Strasburgo, 15 luglio 1997
L'Associazione "Comitato Promotore dei Referendum", costituita da alcuni responsabili del Movimento del Club Pannella Riformatori allo scopo di promuovere la raccolta delle firme necessarie al deposito di quesiti referendari presso la Corte di Cassazione, e i membri dei comitati promotori costituiti in seno all'Associazione presentano alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo un ricorso contro la Repubblica Italiana ex articolo 25 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (di seguito "La Convenzione").
I ricorrenti lamentano che le sentenze del 30 gennaio 1997, con le quali la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibili dodici dei diciotto referendum promossi dall'Associazione, violano i dritti garantiti da diverse disposizioni della Convenzione. Le sentenze della Consulta producono, in particolare, l'effetto di recare pregiudizio ai diritti di cui all'articolo 3 del Primo Protocollo ed all'articolo 10 della Convenzione, diritti che la Repubblica Italiana si è impegnata, sul piano internazionale, a salvaguardare.
L'articolo 3 del Primo Protocollo dispone: "Le Alte Parti contraenti si impegnano ad organizzare, ad intervalli ragionevoli, libere elezioni a scrutinio segreto, in condizioni tali assicurare la libera espressione dell'opinione del popolo sulla scelta del corpo legislativo". La Commissione e la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, nell'applicare questa disposizione, si sono mostrate poco propense a limitarsi ad un'interpretazione letterale, preferendo piuttosto adottare i metodi dell'interpretazione sistematica e teleologica. E' così, in particolare, che esse sono pervenute alla conclusione che l'articolo 3 del Primo Protocollo garantisce diritti soggettivi di partecipazione, superando l'ostacolo della formulazione letterale della norma che non contiene alcun riferimento espresso a diritti o libertà fondamentali. La norma costituisce uno strumento di fondamentale importanza diretto a garantire il buon funzionamento dei principi democratici e di una "democrazia politica effettiva" ed è lo strumento predispost
o, sul piano internazionale, a garanzia della sovranità popolare.
Il ricorso prosegue ad esaminare le peculiarità del sistema costituzionale italiano, nel quale l'esercizio della funzione legislativa è attribuito a due entità distinte, vale a dire al Parlamento ed al popolo italiano attraverso l'istituto dei referendum abrogativi di cui all'articolo 75 della Costituzione Repubblicana. In Italia la sovranità popolare si esprime in sostanza tanto in via indiretta, attraverso la nomina dei rappresentanti del popolo nelle due Camere, quanto in via diretta, attraverso l'attribuzione al popolo di poteri di decisione, di controllo e di impulso in ordine all'attività legislativa di governo (sistema c.d. del doppio voto).
Il diritto a referendum abrogativi di cui all'articolo 75, comma I della Costituzione Repubblicana non può non considerarsi garantito dall'articolo 3 del Primo Protocollo. Se è vero, infatti, che il diritto dei cittadini di partecipare in via indiretta o mediata al processo legislativo attraverso l'Elezione degli organi rappresentativi è tutelato dall'articolo 3 del Primo Protocollo, a fortiori deve costituire oggetto di una simile protezione anche il diritto dei cittadini di partecipare in via diretta al processo legislativo, attraverso l'esercizio, sia pure limitato all'abrogazione di atti aventi valore di legge, di un potere legislativo loro conferito dalla Costituzione.
Un tale approccio interpretativo è d'altronde suffragato dalla risoluzione dell'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa del 22 aprile 1997 "relativa agli strumenti di partecipazione dei cittadini alla democrazia rappresentativa" in cui si sottolinea l'importanza per il buon funzionamento dei sistemi democratici dell'istituto del referendum e si invita, inter alia, gli Stati contraenti a migliorare il loro sistema di democrazia rappresentativa.
In base a tali premesse, i ricorrenti considerano che le sentenze della Corte Costituzionale del 30 gennaio 1997 hanno per effetto di violare, sopprimendolo del tutto, il diritto del popolo italiano all'indizione di referendum abrogativi. L'esempio più macroscopico di tale violazione è costituito dalla sentenza n. 26, con la quale la Consulta ha rigettato l'ammissibilità dei referendum per l'abrogazione di alcuni articoli delle leggi elettorali della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica. Il fine perseguito dalle richieste di referendum popolari in questione era di scorporare dalle leggi summenzionate il complesso delle disposizioni che le disciplinano o che comunque richiamano il sistema di attribuzioni di un quarto dei seggi di ciascun ramo del Parlamento con il metodo proporzionale, con la finalità, intrinseca all'atto abrogativo proposto, di ottenere un sistema totalmente maggioritario uninominale. La Corte Costituzionale rigetta l'ammissibilità delle richieste di referendum considerando che
l'eventuale risultato abrogativo farebbe sorgere il problema della ridefinizione dei collegi elettorali e la normativa che ne risulterebbe non sarebbe in concreto applicabile, con impedimento per il rinnovo dell'assemblea rappresentativa. Tale pronuncia viola non soltanto il dettato costituzionale di cui all'articolo 75, comma 2, che contiene un elenco tassativo di atti legislativi per i quali non è ammesso il referendum, senza alcuna menzione delle leggi elettorali, ma anche, sul piano internazionale, un principio generale di proporzionalità. Quest'ultimo implica, in particolare, che, per essere legittime, le restrizioni o limitazioni dei diritti garantiti dalla Convenzione devono (i) perseguire un obiettivo legittimo d'interesse generale; (ii) essere appropriata rispetto all'obiettivo che si intende perseguire e, (iii) essere necessarie e non eccessive rispetto al perseguimento dell'obiettivo. Ciò significa, in particolare, che non devono esistere soluzioni alternative che, pur permettendo ad uno Stato con
traente di perseguire il fine ricercato, siano tuttavia tali da creare un effetto meno restrittivo dei diritti garantiti dalla Convenzione o dai suoi Protocolli. I ricorrenti considerano che l'obiettivo perseguito dalla Corte Costituzionale sia stato di natura schiettamente politica, vista la "delicatezza" delle materie oggetto dei quesiti che la Corte Costituzionale non ha ammesso.
Lo strumento utilizzato dalla Corte non è in ogni caso necessario rispetto al perseguimento dell'obiettivo di salvaguardia della costante operatività del Parlamento. E' possibile, infatti, individuare l'esistenza di soluzioni alternative che, pur permettendo alla Repubblica Italiana, di perseguire con pari efficacia il fine ricercato, sarebbero state tuttavia tali da non produrre un effetto restrittivo del diritto del popolo a referendum abrogativi.
I ricorrenti ritengono, inoltre, che le sentenze del 30 gennaio scorso violano il diritto alla libertà di espressione garantito dall'articolo 10 della Convenzione. Tali pronunce privano i promotori ed i firmatari delle iniziative referendarie di un loro diritto fondamentale, attinente nella maniera più diretta all'espressione di un'opinione, vale a dire il diritto a presentare i quesiti referendari al voto popolare. Il loro diritto viene, infatti, svuotato di ogni sostanza e la raccolta delle firme vanificata se le iniziative referendarie vengono sistematicamente cassate dalla Corte Costituzionale con motivazioni estranee rispetto al dettato dell'articolo 75 della Costituzione Repubblicana. Le sentenze di rigetto dell'ammissibilità delle richieste di referendum popolari producono poi l'effetto indotto di marginalizzare agli occhi del popolo anche le iniziative referendarie dichiarate ammissibili dalla Consulta, inducendo gli elettori, come dimostrano i risultati della votazione del 15 giugno scorso, ad asten
ersi dal voto.
In base a tali osservazioni, i ricorrenti invitano la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo a dichiarare che la Repubblica Italiana ha violato i diritti garantiti dalle disposizioni summenzionate della Convenzione ed a condannarla al risarcimento delle spese sostenute per promuovere le iniziative referendarie e dei danni morali. Queste spese comprendono le spese sostenute per la campagna referendaria e per la raccolta delle firme e sono stimate a lire italiane 30.059.168.088, mentre è lasciata all'apprezzamento della Corte la quantificazione dei danni morali.