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Partito Radicale Rinascimento - 2 luglio 1997
Da "Il Manifesto" del 2/ 7/97 pagg. 6 e 7

Il senso di un ritorno

PAOLO VIRNO PARIGI

L A FESTA per salutare Toni Negri, che ritorna in una Italia formato cella, si tiene nella grande casa di una amica, a

Montparnasse, la sera di venerdi 27 giugno. In strada, sotto la pioggia, incontriamo un signore gentile e impacciato, che non riesce a trovare il numero civico. Si presenta: Etienne Balibar. L'appartamento è affollato da diverse tribù, che si amalgamano con disinvoltura: filosofi tutt'altro che ignoti, militanti, vagabondi, artisti, sindaci dei comuni rossi della cintura a nord di Parigi, la redazione di "Futur Antérieur" (la rivista che Negri ha contribuito a fondare e ha diretto). I francesi sono turbati, preoccupati per il viaggio negriano in quel sottoscala del Palazzo che è Rebibbia; più degli italiani, abituati al carattere esotico del nostro sistema giudiziario, nonché all'idea che il carcere sia parte integrante della battaglia politica. Quello che si scorge a occhio nudo è lo spesso intreccio di relazioni (intellettuali, politiche, ludiche) istituite in un arco di molti anni. L'esilio non è stato un meno algebrico, ma uno spaziotempo gremito di intraprese, riviste, libri (è appena uscita la traduzio

ne francese di Il potere costituente, da Seuil), qualche cauto intervento nei conflitti di massa succedutisi in terra di Francia. Chi immaginasse questa festa, conclusa da Oreste Scalzone che intona un sarcastico "Parigi o cara, noi forse un giorno ti rivedremo", come un consesso di reduci sgomenti o incattiviti, sbaglierebbe. Non è una riunione della Bicamerale.

Il giorno seguente converso a lungo con Toni. Niente trucchi: chiamarla intervista è improprio, trattandosi piuttosto di una chiacchierata tra due amici, che hanno condiviso la stagione di "Potere operaio" (19691973), il processo "7 aprile", una cella a Rebibbia e a Palmi, e poi, negli ultimi dieci anni, ricerche sul lavoro intellettuale di massa, il nuovo spazio pubblico, postfordismo e affini, la fisionomia peculiare del fascismo postmoderno. Domina inevitabilmente l'ellissi e lo stile telegrafico. Interrotto spesso e volentieri dall'alta marea delle visite, e dal telefono, il dialogo tocca alcuni aspetti della parabola lunga e complicata di questo antico redattore dei "Quaderni Rossi". Per cominciare, chiedo a Toni di parlare di ciò che la festa della sera prima ha evocato in modo, per così dire, carnale: le opere e i giorni (e i visi e le voci) dell'esilio.

Negri recita un suo personale "il catalogo è questo" a proposito del periodo parigino (19831997). "I primi tempi hanno avuto un che di stentato e amarognolo. Per due o tre anni, più che rifugiati politici, siamo stati emigranti illegali: veri e propri sans papier, assillati dai problemi materiali, spesso spaventati dalla nostra stessa ombra, incerti, rannicchiati negli interstizi della società francese. Forse non è un caso se proprio in quel periodo ho scritto il libro su Leopardi (Lenta ginestra) e quello sul biblico Giobbe (Il lavoro di Giobbe). Intrattenimenti solitari, con qualche venatura malinconica. Poi, le cose sono cambiate. E' ricominciata un'attività teorica collettiva, in forme pubbliche. Ci sono state le discussioni serrate, per me indimenticabili, con Guattari, Deleuze, JeanPierre Faye, Derrida, VidalNacquet, JeanMarie Vincent, Balibar. Attorno al 198788, con alcuni compagni italiani rifugiati abbiamo cominciato ad analizzare l'organizzazione produttiva postfordista e il lavoro immateriale. Que

sti temi stanno alla base della rivista "Futur antérieur", che nascerà nel 1990, in felice coincidenza con la caduta del muro di Berlino. Ma sono anche i temi di una serie di ricerche sul campo, commissionateci dal Ministère du Travail e dal Ministère de la Ville. Penso alla ricerca sul ciclo Benetton, all'inchiesta sui 250.000 lavoratori della moda che operano a Parigi, allo studio sulla trasformazione del comune di Saint Denis (l'equivalente della nostra Sesto San Giovanni) da agglomerato della vecchia industria meccanica a centro di servizi. Conviene aggiungere che la nostra permanenza qui è stata segnata in modo molto concreto dalle lotte sociali che hanno scandito l'ultimo decennio francese. Questi conflitti, sorti dentro e contro il postfordismo, sono stati una

specie di seconda patria".

Propongo a Toni un salto all'indietro. Dall'ultima puntata, l'esilio, alla prima, quegli anni Sessanta in cui prese corpo la tradizione dell'operaismo italiano. "Forse solo oggi, dopo la fine catastrofica del socialismo reale (e ideale) questa tradizione teorica è divenuta pienamente attuale. Solo ora la critica del lavoro salariato e della formaStato mostra per intero il suo pacato realismo. A me pare l'unico spartito filosofico e politico in grado di fare i conti con la fine del fordismo e del keynesismo; più in generale, con gli assetti materiali e culturali detti postmoderni. Evitando sia la nostalgia del "vecchio" che i compromessi ammiccanti con il "nuovo". E' curioso, ma a distanza di qualche decennio l'operaismo mostra per intero la propria distanza da posizioni che allora (anni '60 e '70) sembravano limitrofe, mentre ha qualcosa da dire nel dibattito contemporaneo sulla fine irreversibile della piena occupazione. Ma questa potrebbe sembrare una rivendicazione di assoluta continuità, tanto cocciuta q

uanto fatua. E invece, di svolte e fratture, se ne contano, eccome.

Da Panzieri a Foucault

"Un passo decisivo è stata la sprovincializzazione dell'operaismo. Si è avuta una contaminazione non occasionale tra i nostri temi e il lessico concettuale del poststrutturalismo francese (Foucault, Deleuze, Guattari); ci si è rivolti alla filosofia del linguaggio per meglio determinare il concetto odierno di produzione (centrato per l'appunto su pratiche comunicative); e poi, mette conto ricordare un rapporto fecondo con la nuova antropologia nordamericana, e anche, non da ultimo, con alcuni straordinari economisti indiani come Amartya Sen. Un esempio: oggi, più che di "sottomissione reale" del lavoro all'impresa (è la classica formula di Marx), parlerei di una vera e propria produzione di soggettività da parte del capitalismo postmoderno. "Produzione di soggettività" significa produzione di attitudini e di mentalità, governo sull'insieme delle facoltà psicofisiche umane, intreccio di etica, linguaggio e lavoro. La produzione capitalistica di soggettività implica una presa diretta sulla vita: è la biopoliti

ca su cui si sofferma Foucault".

Propongo a Toni di riconsiderare insieme l'impasto di sconfitta ed errori che ha marchiato i movimenti sovversivi italiani. Il punto delicato è la distinzione tra i due aspetti, dato che il tratto più tipico di ogni autentica sconfitta è di celarsi alla vista, camuffandosi da sequela di errori commessi dai vinti. Diradare la confusione sarebbe utile. "La sconfitta è quella subita attorno al 1977. Ripetiamolo ancora una volta: a metà degli anni Settanta il fordismo è in crisi, comincia la ristrutturazione del mercato del lavoro e della giornata lavorativa sociale. Siamo dunque in una classica fase di transizione, stretta tra un "non più" e un "non ancora". Per nominare il soggetto che abitava questa terra di nessuno abbiamo usato la formula "operaio sociale": niente di misterioso, è stato solo un modo di indicare la perdita di centralità della grande fabbrica, l'instabilità dell'occupazione, l'alto grado di scolarizzazione della nuova forzalavoro. La sconfitta consiste nel non aver anticipato quella "rivoluzi

one dall'alto" che è stato il postfordismo".

D'accordo, ma dove alligna l'errore? "Gli errori sono quelli di ogni 1905... Voglio dire: di ogni inaugurazione tumultuosa di una fase interamente nuova, nel nostro caso la fase caratterizzata dalla rivoluzione informatica e da un riassestamento della produzione attorno ai servizi e alla comunicazione. Errori tipici dell'estremismo: sopravvalutazione delle proprie forze, sottovalutazione di quelle dell'avversario. Le nuove figure del lavoro sociale, che allora si affacciavano sulla scena, avevano bisogno di tempo per crescere e farsi valere. Tempo e trattativa. L'estremismo bruciò le tappe, accelerò, imboccò vie fin troppo note, ebbe reazioni pavloviane. Il nostro errore è stato quello di non essere abbastanza... "autonomi", se per "autonomia" si intende una forma di politica radicalmente autodeterminata e non rappresentativa, lontana dai canoni del movimento operaio storico. Nel nostro estremismo, più che un eccesso di ardimento, va riconosciuto semmai un eccesso di timidezza. Un estremismo a tratti conserv

atore: ecco il punto".

Osservo: attorno al movimento del '77, si giocò l'ultimo tentativo di organizzare politicamente figure emergenti della produzione sociale. Per l'ultima volta, politica e lavoro furono in stretto contatto. In seguito, l'analisi s'è approfondita, si è discusso in modo circostanziato di lavoro immateriale, intellettualità di massa, lavoro autonomo, ma mai più si è avuto tra le mani il bandolo di un processo organizzativo. Negri si inquieta: "Certo che no. Il bandolo non l'abbiamo avuto noi esiliati e condannati, né le migliaia di compagni che vivevano una condizione di "esilio interno" in Italia; meno che meno i superstiti volenterosi del movimento operaio tradizionale. A cogliere alcune forme di soggettività tipiche del postfordismo sono stati la Lega e, per una certa fase, Berlusconi. Quando si fa una affermazione del genere, arriva subito qualcuno a darti sulla voce, accusandoti di tradimenti multipli, cinismo, spregiudicatezza e via cantando. Cosa rispondere? Va da sé che Lega e Berlusconi hanno attinto al

bacino sociale postfordista alla loro maniera, segmentando, gerarchizzando, mistificando: sono mostruosi fratelli gemelli che crescono su un terreno che avrebbe dovuto essere nostro. Fa male sentirselo dire? Pazienza. Fa più male che sia andata così".

L'evasione e il ritorno

Dico a Toni che della sua fuga, o evasione, del 1983 conviene discutere una volta ancora, nel momento in cui egli sembra compiere un gesto speculare tornando in carcere. Su quell'episodio si soffermano in tanti, alcuni facendo sfoggio di virtuosa indignazione: indignazione per la fuga, non per quattro anni e mezzo di carcere speciale preventivo, o per il linciaggio a mezzo stampa, o per un parlamento che (caso più unico che raro) lavorò a ferragosto pur di chiudere in fretta la pratica. E allora, affrontiamolo di petto questo malanimo. Negri risponde: "Una premessa: è assurdo sostenere in linea di principio che l'innocente, se veramente tale, deve consegnarsi alle patrie galere. Ogni mistica sacrificale è fuori posto. Salvemini, che non era un autonomo, aveva pur detto che in Italia, se ti accusano di aver stuprato la madonnina del duomo di Milano, fai meglio a riparare subito in Svizzera... Siamo seri. Ricordiamoci, per favore, del 1983. La mia candidatura era stata proposta contro una carcerazione preventi

va allucinante; ma i giudici di primo grado erano decisi a comminare, di lì a pochi mesi, il massimo della pena, condannando me e gli altri compagni per tutti i reati, omicidi inclusi, così da levare il terreno sotto i piedi alla campagna di libertà che si era sviluppata sul mio nome. Questo sapevo e vedevo. Per restare, occorreva un delirio di onnipotenza, che, francamente, non mi appartiene. Torno ora perché, almeno sulla carta, la soluzione politica per i reprobi degli anni '70 è diventata del tutto matura. Ragioniamo: giacché hanno sovraccaricato il mio nome di simboli negativi, vien da credere che trovare una soluzione per Negri significhi trovarla per tutti. L'eventuale liberazione del peggiore tra i "cattivi maestri" non ammette che si lascino in sospeso ulteriori residui. Diventa realistico un provvedimento completo: il rientro degli esuli, un indulto efficace, l'amnistia per quei reati associativi che restano veri randelli levati sui movimenti di trasformazione. Oggi, forse, oltre a essere parte de

l problema, posso diventare un frammento della soluzione. Se così è, vale la pena rischiare".

 
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