di Olivier Dupuis
L'Opinione, 5 settembre 1997, pag 3
Se la politica grande o piccola che sia può consentire di tentare qualsiasi operazione, purché venga fatta in buona fede o con buone intenzioni, allora diciamolo fuori dai denti: la fine della politica. A quel punto, la politica cessa di essere esercizio di responsabilità.
A San Egidio, dove del resto si opera apertamente in supplenza e non in interlocuzione, polemica, lotta o contrapposizione con i governi (a cominciare da quello algerino) e con le istituzioni politiche, sembra che il concetto della responsabilità non esista.
E' già accaduto nel Kossovo, dove le "mediazioni sant'egidiane" hanno contributo non poco all'abdicazione della "politica" e della responsabilità politica dei cittadini con l'esaltazione del dialogo fra due attori (il leader serbo Milosevic, e Rugova, presidente dell'autoproclamato Kossovo) che specularmente hanno fatto del nondialogo la propria ragione di essere.
E già era avvenuto per l'Algeria. All'inizio del 95, a Roma, si erano già riuniti, su iniziativa della Comunità di San Egidio, i rappresentanti dei maggiori partiti algerini, Fronte Islamico di Salvezza (FIS) compreso. La piattaforma raggiunta allora, grazie alle mediazioni della San Egidio, recitava il rispetto delle regole democratiche e il ritorno alla politica contro il terrorismo fondamentalista e la repressione militare. Le decine di migliaia di vittime, soprattutto donne e bambini, della violenza fondamentalista islamica, gli sgozzamenti e i massacri che sempre lastricano la via delle buone intenzioni hanno confermato il fallimento di questo, tanto generoso quanto irresponsabile, "esperimento di pace".
Sant'Egidio ripropone oggi uno schema perdente, per cui si richiede ai componenti del regime ed agli attori dei massacri di attuare un "compromesso", magari attraverso atti pubblici di penitenza, in cui ciascuno riconosca i propri errori e si impegni solennemente a comportamenti "diversi" per il futuro. E' una proposta pericolosa: non farebbe altro che dare forza e riconoscimento alla politica del "Sant'Eccidio" in corso. Se davvero dovesse tenersi, una simile conferenza andrebbe fatta a Teheran.
Come ha ben compreso la maggioranza degli algerini, dimostrandolo - checché se ne dica anche nelle elezioni presidenziali, il problema non è di lanciare degli appelli alla pace, ma di scegliere di lottare politicamente con i mezzi della democrazia. E' quanto le autorità algerine stanno tentando di fare fra le difficoltà drammatiche che la situazione impone loro. L'unico vero aiuto che la comunità internazionale può oggi offrire è quello di dare più forza alle autorità e alle istituzioni algerine, per renderle sempre più in grado di rispondere ai terroristi con le armi dello stato di diritto, per sottrarle all'isolamento in cui rischiano di autoconfinarsi, e per allontanarle dalla logica dell'emergenza - per definizione ademocratica, che costituisce il fattore di rischio più grave per il consolidamento della democrazia algerina.
In questo processo grande parte fino ad oggi non riconosciuta avrebbe il rilancio del piano, appena abbozzato, delle privatizzazioni. Oggi il controllo politico dell'enorme patrimonio pubblico è un fattore determinante di sclerotizzazione sociale e di conservazione dei ceti di potere.
Le privatizzazioni costituirebbero al contrario una straordinaria liberazione di risorse, iniziative e di opportunità; liquiderebbero un bottino, su cui molti, in nome dell'"Islam" o dell'"ordine" e della "sicurezza nazionale" vogliono mettere o tenere le mani, e dunque rappresenterebbero un fattore di rilancio politico, prima e più che economico, dell'Algeria.