di Angiolo BandinelliSOMMARIO. Secondo Dahrendorf, la rinascita europea si avrà con la rinascita dei suoi partiti liberali e il declino del socialismo nelle sue varie forme. Ma l'a. non è d'accordo con le tesi dell'illustre politologo. A suo avviso, l'eredità più importante della storia liberale è la diffusione generalizzata di "atteggiamenti, convinzioni e persino teorizzazioni" che oggi informano un intera "cultura", una sorta di "koiné" liberale di alto livello. Ma questo non basta a dare "nuovo slancio" ai partiti liberali in quanto tali. Neppure il vivacissimo "cosmopolitismo" di questa cultura liberal è stato capace di pensare e realizzare nuove e più valide istituzioni, adeguate alle esigenze dei nostri tempi, mentre viene sempre più evidentemente meno la funzione "liberale" e "liberante" degli Stati nazionali. E, dunque, è sul terma della prospettiva Europa che l'analisi di Dahrendorf resta più carente. Per il continente infatti Dahrendorf vede con favore non una unità politica ma una "abitudine alla cooperazione", apert
a a chiunque ne faccia richiesta. Niente sovranazionalismo, ma una "Europa à la carte"...Di qui la sua profonda distanza dai federalisti e dal loro richiamarsi al "primato della politica". (ARGOMENTI RADICALI, novembre 1979-gennaio 1980 - Ripubblicato in "IL RADICALE IMPUNITO - Diritti civili, Nonviolenza, Europa", Stampa Alternativa, 1990)
Possiamo in certa misura essere d'accordo con Dahrendorf (1). Dove lo siamo meno è laddove egli indica in partiti liberali i protagonisti, possibili e forse necessari, di una svolta lungo le direttrici che egli ci indica. Non è un caso che questo non sia accaduto in nessun paese: né nella Germania Federale dove la FDP di Scheel ha avuto, dopo il 1969, un ruolo di governo non disprezzabile, rendendo possibile l'alternativa alla democrazia cristiana; né in Gran Bretagna, dove il revival liberale assunse negli anni '60 proporzioni ideali di tutto rispetto. In nessuno dei due casi quei partiti hanno saputo superare soglie di consenso significative. In nessun caso, soprattutto, i partiti liberali - e non solo in Germania Federale, come Dahrendorf lamenta - sono riusciti a scrollarsi di dosso la vecchia pelle che li faceva i partiti della difesa degli interessi di "imprenditori e professionisti", così come di un "nazionalismo vecchio ed obsoleto" (in Germania la FDP fu persino antieuropeista). Cioè in definitiva p
artiti "illiberali". Dunque, la convinzione di Dahrendorf non pare abbia solide basi e nemmeno offra prospettive appetibili. Perché, in definitiva? Certo, l'eredità più importante della storia liberale è stato - e non nel senso riduttivo - il propagarsi, nei diversi paesi, di idee, atteggiamenti, convinzioni e persino teorizzazioni liberali (o, come meglio si dice, liberal) che oggi informano di sé le azioni, i pensieri e le istituzioni di persone e di società, di una intera cultura che nessuno di fatto osa rinnegare, nemmeno quando la straccia e la calpesta. Vi è infatti una koiné liberale molto diffusa che è piattaforma e patrimonio comune, madre di idee e princìpi divenuti indiscutibili, tra i quali primeggia certamente - con parole di Dahrendorf - "la difesa dei diritti individuali nel quadro dello Stato di diritto, qualunque cosa accada". Tanta e preziosa eredità non basta però a dare nuovo slancio ai "partiti liberali". I cammini della libertà percorrono oggi altre strade. Dahrendorf ci ricorda che a u
no dei poli della tradizione liberale vi è quel "libero pensiero" che sconfina nell'anarchismo. Se l'attaccamento e la stessa promozione di modelli liberali (proprio nell'accezione della modellistica sociale) può essere ed è patrimonio di élites culturali internazionali, comunicanti tra di loro con analisi e progetti intellettuali sovente raffinati (Dahrendorf, con il suo insegnamento alla London School of Economics, ne è un esempio di rilievo eccezionale), persino in una certa azione di governo, non vi è pure dubbio che le spinte operative che o mantengono o promuovono spazi di libertà nel mondo moderno trovano altrove, in altre zone culturali e sociali, la loro più solida, promettente e fruttifera sede. Se il liberalismo deve superare e infrangere barriere e confini, il cosmopolitismo liberal non appare sufficiente al compito di sostituire il dato dell'internazionalismo, che è uno dei valori più degradati e derelitti dell'intero movimento progressista mondiale. A nostro avviso (e diamo questo giudizio con
molta cautela e umiltà) l'analisi di Dahrendorf è carente proprio nel giudizio sul significato delle istituzioni-Stato contemporanee. Se qualcosa liberali e marxisti hanno in comune, è la storia della crescita dello Stato come funzione liberatoria e liberante, anche dell'individuo. E attraverso lo Stato e il suo secolare sviluppo - essi ci ricordano congiuntamente - che l'individuo e le società si sono progressivamente liberati dei particolarismi feudali e corporativi. Nonostante tutto anche Dahrendorf, pur richiedendo uno Stato dalle competenze "minimaliste", non va al di là di questa prospettiva. Anche con oscillazioni, che sono conseguenza indubbiamente - forse - della complessità delle questioni dibattute, dell'impossibilità di dare ad esse risposte e soluzioni esaurienti. Si guardi quanto egli scrive (o detta) a proposito della questione Europa, il secondo grande tema dell'intervista. Proprio qui emergono più evidenti, e negativi, i limiti del minimalismo e insieme del nazionalismo di Dahrendorf. Il qu
ale si professa contrario ad una Europa "unita", un'idea a suo avviso troppo "cartesiana", inventata da astratti cultori di idee prefabbricate, il "funzionalismo" e il "federalismo" esplicitamente evocati. Dahrendorf è coerente con se stesso. Preferisce tenersi ad un progetto europeo che veda soprattutto svilupparsi una "abitudine alla cooperazione", non necessariamente ristretta ai sei o dieci partners attuali. Niente, quindi, sovranazionalismo, ma una Europa "à la carte" (dice proprio così) modellata di volta in volta sui problemi che vengano sul tappeto, aperta agli interessi esterni al perimetro istituzionale. "Lo sviluppo di una esperienza di cooperazione in Europa - egli afferma - si misurerà in termini di sostanza e non di istituzioni formalmente intese", poiché "le istituzioni vengono dopo". Con il risultato che il "minimalismo" lascia intatti gli Stati nazionali e le loro prepotenze e prevaricazioni. Il pensiero federalista, anche quello Italiano, aveva da tempo avvisato, con acutezza "machiavellic
a", del rischio costituito dalle illusioni contenutistiche, di chi cioè pensava di procedere nell'identificazione dell'Europa a piccoli passi, sommando funzione a funzione, progetto a progetto: senza crescita istituzionale, nessuna cooperazione è duratura: le alleanze tra Stati sono dettate solo dalla convenienza. E se istituzioni non messe alla frusta da una volontà politica non bastano, noi siamo d'accordo però che siano indispensabili. L'intuizione felice e insostituibile dei federalisti risiede nel fatto che essi assegnano il primato alla politica, alla volontà politica, ben sopra al determinismo strutturale, sociologico ed economicistico. In definitiva, posto al vaglio di un nodo così importante Dahrendorf mostra i limiti di un modello operativo, e soprattutto di una analisi del fenomeno politico, che finiscono col restare indietro - almeno in questa intervista - persino ad altri, oggi misconosciuti, settori del pensiero liberale: e indichiamo con tutta franchezza la concezione etico-politica di un Cro
ce.
1) Ralf Dahrendorf: "Intervista sul liberalismo e l'Europa", a cura di Vicenzo Ferrari, Laterza.