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Panebianco Angelo - 31 dicembre 1987
... Europa con cautela
di Angelo Panebianco

SOMMARIO: Manifestando il suo scetticismo sulle effettive possibilità di trasformazione del Pr in soggetto politico trasnazionale, Angelo Panebianco sostiene che questo progetto si scontra in Europa con la difficoltà di "portare ad unità politica ciò che trova il suo fondamento culturale nella diversità" e con la resistenza degli Stati a creare istituzioni statali sovranazionali capaci di garantire autonomamente il rispetto della legge. (Notizie Radicali n· 302 del 31 dicembre 1987)

Rispetto agli interventi precedenti probabilmente il mio sarà, in fondo, quello più conservatore. Conservatore non in senso politico ma nel senso che sono più scettico sulla possibilità di immaginare politica a livello transnazionale. Vorrei partire da una ricostruzione storica, una ricostruzione volutamente parziale della vicenda radicale dagli inizi degli anni '70, toccando due o tre punti che a me sembrano fondamentali. Questa ricostruzione ha i vantaggi della conoscenza dall'interno, ma naturalmente ne ha anche i limiti, per l'assenza di un sufficiente distacco psicologico dall'oggetto. Faccio due premesse, premesse di valore, quindi giudizi politici. Credo che il Partito radicale abbia conseguito più successi -in termini di capacità di introdurre cambiamento- quanto più è stato il partito che combatteva l'anomalia italiana, ciò che era specifico del caso italiano, e quanto più riusciva a mantenere equilibrio e coerenza tra le due dimensioni fondamentali della sua politica e cioè quella che chiamerò, con

un'etichetta, la dimensione liberale della cultura politica radicale e quella che chiamerò, ancora una volta con un'etichetta, e solo per capirsi, la dimensione della nonviolenza. Il Partito radicale è il partito che ha individuato come bersaglio della sua azione politica ciò che era specifico del caso italiano, i limiti della democrazia italiana, assumendo come modello a volte quello di una democrazia mai realizzata, e a volte, più efficacemente, più concretamente, quello delle democrazie anglosassoni. Giusto il riferimento a Bertrand Russel che faceva Maffetone, anche perché, certamente, il Pr si rifa molto di più al radicalismo britannico (la cui fonte ispiratrice è la dottrina dell'empirismo) che al radicalismo francese. Anzi, uno dei tradizionali terreni, sul piano culturale, della contrapposizione tra Partito radicale e sinistra italiana consisteva proprio nella'antagonismo tra un movimento che in qualche modo si rifaceva alla dottrina dell'empirismo e una sinistra essenzialmente razionalista. Il Pr

combatteva l'anomalia italiana e tentava, con l'azione, di imporre una cultura della libertà, l'espansione e lo sviluppo dei diritti di cittadinanza. In certe fasi, adesso vedremo quali, riusciva a mantenere un equilibrio fra le due dimensioni della sua cultura politica, quella che ho definito liberale e che lo riallaccia alla tradizione storica del radicalismi italiano ossia la corrente del liberalismo sempre sconfitta in questo paese (quindi non Minghetti, non il liberalismo istituzionale, ma Cattaneo, quello che in qualche modo Maffettone definiva il liberalismo di movimento o movimentista); e la dimensione che ho definito della nonviolenza. A mio giudizio queste due dimensioni -badate, non credo di risolvere, perché non è questa la sede, la questione di quale sia il rapporto tra la nonviolenza e il liberalismo sul piano della dottrina- in certe fasi possono risultare integrate ed armonizzate, ed in altre no. Allora, se io devo rapidamente ricostruire, sulla base di queste categorie, la storia radicale a

partire dagli anni '70, identificherò fondamentalmente tre fasi, più una quarta che sta per partire oggi. La prima fase si sviluppa negli anni '70, gli anni del partito dei diritti civili, del partito che combatte su molti piani l'anomalia italiana; sono questi anche gli anni in cui la dimensione della cultura politica radicale si integrano o comunque si armonizzano. Il partito dei diritti civili, però, e questo oggi spesso si dimentica nelle ricostruzioni storiche, non era fine a se stesso. In quegli anni esisteva anche una strategia, cioè un'ipotesi politica riassunta in uno slogan: quello della rifondazione e dell'unità delle sinistre; in realtà l'obiettivo della costruzione del grande partito radical-socialista in Italia. Nel 1979 c'è la svolta. Più volte ho scritto, spesso ho detto e ripeto qui, che le elezioni di quell'anno, grande successo elettorale del Partito radicale, segnano anche una sua sconfitta politica. Credo che quella sconfitta, unita al successo elettorale, proietti tuttora la sua ombra s

u di noi. Si apre quindi una nuova fase. L'ipotesi del grande partito radical-socialista viene provvisoriamente accantonate e si passa alla fase dominata dalla battaglia contro lo sterminio per fame. In questa fase, a mio giudizio, non c'è più quell'integrazione e quell'equilibrio tra le due dimensioni della cultura politica radicale; prevale nettamente la dimensione nonviolenta. Il Pr non si caratterizza più come il partito che combatte l'anomalia italiana. La lotta contro lo sterminio per fame, infatti, è la battaglia contro un grave, gravissimo problema che investe la dimensione nord-sud e non la specificità del caso italiano. Questa battaglia, con le sue luci e le sue ombre, termina e nell'84-85 si apre la terza fase. In quel momento il Pr ritrova a mio giudizio, un'ipotesi politica che si concretizzerà essenzialmente nella proposta del fronte laico-socialista e nel progetto della riforma del sistema elettorale. Un progetto quest'ultimo, non solo di carattere tecnico, in quanto si propone con l'uninomina

le, di rompere con un costume consolidato, introducendo i principi dell'etica individualistica di matrice liberale all'interno di una cultura politica nazionale dominata da un'etica di tipo collettivistico. La proposta del collegio uninominale, in altri termini, non intende semplicemente risolvere un problema di governabilità, ma vuole spezzare schemi culturali che investono il meccanismo della rappresentanza. Credo che sia chiaro a tutti che le elezioni dell'87 segnano una nuova svolta, una nuova interruzione di quel processo teso a ribaltare e a modificare radicalmente il destino italiano e quindi a cambiare ciò che di anomalo esiste nella situazione del nostro paese. Una nuova svolta e una nuova battuta di arresto per il Pr. Credo che il dibattito sul partito transnazionale sia largamente legato a questa vicenda. In termini cronologici è facile ribattere: nel '79 la battaglia contro lo sterminio per fame viene lanciata prima delle elezioni, già durante la campagna elettorale, così come la proposta del pa

rtito transnazionale è stata lanciata prima delle elezioni del 1987. Tuttavia, quel che importa, a mio giudizio, non sono tanto i tempi quanto il significato che queste battaglie e proposte assumono in un contesto reso diverso dalle elezioni del '79 prima e dell'87 poi. Vengo ora al problema del partito transnazionale in senso stretto. Mi scuso se sarò molto conservatore, molto cauto e apparirò poco propenso a sposare le tesi che i problemi sono ormai sovranazionali, internazionali, transnazionali. Questo non significa che alcuni, anzi molti problemi, non lo siano. Ma certo non tutti i problemi realmente vitali per qualunque sistema politico sono di tipo transnazionale. Credo, per esempio, che le arene politiche nazionali siano tuttora molto vitali. Lo sono perché la competizione politica e buona parte dei conflitti sono suscitati e vengono risolti in ambito nazionale. Certo, si può ribattere che questo è esattamente il vincolo che va superato, essendo i problemi sempre più internazionali. Ma in realtà, non

è detto che le situazioni storiche di interdipendenza debbano necessariamente portare al superamento della dimensione statual-nazionale. L'Europa ha già conosciuto una fase che, secondo molti analisti, era di elevatissima interdipendenza economica, cioè la fase del dominio economico britannico alla fine del secolo scorso. Allora, tuttavia, ciò non comportò di per sé la fine degli Stati nazionali né rese del tutto ininfluenti le scelte sul piano nazionale. Con ciò voglio semplicemente introdurre una nota di cautela, non, ovviamente, negare l'esistenza di problemi transnazionali. Partito transnazionale può significare, e certamente significa in alcune accezioni, partito federalista europeo; e cioè un'espressione diversa per indicare che il Pr combatterà con gli strumenti, le energie, la capacità con cui si è battuto sul divorzio, sull'aborto, sulla fame nel mondo e così via, per attuare, sostanzialmente, il progetto spinelliano. A questo punto sorgono alcuni problemi che in parte sono già stati indicati: l'Eur

opa può starci stretta rispetto ad alcune grandi questioni transnazionali. Sorge anche un grosso problema di ordine teorico: molte critiche tradizionali alla proposta spinelliana, in realtà al federalismo europeo, non sono mai state attentamente valutate dai federalisti. La fondamentale critica al progetto federalista era che esso puntava a dare unità politica a un'Europa la cui identità culturale era in realtà definita dalla diversità e dalla divisione. In altri termini, diceva questa critica, ciò che l'Europa ha fatto nei secoli è stato possibile proprio perché essa, a differenza delle altre aree geo-politiche, non ha conosciuto, dopo Roma, una unità imperiale.

Nel momento in cui si propone di portare ad unità politica ciò che trova il suo fondamento culturale nella diversità, si distrugge, in qualche modo, quella stessa identità culturale europea che si vuole affermare. Ricordo questa obiezione perché non la si può aggirare così facilmente come spesso si tenta di fare. Io dico che se il progetto transnazionale è questo, ben venga il partito federalista europeo, ma senza dimenticare che ci si scontra contro i vincoli e i limiti che ha sempre incontrato il federalismo, cioè con la sua incapacità di suscitare in Europa il mito politico aggregante senza il quale sono ben difficili le unificazioni politiche. C'è un altro punto che tocca solo en passant, ma che non va sottovalutato anche perché ha qualcosa a che fare con la nonviolenza. Credo che i radicali abbiano tutto il diritto di rivendicare Altiero Spinelli tra i propri padri, se non fondatori, ispiratori. Spinelli, però, nella sua utopia era un uomo di grande realismo. Ed era un uomo attentissimo nei rapporti di

forza militari che stavano dietro alla possibilità o all'impossibilità delle unificazioni politiche (che fare oggi con la difesa europea?). A ciò è collegato un problema che credo non possa essere ignorato quando si difende, come credo si debba, il legame del Pr con i principi liberali e si rivendica ciò come la specificità, il contributo fondamentale che il Partito radicale ha dato anche alla sinistra italiana. Ha ragione Maffettone quando dice che il liberalismo, nella sua accezione più autentica, è il liberalismo non istituzionale, è quello che contrappone la società civile allo Stato. Però, naturalmente, egli converrà con me che non c'è diritto senza sanzione e che non è possibile proporre diritti senza rinviare alla sanzione dello Stato, cioè all'esistenza di un monopolizzatore della forza che garantisce i diritti. Questa è la ragione per la quale il diritto internazionale non è affatto come il diritto statuale interno. Non lo è nemmeno il diritto comunitario, tanto è vero che la sua forza è tutta legat

a al fatto che le legislazioni nazionali recepiscono il diritto comunitario stesso, cioè gli diano la forza di legge e quindi la sanzione dello Stato. Quindi, se il partito transnazionale è il partito europeo che punta a costruire un'istituzione statale sovranazionale e a riprodurre a quel livello una democrazia liberale (l'Europa plurietnica della tolleranza di cui parlava Manconi), in questo caso l'integrazione o la coerenza tra le due dimensioni della cultura politica radicale possono essere mantenute. Ma se non è questo, io temo che si apra un grosso problema concettuale e, soprattutto, di azione politica. Come si fa ad affermare nuovi diritti in campo transnazionale se non si è poi capaci di ricondurli a una qualche entità che li faccia valere e li sostenga? Concludo su un punto. Non ho voluto approfondire, perché non ritenevo che fosse questa la sede, il problema di come le due dimensioni della cultura politica radicale si sono intrecciate di volta in volta e con quali esiti nella storia del Pr. Però c

redo di poter esprimere la mia personale interpretazione. Ho sempre pensato alla nonviolenza, e con ciò non voglio svalutarne minimamente il significato (non parlo delle tecniche della nonviolenza, che vanno valutate sulla base di uno schema molto pragmatico mezzi-fini, ma dei principi), come a una metafora che in qualche modo ci ricordava i limiti del liberalismo storico, come a un tentativo di ricercare i fondamenti di quell'etica pubblica condivisa di cui parlava Maffettone. Questa è la mia personale lettura che so non essere condivisa da molti altri radicali. Fin qui tutto ciò può tenersi, e può tenersi se il Pr è il partito che lavora contro l'anomalia italiana, pur integrando tutto ciò che va integrato sul piano dell'azione sui grandi problemi internazionali, sono convinto che siano possibili nuove, felici stagioni d'azione. Se non c'è questo, a mio giudizio il rapporto con la società italiana e con i suoi problemi si attenua, l'equilibrio fra le due componenti della cultura politica radicale si spezza

, mentre si devono fronteggiare tutti i problemi legati all'azione in arene, sovranazionali o transnazionali, che non hanno (ancora ?) la vitalità che resta propria delle arene politiche nazionali.

 
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