MA VI CHIEDO
PIU CORAGGIO
di LAMBERTO DINI
Il ministro degli Esteri ha inviato a "Repubblica" una
letteraappello a Berlusconi, D'Alema, Fini e Marini
LE NOTE discordanti che hanno accompagnato la chiusura
dei lavori della Bicamerale, e che hanno riguardato in modo
trasversale praticamente tutte le forze politiche, inducono a
porre alcune domande sull'adeguatezza e l'efficacia dei
risultati raggiunti. Pur senza indulgere a sterili velleitarismi, mi
chiedo e vi chiedo, in che modo senza accontentarci di
soluzioni basate unicamente sulla ricerca del minimo comune
denominatore possiamo migliorare l'intesa e corrispondere
meglio alle attese dei cittadini in tema di stabilità e di
governo efficiente.
NELLO stesso tempo, lancio un appello a collaborare
strettamente a tal fine in Parlamento, mettendo da parte ogni
interesse individuale a beneficio di quello collettivo, per
perseguire quell'accordo alto che ispirò il varo della
Bicamerale e che è il solo in grado di assicurare al Paese
istituzioni all'altezza anche delle sue crescenti responsabilità
internazionali.
1) La Bicamerale doveva scegliere fra semipresidenzialismo
e premierato forte. E stata preferita la prima soluzione. Ed è
già una importante scelta, diciamo, di principio. Spetterà al
Parlamento definirla compiutamente. Conviene, tuttavia,
chiarirci fin da ora le idee sull'intento animatore e lo scopo
essenziale di questo aspetto della revisione costituzionale.
Se la Bicamerale ha ritenuto di dover optare fra
semipresidenzialismo e regime del primio ministro, è perchè
era investita del mandato di proporre alle Camere un tipo
credibile di democrazia maggioritaria, conformemente alle
scelte che, per via referendaria, i cittadini italiani avevano
compiuto nel 1993. Ecco il punto da tenere fermo, se
vogliamo rimuovere gli equivoci che possono minare la
riforma alle basi. Il bipolarismo, dunque. Da noi, esso è
ancora iniziale, e si tratta di consolidarlo. Si dirà che non
siamo maturi per un bipartitismo nettamente configurato.
D'accordo. Dobbiamo, però, invertire la tendenza al
frazionamento dei partiti.
La democrazia maggioritaria funziona, infatti, quando si
formano due grandi coalizioni elettorali capaci di alternarsi
effettivamente al potere. Solo allora la maggioranza di
votanti è in grado di scegliere quale delle due coalizioni
regge il Paese. Lo schieramento partitico va semplificato per
attribuire decisiva importanza al concreto esercizio della
sovranità popolare mediante il diritto di voto. Questa è la
logica alla quale deve, coerentemente, rispondere sia il
sistema di governo, sia quello per l' elezione della Camera.
2) Il semipresidenzialismo soddisfa le esigenze della
riforma. A certe condizioni, però. Non perdiamole di vista.
L'elezione diretta del Presidente della Repubblica non può
essere un semplice rito della democrazia. A giustificarla è la
posizione costituzionale riservata in regime
semipresidenziale al Capo dello Stato, il quale è investito,
insieme con il tradizionale ruolo di rappresentante dell'unità
nazionale, moderatore delle istituzioni e garante della loro
continuità, del potere di ingerirsi nella sfera della politica
attiva, sia pure dell'alta politica. Il vero
semipresidenzialismo lo troviamo solo come in Francia
dove il Capo dello Stato ha funzioni di governo e dispone
dei mezzi per poterle esercitare.
3) Ora, non si tratta di adottare in blocco il
semipresidenzialismo di tipo francese, ma di adattarlo
opportunamente al nostro caso. Quel che è essenziale, è che
al Capo dello Stato siano attribuite funzioni di governo.
Quante e quali, rimane da vedere. Nessuno, per esempio,
pensa a introdurre uno speciale potere presidenziale per le
emergenze istituzionali, come è previsto in Francia. Deve
esservi, però, chiarezza e certezza di attribuzioni. Occorre,
ma non basta, configurare le ipotesi in cui gli atti del
Presidente della Repubblica sono sottratti al vincolo della
controfirma ministeriale. Il Consiglio supremo per la politica
estera e la difesa è presieduto, secondo il testo licenziato
dalla Bicamerale, dal Capo dello Stato e va concepito,
senza ambiguità, come una vera e propria struttura di
governo. Il potere di scioglimento delle Camere va, poi,
conferito al Presidente della Repubblica in via generale,
salve le limitazioni di ordine temporale che concernono
l'ultimo semestre del suo mandato o che sono disposte per
garantire la durata minima della legislatura.
La formula passata in Bicamerale è, invece, riduttiva: le
Camere possono essere sciolte solo quando il governo è
sfiduciato e negli altri casi in cui è tenuto a dime ttersi, che
sono tassativamente elencati. Il potere di scioglimento è,
però, un naturale appannaggio del Capo dello Stato eletto
dal popolo: è un potere indispensabile non soltanto per la
moderazione dei rapporti fra Camere e governo, ma anche
per la necessaria libertà di apprezzamento che spetta al
Presidente nello sciogliere i nodi della sua eventuale
"coabitazione" con il Primo Ministro. Guardiamo, del resto,
in faccia la realtà italiana. Il nostro Paese è avviato al
bipolarismo a ogni livello delle competizioni elettorali, e
viene acquistando la coscienza della democrazia diretta
come regola e costume della vita politica. Chi è scelto dalla
maggioranza governa. Se il Presidente eletto dal popolo
resta privo di attribuzioni adeguate al suo ruolo, vi sarà al
vertice dello Stato un organo esposto al rischio di scottanti
contraddizioni: legittimato dall'investitura maggioritaria,
delegittimato dall'insufficienza dei poteri di decisione. Se il
Presidente ha la stoffa e l'eloquenza del grande
comunicatore, potrà accendere le aspettative degli elettori,
che credono di affidargli il proprio destino, ma poi trovarsi
costretto a deluderle. Se non può sciogliere le Camere in cui
è insediato un governo che gli è ostile, il Presidente farà la
fine dell'inascoltato "grillo parlante", a meno che non sappia
"mobilitare" le masse.
4) Non scivoliamo, quindi, nell' errore di assumere che
l'elezione diretta conferisca da sola al Presidente non si sa
bene quale invincibile potere di fatto. E un errore che può
generare altri abbagli. La Bicamerale ha addirittura ridotto i
poteri attualmente attribuiti al Capo dello Stato con riguardo
allo scioglimento delle Camere. E un compromesso per
contenere il semipresidenzialismo nelle strettoie di un
parlamentarismo di altri tempi? I compromessi si giustificano
quando apportano un utile contributo per allargare il
consenso sulle sceltechiave della riforma. Questo
compromesso non è, però, né costruttivo né coerente con il
regime politico che si vuole istituire.
5) In conclusione, il semipresidenzialismo è stato preferito
all' altra proposta, il premierato forte, che avrebbe eliminato
il dualismo dal vertice dell'esecutivo, conferendo la guida del
governo esclusivamente al Primo Ministro. Anche questa
sarebbe stata una schietta riforma di democrazia
maggioritaria. Occorreva adottarla, s'intende, con una legge
elettorale che incentivasse le coalizioni, assicurando la
nomina a Primo Ministro del leader della coalizione vincente.
La stabilità del governo preferito dal corpo elettorale
avrebbe potuto essere garantita con il prevedere lo
scioglimento anticipato della legislatura in caso di sfiducia o
rottura della maggioranza uscita dalle urne.
Quale senso avrebbe mai ricorrere al semipresidenzialismo,
ma poi annacquarlo per lasciar sopravvivere il regime della
Prima Repubblica, in cui spariscono le garanzie per la
stabilità del governo? Si proclamerebbe una grande riforma
che non c'è. Il pensiero corre alle fatidiche vittorie dell'
Asse, annunziate a titoli cubitali nei giornali del regime
fascista, di cui, ci ricorda Piero Calamandrei, gli strilloni
fiorentini dicevano sottovoce: "Non ci credete". La verità è
che le regole del gioco sono, nella democrazia maggioritaria,
dure e forse scomode. Dobbiamo, tuttavia, accettarle senza
interessati calcoli di parte. Altrimenti ci troveremo al punto
di prima, e con molti problemi in più.