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Archivio Emma Bonino commissario UE
Epoca - 2 aprile 1995
VEDETE QUESTI DISEGNI? E' L'INFERNO DEL RUANDA
IO CI SONO STATA E ORA VE LO RACCONTO

Un viaggio allucinante tra uccisioni, fame, malattie. Tutto annotato sul diario privato di Emma Bonino, commissario europeo per gli aiuti umanitari. Che al suo ritorno dall'Africa ce lo ha consegnato. Ve lo proponiamo. Integrale. Perché racconta una realtà sconvolgente e contiene un avvertimento: i massacri stanno per ricominciare.

di Emma Bonino - Epoca, 2 aprile 1995

Il massacro è ancora nell'aria. Tutto lascia pensare che possa ricominciare da un momento all'altro, che la quiete relativa degli ultimi mesi non sia destinata a durare. Il Ruanda si sta riprendendo a fatica dagli eccidi che il conflitto etnico fra i "lunghi" tutsi e i "corti" hutu ha provocato un anno fa, piange ancora il suo milione di morti e soffre una fame che il rapido sviluppo demografico rende più grande. Le tensioni si toccano con mano. I vincitori tutsi danno la caccia ai colpevoli del genocidio, le prigioni traboccano di reclusi, mancano tutti i principali fondamenti dello Stato di diritto, mentre i profughi sono ormai due milioni, non riescono a tornare a casa e nei campi dello Zaire si sente dire che gli hutu sconfitti stanno preparando la rivincita.

CHE COSA POSSIAMO FARE? I quattro giorni che ho passato fra Ruanda, Burundi e Zaire mi hanno permesso di comprendere meglio la situazione, di capire i meccanismi dell'intervento umanitario, ma mi hanno offerto ben poche soluzioni concrete per una regione che vive sull'orlo del cornicione. In meno di dodici mesi, l'Unione europea - attraverso Echo, il braccio che gestisce l'intervento comunitario d'urgenza - ha inviato nella regione dei Grandi Laghi africani oltre 1.600 miliardi di lire. Questi fondi, il 60 per cento dello sforzo dell'intera comunità internazionale, sono serviti per assistere l'immensa popolazione dei rifugiati senza che, come purtroppo inevitabile, si riuscisse a fare i necessari progressi sulla strada di uno sviluppo strutturale.

Adesso siamo al punto della svolta. E' chiaro che in mancanza di una stabilizzazione del quadro politico, l'impegno umanitario dell'Europa dovrà essere ridotto. Dobbiamo allora esercitare una pressione costante sui Governi di Ruanda e Burundi, tentando di favorire una soluzione del conflitto latente su base interregionale. Dobbiamo favorire i rimpatri e aumentare gli interventi strutturali, magari cominciando proprio dal lancio di un'operazione che consenta al governo di Kigali di organizzare un sistema giudiziario efficiente. Dobbiamo provare e provare. Il quadro è troppo precario per distrarsi anche un solo istante.

VENERDI' 10 MARZO (IN VOLO FRA BUJUMBURA E KIGALI).

Il bimotore Antonov dipinto di giallo e blu con i colori di Echo si alza pigramente dalla pista di Bujumbura. Sono quasi le sei pomeridiane e fra poco comincerà il coprifuoco. L'atmosfera nella capitale burundese è tesa. "Peggio di Chicago negli anni Trenta", dice qualcuno. Gli osservatori si attendono un disastro e nemmeno il governo di solidarietà etnica che hutu e tutsi hanno formato all'inizio del mese sembra poter tenere in pugno la situazione. I nostri rapporti dicono che la minoranza dei "lunghi", forti del controllo dell'esercito e delle principali cariche pubbliche, mira alla conquista del potere. Il Paese è spaccato, inerme. L'aiuto internazionale rappresenta il 30 per cento del prodotto lordo.

Siamo arrivati col sole in questo inizio della stagione delle piogge. All'aeroporto, una curiosa costruzione composta da diverse semisfere di cemento armato, ci ha accolto il segretario di Stato per la cooperazione, Nicolas Magyugi, che subito ha giocato la sua carta migliore, ovvero l'intenzione di varare un piano di riappacificazione. L'idea in verità sembra confusa, tanto che nemmeno il primo ministro Antoine Ndwayo riesce a fornire dettagli concreti.

Nel Paese ci sono 500 mila persone che hanno abbandonato la propia casa per paura del nemico etnico. A queste si aggiungono 280 mila profughi ruandesi (hutu). Nell'ultimo anno, l'Europa ha cercato di aiutarli con 89 milioni di dollari, ma il denaro è servito solo a tamponare temporaneamente la falla. Così ho spiegato a Ndwayo che il personale delle organizzazioni umanitarie si sente in pericolo e che il deteriorarsi della situazione interna mette in forse il proseguimento dell'azione umanitaria. Le sue risposte non sono state rassicuranti. Il piano di riappacificazione richiede tempo e il governo non vede di buon occhio tanto l'invio di osservatori quanto la convocazione di una conferenza interregionale. Non posso fare a meno di pensare che l'impasse politico sfocerà in una tragedia.

(Post Scriptum. L'11 marzo il ministro dell'energia, un hutu, è stato ammazzato a revolverate in pieno centro cittadino. Tre giorni più tardi, il vicesindaco di Bujumbura, un tutsi, è stato trovato crocifisso. Lunedì 20 sono stati uccisi tre cittadini belgi in un agguato. Martedì 21 in scontri tra le fazioni ci sono stati almeno cinque morti. Molte ambasciate europee hanno invitato i propri cittadini ad abbandonare il Burundi).

SABATO 11 MARZO (HOTEL MILLES COLLINES, KIGALI).

E' stata una giornata sconvolgente. Persino questo hotel, che nei giorni del genocidio era sede della radio che invitava gli hutu a far piazza pulita dei tutsi a colpi di machete, mi sembra un angolo incontaminato. In mattinata ho incontrato il premier Twagiramungu, un hutu moderato, coraggioso, che pare comunque ostaggio del vero leader del Paese, il generale Kagame (tutsi), ministro della Difesa e anima del Fronte patriottico ruandese. Twagiramungu mi ha spiegato quanto sia difficile far rientrare i profughi, sottolineando l'impossibilità di reintegrargli rapidamente in patria. Poi ha affrontato il problema ora più grave, l'ago della bilancia fra conflitto e pace: mancano i giudici. In Ruanda si compiono mille arresti alla settimana e la popolazione carceraria (prevalentemente hutu) è di 30 mila unità. L'accusa è la stessa per tutti: genocidio. Ecco la questione. Senza giustizia non se ne esce.

La visita alla prigione di Kigali, orribile versione moderna di una bolgia infernale dantesca, è il primo pugno nello stomaco che il Ruanda regala alla nostra delegazione. In un fortino costruito dai belgi nel 1930 per ospitare sino a 800 detenuti ne troviamo oltre settemila. I cortili, le stanze, i pochi locali igienici, i corridoi, sono affollati all'inverosimile. Sotto una pioggia battente, i reclusi sono per lo più costretti in piedi e all'aperto. Non c'è posto nemmeno per far stare tutti seduti. L'aria è spessa da respirare. Le poche brande sono sovrappopolate. Ci sono adulti, donne e bambini anche piccolissimi. Due suore, persino. Praticamente nessuno è mai stato interrogato. Le condizione sanitarie sono meno che minime. Muoiono 80 persone la settimana.

E' questa ala prima faccia della medaglia del genocidio. L'altra è anche peggiore. Un elicottero Onu ci ha portato a Ntarama, il memoriale dell'orrore. Su questa collinetta a poche decine di chilometri da Kigali, fra il maggio e il giungo dello scorso anno, cinquemila persone, in prevalenza donne e bambini, sono state trucidate dagli hutu nei locali di un chiesa. I tutsi, "per non dimenticare", una volta vinta la guerra hanno deciso di non toccare nulla e l'edificio è ora un sinistro monumento in cui all'interno finiscono di marcire i mucchi di corpi delle vittime. Solo alcuni sono stati esposti in bella mostra all'esterno. E' l'apocalisse. Gli occhi vorrebbero non vedere. Nemmeno il canto dei bambini che un camion porta lentamente chissà dove, divorando la strada di terra rossa, riesce a rasserenare l'animo ferito. La domanda che rimbalza è sempre la stessa. Che cosa possiamo fare?

DOMENICA 12 MARZO (HOTEL KARIBU, GOMA, ZAIRE).

Qualcosa per la verità è stato fatto. Nelle vallate dell'altopiano di Goma, in una zona di vulcani attivi, le organizzazioni non governative hanno attrezzato uno dei più grandi assembramenti di profughi del pianeta. In buona parte con i soldi dell'Unione europea, e dunque di Echo, la comunità internazionale si prende cura come può di 750 mila ruandesi di etnia hutu. Il loro rientro in patria è reso doppiamente complesso dalla paura delle rappresaglie dei tutsi (che li considerano gli autori del genocidio) e dala volontà del governo "corto" in esilio che li tiene come ostaggi. Il quadro peggiora se si crede a chi dice che gli hutu di Goma si stanno riarmando e preparano un ritorno a casa per nulla pacifico. Sotto una pioggia simile a un diluviola visita ai campi di Kibumba e Mugunga richiama alla memoria gli incubi di Brueghel. Da un mare di fango, spuntano basse casupole avvolte nei teloni delle organizzazioni non governative. Gli abitanti, e questo sorprende, non hanno però l'aria distrutta che si potrebbe

immaginare. Il cibo scarseggia, ma gli eroi ignoti delle agenzie umanitarie non desistono. Gli ospedali funzionano bene, e così la macchina umanitaria.

A Mugunga abbiamo incontrato i leader dei profughi. Negano il genocidio, dicono che non si può tornare a Kigali Perché non c'è sicurezza. Vero. Ma è anche vero che manca la volontà politica di farlo. Ho spiegato a tutti che il rimpatrio e la riappacificazione sono la sola strada da battere, Perché l'aiuto umanitario non può essere per sempre. Almeno qui, come a Kigali, le dichiarazioni sono in favore di una interregionalizzazione del processo. Tuttavia il dubbio resta. Non ho avuto modo di provare il fatto che gli hutu si stiano riarmando. Poco prima di partire, uno dei leader mi ha però consegnato una richiesta di finanziamento per un bollettino di informazione destinato ai profughi. Era scritta al computer con un programma Word per Windows. Nei campi, evidentemente, le cose non vanno esattamente come sembra.

LUNEDI' 13 MARZO (IN VOLO VERSO BRUXELLES).

Non c'è alcun documento di lavoro con cui ci si possa preparare ad affrontare la situazione ruandese, nel quale non si rimanga colpiti dalle incognite. Stamane, sul confine fra Ruanda e Zaire, fra Goma e Gisenyi, abbiamo assistito al rimpatrio di 75 profughi. A dicembre, il personale Onu sperava di arrivare a un ritmo di mille al giorno. Gli arresti operati dal governo di Kigali e l'azione dissuasiva degli hutu in esilio ha ridotto drasticamente il flusso. I pochi che hanno il coraggio di lasciare i campi sono assistiti dai giovani dell'Alto commissariato per i rifugiati (HCR), che li scortano oltre frontiera, dando loro provviste per dieci giorni e li accompagnano a destinazione. Tutto funziona a puntino.

Eppure non basta. Mentre ripenso a questa missione, tanto breve quanto difficile, mi passano davanti le immagini dell'orrore. Le donne, i bambini, le fosse comuni, i machete all'angolo della strada, i guerrieri alla ricerca di vendetta, lo sguardo fiero dei moderati e quello duro di chi non pensa a mollare. Rifletto sull'aggressività con cui mi ha affrontato la stampa locale. Pensavo di meritare di meglio, se non altro in quanto rappresentante dei cittadini europei, cioè di chi ha saputo essere più generoso nell'aiutare i ruandesi dopo la crisi. Invece niente. Hanno cercato di mettermi contro di loro, di colpevolizzarmi, col solo risultato di farmi sentire più decisa nel chiedermi "cosa possiamo fare?".

La verità è che possiamo fare poco, che tanto, tutto, dipende dalla volontà politica di questo popolo spaccato. A noi tocca insistere per cercare una soluzione. Non abbiamo scelta se non continuare a tentare. L'affermazione dei diritti umani, della democrazia e dello Stato di diritto meritano sempre almeno uno sforzo in più. L'alternativa è una nuova catena di stragi senza fine.

 
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