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Partito Radicale Centro Radicale - 14 maggio 2000
Terza Conferenza Internazionale dei Gruppi di Sostegno al Tibet: intervento di Emma Bonino

TERZA CONFERENZA INTERNAZIONALE DEI GRUPPI DI SOSTEGNO AL TIBET

Berlino - 14 Maggio 2000

Speaking notes di Emma Bonino

Permettetemi di cominciare rievocando la singolare atmosfera che caratterizzó l'ultima visita in Europa del Dalai Lama nell'ottobre scorso. Accadde infatti che, mentre in Italia i massimi esponenti della sinistra di governo (Massimo D'Alema, allora premier, e Walter Veltroni, segretario dei DS) ricevevano con tutti gli onori - meglio tardi che mai - il Dalai Lama, simbolo vivente della resistenza del Tibet contro l'occupazione cinese; in quei giorni, dicevo, il primo ministro britannico Tony Blair (con cui D'Alema e Veltroni sentono forti affinità politico-ideologiche) riceveva, con tutti gli onori, il presidente cinese Jiang Zemin, simbolo dell'oppressione esercitata in Tibet dall'ultimo impero cinese.

Alcuni europei, in quegli stessi giorni, non molti per la verità, ritennero opportuno scendere in piazza per ribadire - malgrado la tardiva simpatia delle nostre sinistre di governo per il Tibet - che la lotta di liberazione dei tibetani contro l'occupazione cinese merita l'appoggio incondizionato di ogni uomo e di ogni paese libero, a prescindere dalle ideologie e dagli interessi nazionali. Fra quei pochi europei c'eravamo anche noi radicali. E non era certo un caso. Perché se oggi la causa tibetana è, almeno in apparenza, fra le più popolari nel mondo intero, non è stato sempre cosí. Ed è utile che ce ne ricordiamo. Noi europei e i nostri amici tibetani.

Nel 1984, quando nessuno in Occidente si occupava di Tibet, fu Petra Kelly, fondatrice dei verdi tedeschi ed europei, a rivelare all'Europa distratta e smemorata il calvario di un paese grande dieci volte l'Italia, "scomparso" da alcuni decenni, annesso e colonizzato dal colosso cinese. Un paese dalle tradizioni antiche e stravaganti, un paese di montagne, un pezzo di Himalaya, sepolto dalle nevi, chiuso e misterioso. Dalla Germania, nel 1988, furono Giovanni Negri, allora segretario del Partito Radicale, e Piero Verni a importare in Italia la "causa persa" tibetana, invitando al congresso radicale un rappresentante del governo tibetano in esilio. Da allora, molta neve è caduta sul Tetto del mondo, molte migliaia di coloni cinesi sono stati trapiantati in Tibet, molte migliaia di tibetani sono stati incarcerati, sono morti o sono fuggiti. Lhassa è diventata Lamaland, meta incantata per centinaia di migliaia di occidentali alla ricerca di un nuovo Eldorado dello spirito. E' nato il Tibet virtuale.

Grazie al Dalai Lama grande viaggiatore e grande comunicatore, la questione tibetana è esplosa in mondovisione. E' approdata a Hollywood mentre Petra Kelly moriva, dimenticata, qui a Berlino. Il Dalai Lama ha avuto, a giusto titolo, il Premio Nobel per la Pace. Il Tibet è entrato nei parlamenti di mezzo mondo. E il mondo ha scoperto, insieme a quello virtuale, da dépliant, il Tibet reale, con la sua storia millenaria. Ha scoperto che il Tibet non è la Cina e che dall'invasione cinese del '49, oltre un milione di Tibetani un quinto della popolazione sono morti, nella guerra di resistenza e poi nei campi di concentramento. Ha scoperto che i tibetani sono diventati una minoranza nel proprio Paese.

Il Dalai Lama non si è mai perso d'animo. Non ha mai smesso di invocare dialogo con le autorità cinesi, né di ripetere che non vuole l'indipendenza. Vuole una reale autonomia. Vuole salvare la peculiarità della civiltà tibetana. Su questa linea, un enorme potenziale di solidarietà e mobilitazione si è via via delineato nel mondo intero. All'insegna della nonviolenza. Due imponenti, indimenticabili manifestazioni si sono tenute in Europa: a Bruxelles nel '96 e a Ginevra nel '97. Entrambe organizzate dai radicali "transnazionali", dalla diaspora tibetana e da una miriade di gruppi di sostegno. Oltre 1.500 parlamentari di tutto il mondo hanno sottoscritto una richiesta ai governi del mondo libero: l'apertura, sotto l'egida delle Nazioni Unite, di negoziati senza precondizioni tra le autorità cinesi e le autorità tibetane in esilio.

Questa ondata liberatrice, che pure sembrava incontenibile, è stata rallentata in tempi più recenti - esprimo ovviamente un mio personale parere - da due diversi miraggi.

L'uno è il miraggio che definirei della "dalaimania": la speranza, purtroppo illusoria, che l'esplodere in Occidente dellla simpatia per il Tibet, il trasformarsi di questa simpatia in una moda intellettuale ed esistenziale capace di espugnare Hollywood e di dar vita ad un ambiguo big business politico-spirituale; che tutto questo, dicevo, potesse costituire una conquista in sé: che potesse essere un surrogato, un succedaneo della liberazione per alleviare l'esilio.

L'altro miraggio ha ingannato coloro, tibetani e non, i quali hanno creduto nell'inevitabilità del passaggio - in Cina - dalle riforme economiche a quelle politiche, dal liberalismo economico alle libertà individuali. Il che, come sappiamo, non è successo.

E infatti, la nebbia politico-diplomatica che per qualche tempo ha avvolto la questione tibetana si è dissolta solo quando - non molto tempo fa - il Dalai Lama ha annunciato che i negoziati segreti con Pechino erano stati, per decisione unilaterale delle autorità cinesi, interrotti. L'ora della chiusura e del ritorno alla repressione è suonata: per il Tibet come per Taiwan, per le isole Spratley, per la democratizzazione interna. Così stanno le cose, ma l'Occidente ancora stenta a decifrare i comportamenti di Pechino verso il mondo esterno, stenta a capire che il regime - detto in parole povere - ha perso il pelo ma non il vizio.

C'è da chiedersi se l'intera politica asiatica dell'Occidente, fondata su una "partnership" privilegiata con Pechino, non sia da rivedere. Se l'idea di una "transizione senza avventure", fondata sulla modernizzazione, che ha guidato le scelte delle diplomazie occidentali non abbia finito per consolidare il ruolo del partitostato. E' vero infatti che si è aperto un mercato immenso, ma esso non è né libero né regolato, e cominciamo appena a conoscere i giganteschi costi politici e sociali che questa "crescita senza diritto" sta comportando. In Cina, della tradizione comunista sopravive tutto il peggio e tutto l'essenziale. L'impronta tecnocratica. Il controllo statale dei meccanismi della vita produttiva e della stessa iniziativa privata. La repressione di ogni forma di conflitto sociale e politico.

Smettiamo di tapparci gli occhi. Progressi reali in termini di democrazia e di rispetto dei diritti fondamentali in Cina e nei territori occupati del Tibet, del Turkestan orientale e della Mongolia interna devono diventare il perno su cui gli Europei devono fondare i loro rapporti, economici, culturali e politici, con Pechino.

Agli insuccessi della Realpolitik occidentale, non proponiamo di rispondere in modo astratto. Qualunque ipotesi di boicottaggio economico, di "isolamento" commerciale, sarebbe destinato a rimanere sulla carta. Bisogna però cambiare obiettivo: invece di continuare ad assecondare il processo in atto in Cina (con l'intento più o meno vago di limitarne gli eccessi) dobbiamo cercare di influire su tale processo, fino a invertirne l'attuale tendenza di fondo, che è conservatrice. A cominciare dal caso concreto del Tibet. Non affidare alle diplomazie nazionali o parallele la "trattativa" con il regime di Pechino, ma farne l'oggetto di una vera iniziativa internazionale.

(Per il Tibet, come si è fatto per la questione di Timor Orientale, bisogna ripartire dalle Nazioni Unite, dalle risoluzioni del Palazzo di Vetro del 1963, 1964 e 1965 che condannavano l'occupazione del paese da parte di Pechino. E' su questa base che gli Europei si devono fare i promotori dell'apertura sotto l'egida del Segretario Generale dell'ONU di negoziati tra il governo cinese ed il governo tibetano in esilio.)

 
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