LE BATTAGLIE DI MARCO NON FINISCONO MAI
di Clemente J. Mimun
(il Resto del Carlino - La Nazione - Il Giorno, 22 giugno 1998)
C'è un omone alto un metro e novanta, pieno di tubi e tubicini, costretto al riposo in una stanza isolata del policlinico a Roma. E' in prognosi riservata. Ha 68 anni e ha passato la vita tenendo fede alle sue idee, credendo fermamente nelle libertà riuscendo ad affermare anche nel nostro Paese alcuni principi importanti. E' Marco Pannella, quello del divorzio, dell'aborto, dell'obiezione di coscienza. Quello che per ragioni diverse portò in Parlamento Cicciolina, Tony Negri, Leonardo Sciascia e il povero Enzo Tortora. E' il Pannella della distribuzione della marijuana a Porta Portese e delle marce contro la fame nel mondo. L'uomo che più di ogni altro al mondo ha raccolto firme per promuovere referendum su tutto, che spesso ha vinto, talvolta è stato beffato, e non sempre con metodi ortodossi. E' il Pannella che detesta noi giornalisti, rei di un silenzio reiterato su mille delle sue battaglie.
Lotte, campagne, azioni nonviolente per obiettivi che hanno anche certamente diviso, che quasi sempre sono stati perseguiti in modo provocatorio, che hanno avuto il pregio di farci riflettere, di farci affrontare problemi spinosi, di farci decidere. Con quell'omone sul letto del reparto di terapia intensiva del policlinico romano c'è un gran pezzo della nostra storia recente.
Se oggi sta male è perché continua a pensare, progettare, muoversi, agitarsi, come trenta-quaranta anni fa.
E' uno che fuma 100 Gauloise al giorno, che ormai ha uno stomaco a fisarmonica, poiché ingrassa o dimagrisce - a seconda dei digiuni - 25/30 chili nel giro di poche settimane. Solo un irresponsabile - come Marco è nei confronti di se stesso - poteva mollare l'ospedale a pochi giorni da un poker di by-pass per manifestare di fronte a palazzo Chigi. Ma lui è così e non potrebbe, non saprebbe, essere altro.
Mi è capitato - e spero mi ricapiti al più presto - di mangiare un boccone nella sua bicocca nel pieno centro di Roma, a due passi da Parlamento e Quirinale, con Mirella, la sua compagna di sempre. Un paio d'ore a tavola senza parlare di politica, sollecitandolo con le mie curiosità sulla sua famiglia, la sua formazione. Per provare a capire come fosse davvero. E lui che raccontava della sua infanzia, del suo primo amore per una ragazzina ebrea di cui d'improvviso perse le tracce. Cominciavano le persecuzioni. Poi di una vacanza oltralpe e dell'incontro con un pastore protestante che gli spiegò cosa fosse la libertà, la tolleranza, la guerra. Poi un giovane che scappò di fronte alla chiamata alle armi perché di sparare non voleva proprio saperne. Pannella attribuisce le sue scelte di vita a quel periodo, a quelle lunghe conversazioni, al dolore per quell'amica perduta. E se ne parla si infervora: capisci, nel giro di poche settimane mi sono trovato di fronte all'odio razziale, ho percepito l'orrore della gue
rra, compreso l'importanza della scelta nonviolenta, sempre.
Insomma un predestinato. Chiacchiere e ricordi che si confondevano con spiegazioni dotte sul come si fa la pasta e fagioli a Teramo, sull'importanza dell'uso di un determinato olio d'oliva, sulla quantità di cipolla necessaria, sulla bontà della ricotta o della provola acquistata sotto casa.
Una piccola cucina-sala da pranzo-studio, in cui campeggiano uno strano presepe napoletano e un quadretto che raffigura il pane. E a pochi metri una foto sbiadita dello zio arciprete, un fax, un libro di Ernesto Rossi. Un mix inspiegabile se quella non fosse la casa di Pannella.
In questi giorni in molti ricordano il cinquantesimo anniversario del marco tedesco. A me non sembra irrilevante riflettere sul Marco nazionale con l'auspicio di poter tornare a litigarci presto, subito, e di non pensarlo protagonista di un pezzo di storia passata, ma anche di un bel pezzo di quella a venire.