Inutile versare lacrime di coccodrillo. IL Kosovo è morto. Dopo una agonia durata dieci anni. Da quando fu abolito lo statuto di autonomia.
LA MULTIETNIA NON ABITA PIU' QUI
Un'altra politica e degli altri obiettivi sono ora possibili.
A cominciare dall'apertura immediata di negoziati di adesione all'Unione Europea con la Croazia, la Federazione Bosniaca, la Macedonia e l'Albania-Kosovo.
di Olivier Dupuis
Diritto e Libertà, Numero 1 Gennaio/Marzo
E' inutile versare lacrime di coccodrillo. Il Kosovo multietnico non esiste più. E non ha atteso l'intervento della NATO per cessare di esistere. Quel Kosovo è morto - e come - da oltre dieci anni, al Campo dei Merli, con l'abolizione dello Statuto di Autonomia del Kosovo da parte del Presidente Milosevic e l'instaurazione della feroce politica di apartheid e di repressione che conosciamo. All'infuori della Macedonia, l'intera ex Jugoslavia multietnica è stata cancellata dalla carta. Persino là dove non c'è stato conflitto aperto si è verificato un importante fenomeno di "omogeneizzazione" etnica, una versione "soft" della pulizia etnica. In dieci anni, la metà della popolazione ungherese di Voivodina ha abbandonato la regione per la vicina Ungheria o per la lontana Australia. Una buona parte degli Albanesi del sud della Serbia si sono rifugiati in Kosovo. Nella Repubblica serba di Bosnia, meno del 3 % delle popolazioni croate e mussulmane sono ritornate nei luoghi dove vivevano prima della guerra. E se la s
ituazione è certo, migliore nella Federazione croato-musulmana, i ritorni (25% dei rifugiati croati e 11% dei rifugiati musulmani) sono assai lungi dal prefigurare lo status quo ante.
Delle minoranze continuano certamente a vivere in ciascuno di questi Stati o pseudo-Stati. Ma, ed è una differenza considerevole, si tratta ormai di minoranze. Nulla a che vedere con l'inestricabile miscuglio di nazionalità che, nel bene e nel male, caratterizzava la Jugoslavia di ieri.
Chi ha il compito di gestire il dopo guerra - Unione europea in testa meglio farebbe a prenderne nota per non continuare a proporre - e ad imporre - delle soluzioni che non servono ad altro che a generare impotenza e frustrazioni oggi e nuovi conflitti domani. Quanti, come noi radicali, hanno lottato durante gli ultimi 15 anni contro la politica di pulizia etnica elaborata da Milosevic e dai suoi amici dell'Accademia delle Scienze di Belgrado, debbono oggi avere l'umiltà di riconoscere che hanno perduto la battaglia. Che la Jugoslavia di ieri non esiste più. E che oggi, forti dell'aver combattuto, spetta loro di battere queste nuove chimere che rischiano, non meno di quelle di ieri, di rivelarsi tragiche per i Balcani non meno che per l'Europa intera.
Queste chimere, tanto care alle nostre Cancellerie, al Consiglio, alla Commissione e al Parlamento europeo, hanno oggi nomi come patto di stabilità, accordo di stabilità e di associazione, intangibilità delle frontiere, micro-Stati. Queste cosiddette politiche dell'Unione tanto più si accompagnano di promesse per miliardi di euro quanto più sono incapaci di rispondere al problema fondamentale di questa regione: assicurare una prospettiva di stabilità, condizione indispensabile perché, vi attecchisca la democrazia e per crearvi le condizioni dello sviluppo economico.
Ma la verità è nuda davanti ai nostri occhi. Di tutti i paesi dell'Europa centrale e orientale, soli i paesi dei Balcani sono tutt'ora esclusi dal vero e proprio processo di adesione all'Unione europea. Quattro paesi - l'Albania-Kosovo, la Federazione Bosniaca, la Croazia e la Macedonia - che, insieme, hanno una popolazione inferiore a quella della sola Romania. C'è da chiedersi se il vero problema dell'Unione e dei suoi Stati membri non sia quello di garantirsi alle porte una vasta noman's-land, un'enorme santuario per tutti i traffici. Allo stesso modo, come spiegare la perdurante finzione di uno Stato comune alla Federazione Bosniaca e a una Repubblica serba di Bosnia in tutto e per tutto agli ordini di Belgrado? O l'indeterminatezza dello statuto futuro del Kosovo, oscillante tra un'impossibile appartenenza alla Repubblica di Jugoslavia e un'invivibile indipendenza? O ancora, come spiegare l'ingiunzione ad un'Albania esangue, di combattere i flagelli che noi le imponiamo con le nostre politiche proibizio
niste sulle droghe, sull'immigrazione, sulla prostituzione?
Cos'altro è, se non un'equazione impossibile, questa politica dell'Unione che pretende che, in nome di una moralità astratta, i poliziotti albanesi, forti di un salario mensile di 100 euro in un paese dove quasi tutto è importato, sfuggano alle sirene dell'illegalità e alle esigenze della moralità concreta che vuole che assicurino la sopravvivenza della loro famiglia?
Queste sono le realtà con cui dobbiamo confrontarci oggi. Ben lungi dalle nostalgie per un passato ormai scomparso e da una politica ufficiale che in definitiva non mira ad altro che alla promozione di alcuni potenti gruppi di interesse, occulti o no.
Un'altra politica e degli altri obiettivi sono possibili. A cominciare dall'apertura immediata di negoziati di adesione all'Unione con la Croazia, la Federazione Bosniaca, la Macedonia e l'Albania-Kosovo. L'elaborazione di un contratto d'associazione speciale e immediato tra l'Albania e il Kosovo e l'Unione europea, che preveda la presa a carico da parte dell'Unione della costruzione e del funzionamento di strutture statali nuove e comuni all'Albania e al Kosovo.