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Cicciomessere Roberto - 7 febbraio 1993
XXXVI Congresso PR-Emma BONINO : IL TRANSNAZIONALE: UN PROGETTO RAGIONEVOLE-UN CONTRALTARE AL DEFICIT DI DEMOCRAZIA-IL CONGRESSO DEVE PRENDERE ATTO DI UNA SCONFITTA SUBITA O SE SI POSSONO RISCHIARE I TEMPI SUPPLEMENTARI
"Opereremo con una difficile umiltà per verificare fino in fondo se è possibile far vivere la nobiltà della politica"

Credo che molti dei partecipanti, soprattutto quelli che non vengono dall'Italia, si chiederanno come mai un partito che riceve l'unanime riconoscimento di aver garantito le "innovazioni più vantaggiose per la società italiana"; di aver previsto con largo anticipo gli elementi di crisi più gravi del nostro tempo (dal flagello del proibizionismo della droga alle Chernobyl nucleari, dall'intollerabile sterminio per fame nel sud del mondo alla sanguinosa guerra che si annunciava nell'ex Iugoslavia); di non essersi limitato a rappresentare questi problemi ma di aver proposto quelle soluzioni che - considerate allora con scherno come utopistiche od estremistiche - tutti si sono affrettati dopo a riconoscere come le più valide, le più ragionevoli; che ha un leader a cui si riconosce di aver rappresentato "l'unica cosa nuova che abbia visto la luce a sinistra negli ultimi decenni", che è stato l'elemento determinante per l'elezione del presidente della repubblica, che può, senza destare sospetti sul proprio conto

e sulla sua assoluta onestà, non solo intellettuale, dialogare con i terroristi ed essere considerato un prezioso alleato di governo - sono tutte citazioni che ho tratto solo dai giornali degli ultimi tre giorni -, un partito il cui congresso è onorato dalle presenze che vedete, da quella del presidente del consiglio italiano ai presidenti delle camere..ebbene, questo partito, divenuto trasnazionale e transpartitico per logica coerenza con quella storia politica che tutti riconoscono come lungimirante, è oggi riunito per celebrare la sua chiusura letteralmente e semplicemente per mancanza di soldi, per mancanza di 30.000 iscritti italiani che, con le loro quote da paese industrializzato, potrebbero assicurare la sua vita, i 10 miliardi annui indispensabili per fare le cose che conoscete.

Forse voi che venite da Mosca piuttosto che da Ouadagudu, da Kiev piuttosto che da Budapest non sapete che da un paio di mesi in Italia le prime pagine dei giornali sono occupate da una sola vicenda: tangentopoli. Si tratta in sintesi di una grande inchiesta giudiziaria che ha messo alla luce, attraverso clamorose inchieste, attraverso arresti di politici importanti e di industriali potentissimi, il rapporto di reciproca corruzione fra partiti italiani e mondo industriale. Tutti i partiti italiani, di governo o di opposizione, sono coinvolti con le medesime responsabilità e allo stesso titolo nello scandalo ad esclusione di uno solo: il partito radicale naturalmente.

Ebbene anche quando appare evidente pure ai ciechi che la nostra ventennale lotta contro il finanziamento pubblico dei partiti, contro la corruzione politica - da Petrucci al Presidente della repubblica Leone -, perché si celebrasse il processo contro la partitocrazia, perché soprattutto il regime dei partiti fosse superato democraticamente prima che forze obiettivamente eversive utilizzassero questa situazione per condurre in porto ben più pericolose manovre contro la democrazia; ebbene, nonostante tutto ciò abbia trovato una totale e clamorosa conferma dai fatti che ho solo evocato, non si trovano trentamila italiani che s'iscrivano al partito radicale, magari solo per riconoscenza, nel senso che riconoscano che in tutti questi anni hanno avuto torto LORO a non sostenerci e non NOI nel rivendicare la nostra diversità, la nostra estraneità al potere, la nostra mendicità e povertà come unico antidoto alla corruzione, .

Ecco, questo è il mistero che cercheremo di dipanare nel nostro congresso, il semplice quesito a cui in questi cinque giorni dovremmo cercare di dare risposta. E devo subito avvertire che chi credesse che si tratta solo di cucina italiana, di mafia e spaghetti, di problemi che non riguardano Sarajevo piuttosto che Mogadiscio, sbaglia profondamente.

Comprendere perché nel laboratorio italiano, quello in cui - per ovvie ragioni legate al nostro insediamento politico trentennale - vi erano in teoria le maggiori possibilità per far apprezzare la proposta trasnazionale, non ce l'abbiamo fatta, significa comprendere perché il sindaco di Sarajevo implora inutilmente i governanti occidentali ad intervenire affermando inascoltato che a Sarajevo è in gioco non solo la vita di persone ma la credibilità, la forza, il futuro della democrazia, che la caduta di Sarajevo equivale alla caduta di Parigi nelle mani dei nazisti, ma non quella di Pearl Harbour.

Nei nostri paesi, tra virgolette civili, giudicheremmo infatti intollerabile che lo stato consentisse a bande di terroristi di mettere a fuoco non una città ma un ostello in cui vivesse una minoranza, di torturare e stuprare delle persone; lo abbiamo visto per fenomeni di ben limitata portata come quello del naziskin: tutti i maggiori opinionisti si sono mobilitati per spiegarci che sarebbe una grave ferita alla democrazia, una manifestazione di complicità che consentirebbe di far risorgere i peggiori demoni del passato, tollerare questi comportamenti razzisti; centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza in Europa contro il pericolo di un nuovo nazismo rappresentato da quattro teste pelate; a Roma, intanto, è bastata una ruvida sculacciata da parte di giovani ebrei per far sparire improvvisamente il pericolo del neonazismo.

Ebbene, a poche migliaia di chilometri abbiamo un regime, quello serbo, che teorizza il razzismo, la purezza etnica e che afferma che tutti i principi del diritto internazionale sono carta straccia, sono superati dal diritto della etnia serba. Non da oggi, ma da anni, Milosevic afferma che là dove c'è un serbo c'è il dovere della Serbia d'intervenire militarmente, naturalmente per tutelarlo. Si teorizza insomma lo stato razziale e soprattutto si applica con la nota brutalità militare questa premessa ideologica. Si combatte di conseguenza una guerra in cui i civili non sono le vittime casuali dello scontro fra militari ma l'obiettivo della guerra stessa, perché la eliminazione o comunque l'espulsione delle etnie diverse dalla grande Serbia è l'obiettivo della cosiddetta pulizia etnica. In questa guerra, perfino lo stupro non è un portato "fisiologico" della violenza bellica ma, come strumento di contaminazione razziale, è esso stesso un'arma non meno importante del fucile o della bomba; lo stupro diventa quin

di strumento legittimo della guerra e quello che era il collega d'ufficio, magari l'amico, si trasforma, grazie a questa cultura di stato nel tuo torturatore.

Di fronte a tutto ciò gli stessi opinionisti che hanno tuonato contro i naziskin invocando immediati provvedimenti repressivi, sono - nella maggior parte dei casi - non solo silenziosi sull'affermarsi nell'ex-jugoslavia di un nuovo nazismo ma affermano che con questi macellai bisogna trattare, che la Bosnia deve essere smembrata in dieci provincie autonome sulla base della prevalenza etnica, che questo è l'unico modo per contenere la guerra. Contenere, proprio la parola contenere viene usata senza alcun pudore storico. Ancora una volta ci viene riproposta la politica del contenimento, quella che secondo altri benpensanti di tempi non molto lontani avrebbe dovuto convincere Hitler a limitarsi nelle sue mire espansionistiche.

Insomma la nostra classe di governo può permettersi di essere complice di Belgrado semplicemente perché non rischia neppure un voto a casa sua se così facendo consente il genocidio di un popolo.

Ecco il problema, ecco la questione di fondo che noi, con la proposta di partito trasnazionale abbiamo voluto sollevare, ecco le ragioni della nostra probabile sconfitta.

Tutti in Italia infatti riconoscono che noi siamo un unico esempio di organizzazione rigorosamente coerente con i propri ideali, con le proprie utopie e nel contempo pragmaticamente attenta agli strumenti istituzionali indispensabili per dare sbocco politico a queste aspirazioni. Noi non abbiamo mai fatto proclami, enunciato teorie, condanne soluzioni miracolistiche, non abbiamo mai promesso il paradiso. Da sempre abbiamo proposto obiettivi e strumenti coerenti, adeguati per raggiungerli. Non abbiamo genericamente denunciato la "fame nel mondo" ma abbiamo lottato per leggi precise e per stanziamenti puntuali che fossero finalizzati a strappare dalla morte il maggior numero di persone; abbiamo individuato gli obiettivi possibili, le risorse reperibili, le leggi necessarie, la copertura finanziaria necessaria, gli strumenti di gestione della legge indispensabile (in particolare su questo punto se qualcuno ci avesse ascoltato quando parlavamo di alto commissario, quando candidavamo Pannella a questo compito, og

gi probabilmente all'Italia sarebbe stato risparmiato questo orribile scandalo delle tangenti anche sulla pelle degli affamati del sud del mondo!!!).

Dalle nostre bocche e dai nostri documenti non sono stati mai esaltati i tanto facili e spesso vuoti slogan che tanto spazio hanno avuto sui mass-media, quelli che teorizzavano i vari i femminismi, i pacifismi... abbiamo invece sempre lottato per obiettivi precisi, per leggi che liberasselro la donna dalla condanna dell'aborto clandestino, che affermassero il diritto individuale all'obiezione di coscienza e il dovere collettivo all'affermazione di coscienza, al superamento della difesa nazionale, al trasferimento di questa prerogativa a corpi di polizia internazionale.

Bene, partito trasnazionale non è la mitologica speranza di creare una quinta internazionale liberale e libertaria ma un progetto preciso, devo dire neanche tanto ambizioso, ma come sempre solo e semplicemente ragionevole. E' la nostra caratteristica, del nostro modo di far politica, quella di enunciare con chiarezza una esigenza, di definire un proposito, un obiettivo, di delineare il percorso che si vuole seguire per conseguirlo, di elencare i mezzi, le forze e le alleanze necessari, di determinare il tempo per dargli forma e corpo. Sulla base di questi parametri abbiamo sempre valutato i nostri successi e le nostre sconfitte. Nel 1996 abbiamo enunciato gli obiettivi generali e specifici della battaglia per l'introduzione del divorzio in Italia, stabilito che cinque anni era il tempo necessario, nell'Italia clericale, per ottenere la legge, prefigurato che con l'alleanza dei partiti laici potevamo farcela. Nel 1970 abbiamo ottenuto la legge ed è stata una vittoria. Così per l'aborto, l'obiezione di coscien

za, eccetera. Nel 1980 abbiamo ritenuto possibile mobilitare l'opinione pubblica e la classe politica per leggi precise che non solo portassero il contributo degli stati al famoso un per cento del pil a favore dei paesi sottosviluppati ma che consentissero di valutare, di fronte ai tanti soldi sprecati nel passato, l'efficacia degli interventi. Ritenevamo che l'obiettivo minimo dovesse essere l'approvazione di leggi simili in almeno tre o quattro paesi. Ci siamo riusciti parzialmente solo in Belgio e malamente in Italia e quindi non abbiamo avuto dubbi nel considerarla una nostra sconfitta.

Anche oggi, dal congresso di Budapest, i nostri obiettivi sono chiari, modesti, le risorse necessarie sono individuate come pure i tempi. In questo congresso siamo chiamati a decidere se si deve prendere atto di una sconfitta subita o se possiamo rischiare i tempi supplementari. Tutto qui.

Il proposito ragionevole è quello a cui prima accennavo:

oggi la politica cosiddetta estera viene gestita non molto diversamente da quanto accadeva un secolo fa. E' politica esclusiva di governi, di ministri, spesso di ambasciatori o funzionari. Nonostante tutti riconoscano che non esiste più la politica estera perché l'interdipendenza economica l'ha trasformata in politica economica, agricola, di sicurezza, sociale, dell'occupazione... e cioè non esiste più un problema politico che possa trovare una soluzione esclusivamente nazionale, tutti si ostinano ugualmente a gestirla al di fuori del contraddittorio democratico, delle regole democratiche, del coinvolgimento dei cittadini, del voto degli elettori.

Il nostro ragionevole proponimento è stato quindi semplicemente quello di tentare d'inserire nel processo di formazione delle decisione degli organismi internazionali o di "politica estera" degli stati, un altro soggetto, il partito trasnazionale, che fosse da una parte svincolato dalle urgenze e priorità elettorali nazionali per poter avere sufficiente attenzione alle priorità internazionali e dall'altra strettamente collegato alle istituzionali e ai movimenti e partiti nazionali attraverso la forte presenza di parlamentari e di dirigenti politici, sindacali, di movimenti, per poter essere così strettamente collegato alla opinione pubblica.

Ecco quindi il partito radicale con quei suoi due aggettivi essenziali, trasnazionale e transpartitico, come modello di nuovo partito ad adesione individuale che si propone come elemento di contraddittorio nel processo di formazione delle decisioni di politica internazionale. Mutuando dalla costituzione italiana, si potrebbe dire che abbiamo bisogno di partiti, per consentire ai cittadini di concorrere democraticamente a determinare la politica internazionale. Partito quindi che in quanto tale non si presenta alle elezioni ma che mantiene il forte legame con le dinamiche politiche e le opinioni pubbliche nazionali attraverso la presenza di deputati e dirigenti delle diverse famiglie politiche.

Abbiamo realizzato tutto ciò con un bilancio annuo di 8 miliardi, quanti credo non siano sufficienti, per esempio in Italia, per sostenere una federazione regionale di un partito o per pagare la propaganda elettorale di una sola lista in un sol collegio. Se sono vere le valutazioni del volume di tangenti annue pagate ai partiti, rappresenta circa un centesimo del loro valore.

Non siamo invece riusciti a trovare il numero necessario di azionisti di questo progetto che attraverso le loro iscrizioni e contribuzioni garantisse la copertura finanziaria del progetto.

Dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che è una sconfitta.

Dobbiamo sapere che la sconfitta del Pr è venuta proprio in Italia e non nei paesi usciti dal comunismo dove la risposta, in relazione alle risorse impiegate è stata straordinaria

Dobbiamo quindi essere consapevoli che tanti anni di quella cultura che ha fatto e fa del partito radicale, con le sue scelte sempre difficili e controcorrente, sempre riconosciute come coraggiose e giunte in ritardo, un "alieno" nella vita politica italiana, spesso reso perfino ripugnante come uno zombi, impedisce oggi alla gente di riconoscersi in questo progetto ragionevole. E' questo nonostante le aperture di stampa e i riconoscimenti degli ultimi mesi. Bisogna sapere che quella stessa cultura che impedisce ai governanti di vedere cosa è in gioco a Sarajevo e in Bosnia e soprattutto a Belgrado dove una intera popolazione serba è condannata ad essere governata per altri venti anni da un regime razzista, fa ormai parte strutturale anche della cultura di massa. Che questi sono i risultati obbligati di una politica dell'informazione fascista e lottizzata che i partiti ritenevano potesse garantire in eterno la loro sopravvivenza politica e che oggi invece si rivolta contro con tutto la forza irrazionale e tra

volgente della rabbia qualunquista e della rivolta. Questa non-informazione non può che premiare la demagogia, i professionisti dell'anticorruzione e dell'antimafia, coloro che per coprire le loro responsabilità passate e rifarsi una verginità devono impiccare il primo che viene beccato con le mani nel sacco o chiamare al linciaggio del politico che cade; non può che rendere sempre più difficile una trapasso democratico da un regime partitocratico ad un sistema politico moderno, dove il cittadino si libera della tutela dei partiti per essere lui a determinarne la politica e le scelte, dove il sistema produttivo si libera dalle illusioni delle travolgenti fortune "realizzate all'ombra del sistema delle tangenti che adesso rischiano di costare la bancarotta delle imprese e un'ondata di disoccupazione di ritorno" - come scriveva ieri giorgio meletti nella pagina economica del Corriere -.

Ho parlato quindi di miracoli del partito radicale e della sconfitta che gli italiani hanno invece decretato per quanto riguarda la sua possibilità di vivere, di autofinanziarsi senza doversi piegare alle regole del regime partitocratico, della corruzione; insomma neppure 30.000 italiani su 50 milioni hanno avuto la forza o la possibiliutà di dire che è possibile in Italia fare politica al livello in cui noi l'abbiamo fatta senza accettare di divenire ricettatori, concussori, corruttori; sconfitta questa che probabilmente porterà questo congresso a decretare - serenamente perché siamo consapevoli di aver fatto tutto quello che era nelle nostre possibilità - lo scioglimento del partito proprio nel momento in cui più limpida e più ragionevole appare la felice scelta che lo ha portato dai primi ammi 60 fino ad oggi a disegnare quel percorso politico che alcuni oggi incominciano a riconoscere in tutta la sua continuità ed ampiezza.

Solo un miracolo compagni e amici, miracolo che questa volta non possiamo essere noi a fare, può impedire questa obbligata conclusione del congresso. Ma anche questo miracolo deve adeguarsi ai metodi e ai tempi radicali: deve realizzarsi o perlomeno annunciarsi in questi cinque giorni congressuali, non un'ora dopo. Sarebbe troppo tardi.

Bene, sappiamo che per essere meritevoli di miracoli bisogna avere fede. Noi, in questi giorni del congresso sapremo, come sempre, manifestare laicamente la nostra fede nella giustizia, nel diritto, nella tolleranza, nella democrazia impegnandoci, lavorando fino all'ultimo secondo nel congresso come se fosse possibile far vivere il partito per altri cento anni, far vivere il nostro sogno, fare quelle cose che sarebbero possibili, che si chiamano pace in Bosnia, fine della pena di morte entro il duemila, fine del proibizionismo sulla droga, e le tante altre di cui parleremo in questi giorni.

Martelli ci chiedeva ieri una dilazione. Opereremo con una difficile umiltà per verificare fino in fondo se è possibile far vivere la nobiltà della politica

 
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