezione circoscritta a un paio d'anni. Ma è curioso che si consideri già l'ipotesi di un

Parlamento incapace ad approvare in tempo le riforme. E sono i partiti a spargere questa

impressione. Coltivando la pianta dello scetticismo che altri (Di Pietro, Segni) si preparano a

cogliere.

 
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