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Dell'Alba Gianfranco - 18 agosto 1992
Appunti sul Trattato di Maastricht

di Gianfranco Dell'Alba (*)

SOMMARIO: In questa nota l'autore fa un'analisi dettagliata del Trattato sull'Unione europea, meglio conosciuto sotto il nome di Trattato di Maastricht. Mostra come si ispira nettamente alla visione "funzionalista" della costruzione europea e non a quella federalista e spinelliana. (Bruxelles, 18 agosto 1992)

1) Il trattato cosiddetto di Maastricht poiché nella città olandese è stato negoziato dai capi di Stato e di Governo e poi parafato dai ministri degli esteri il 7 febbraio 1992, si chiama in realtà "TRATTATO SULL'UNIONE EUROPEA".

Esso innova dunque la terminologia Cee introducendo la nozione di Unione europea. Il termine Unione nasce da lontano: sin dagli albori alla vera e propria Federazione europea propugnata da alcuni (Spinelli tanto per citare un nome) o alle Comunità settoriali care ai "funzionalisti" (Monnet), chi voleva fare l'Europa senza far perdere potere agli Stati contrappose il concetto di Unione, appunto, forma di cooperazione fra stati su materie di interesse comune. E tale termine ha fatto indubbiamente strada negli ultimi vent'anni, tanto che persino il progetto Spinelli votato dal PE nel 1984, pur dichiaratamente federalista, si chiamava progetto di Trattato di unione europea.

L'Unione europea di Maastricht già nel nome simboleggia dunque il lento ma costante declino di quegli embrioni di federalismo dell'inizio, persi poi via via per la strada: la CECA ha un organo sovrannazionale (l'Alta Autorità, poi fusa con la attuale Commissione CEE) realmente indipendente e sovrana per le materie - limitate - di sua competenza, il carbone e l'acciaio; la CEE e l'Euratom vedono già l'affermarsi del Consiglio dei Ministri come organo decisionale quasi assoluto, seppure retto dal principio del voto a maggioranza e quindi con germi di sovranazionalità seppure ricondotti in seno ai governi, nonché un certo potere d'esecuzione autonomo della Commissione; il compromesso del Lussemburgo voluto dalla Francia gollista nel 1966, cioè proprio quando doveva finalmente entrare in vigore il principio del voto a maggioranza, e da li invocato poi a iosa da tutti i paesi, rintroduce invece, senza essere realmente mai stato abrogato successivamente, l'idea dell'esigenza dell'unanimità a discrezione libera di

ciascun stato membro; il potere di esecuzione della Commissione viene eroso constantemente ed ormai anche in questo campo sempre più i Comitati di esperti nazionali affiancano e/o dirigono l'azione in questo campo; il Consiglio europeo, il vertice dei capi di stato e di governo, si afferma infine come massima istanza di arbitraggio e di impulso della Comunità.

Né a quest'involuzione può contrapporsi il limitatissimo aumento dei poteri del PE, più di facciata che di sostanza.

L'Unione chiude questa parabola e nel momento in cui aumenta il raggio d'azione comune fissa regole diverse per ciascun campo, scegliendo risolutamente la strada della mera cooperazione intergovernativa per le materie nuove, procedendo a qualche ritocco ai trattati esistenti, e innovando realmente solo in campo economico e monetario, ma anche li sempre in un ottica che prescinde praticamente dalla dinamica interistituzionale comunitaria quale viene praticata attualmente.

L'Unione, nel nostro caso, nasconde quindi innanzitutto la disunione istituzionale, minando l'intero edificio poiché le regole più disparate sono d'applicazione "ratione materiae". Vediamole dunque più in dettaglio.

2) L'Unione consta di un quadro teorico unico a cui presiede il Consiglio europeo (unico organo le cui attribuzioni e composizione siano definite negli articoli relativi all'Unione in quanto tale, il che la dice lunga sul carattere marcatamente intergovernativo dell'insieme), composto in realtà delle seguenti entità distinte (chiamate in gergo comunitario "pilastri"):

a) la Comunità economica europea che si intende denominare "Comunità europea";

b) la Comunità europea del Carbone e dell'Acciaio destinata a sparire al più tardi nel 2OO2 ed essere assorbita dalla C.E.;

c) l'EURATOM;

d) la Politica estera e di sicurezza comune (P.E.S.C.), definita proprio cosi, non comunità, comitato, organo, centro, niente, solo cosi.. "è istituita una P.E.S.C ...";

e) una "cooperazione nei campi della giustizia e degli affari interni", ancor più vaga della precedente;

vi sono poi 17 protocolli e 33 dichiarazioni alcune dei quali, come vedremo, molto, molto importanti.

Esaminiamo ora succintamente le differenti componenti del Trattato per poi soffermarsi sulle disposizioni che sono di grande interesse per la situazione attuale in seguito al referendum danese.

3) Disposizioni che modificano il trattato CEE per istituire una Comunità europea

come si è detto una delle caratteristiche di questa parte è la soppressione della parola "economica": nella prassi corrente del resto si fa oggi allusione "alle Comunità europee" per definire la CEE, la CECA e l'EURATOM, che come si sa hanno organi comuni: il cambio di denominazione, che tiene conto di un aspetto "diritti dei cittadini" incluso nel trattato, ma più dell'assorbimento a tempo delle altre due comunità nella CEE, è più di forma che di sostanza, ma ha dato luogo ad una speculazione giuridica - di bassa lega - in base alla quale, con il testo firmato a Maastricht, non ci si trova in realtà in presenza di modifiche dei Trattati esistenti - modifiche che richiedono l'unanimità di tutti i paesi membri, ma di un vero e proprio nuovo trattato - poiché si istituisce una nuova comunità - che dunque può entrare in vigore indipendentemente dal numero dei contraenti! Tesi in verità assai ardita che cerca cosi di parare il no danese, ma che non ha fatto sinora molta strada pur se avanzata da autorevoli giuri

sti (Duverger, ad esempio). Ci torneremo alla fine.

L'art.3 è importante poiché annuncia con grande precisione le azioni che in virtù dei fini enunciati all'art.2 la Comunità intraprende.

tali azioni sono: (con asterisco i paragrafi aggiunti al vecchio trattato dal testo di Maastricht):

a) l'eliminazione delle barriere doganali interne o misure equivalenti, la creazione di un mercato interno caratterizzato dall'abolizione degli ostacoli alla libera circolazione dei beni, servizi, persone e capitali;

b) una politica comune del controllo dei movimenti di cittadini extracomunitari alle frontiere (visti), nonché, se eventualmente cosi deciso successivamente dal Consiglio, anche di asilo, di immigrazione legale e clandestina, la lotta alla tossicomania e alla frode di dimensione internazionale;*

c) una politica comune in materia commerciale, agricola e della pesca, dei trasporti, della concorrenza;

d) il riavvicinamento delle legislazioni nazionali per il funzionamento del mercato comune;

e) una politica (non comune) nel settore sociale, nell'ambiente, nella cooperazione allo sviluppo;*

f) il rafforzamento della coesione economica e sociale, nonché della competitività dell'industria;*

g) la promozione della ricerca;*

h) l'incoraggiamento all'istituzione delle reti transeuropee;*

i) un contributo alla realizzazione di un alto livello di salute nonché all'educazione, alla formazione ed alla cultura ed alla protezione dei consumatori;*

j) si cita infine l'energia, la protezione civile ed il turismo per dire che si vedrà come trattare queste materie nella prossima conferenza intergovernativa prevista per il 1996;*

Come si vede dunque convivono numerose specie di politiche comunitarie, ad ineguale livello: guarda caso, tutte le politiche comuni (con l'eccezione per quella dei visti) erano già previste nel Trattato di Roma del 1957, mentre le innovazioni apportate dal Trattato di Maastricht enunciano dei settori nei quali la Comunità è abilitata ad intervenire, certo, ma in convivenza con le competenze nazionali, il che certo non contribuisce a rafforzare un ruolo proprio della CE.

Il Trattato dunque conferma l'intenzione di fare evolvere l'integrazione in questi settori - che in modo pragmatico o in seguito all'adozione dell'Atto unico erano già entrati a far parte dell'azione comunitaria -, senza far tuttavia divenire le azioni in questi settori politiche comuni. Ecco il motivo per cui gli agricoltori manifestano a Bruxelles, mentre i metallurgici, gli ambientalisti e, che so, i ricercatori, si rivolgono piuttosto ai rispettivi ministri nazionali. Questa mancanza di volontà politica di proseguire l'opera intrapresa vizia di molto la reale capacità di coordinamento e di integrazione che in questi campi, e dunque in generale nella vita della Comunità, si è in grado di avere.

(Né è un caso del resto che i poteri del PE siano nulli o quasi in campo agricolo, commerciale, di visti, e di concorrenza - con l'eccezione dunque dei trasporti - politica comune peraltro la cui effettiva realizzazione è stata ottenuta proprio dall'azione del PE -, e siano un po più ampi, con diverse gradazioni proprio in funzione del grado maggiore o minore di impegno comunitario, negli altri settori non considerati strettamente "politiche comuni").

L'art.3A inserito a Maastricht comporta l'instaurazione di una politica economica fondata "sullo stretto coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri" e parallelamente "secondo ritmi e procedure definite oltre, l'instaurazione di un sistema di cambi fissi e di una moneta unica nonché la definizione di una politica monetaria e dei cambi unica avente come primo obiettivo la stabilità dei prezzi e accessoriamente il sostegno alle politiche economiche generali.

I principi direttori annunciati sono: prezzi stabili, finanze pubbliche sane, bilancia dei pagamenti stabile.

Questo è l'articolo che introduce il nuovo capitolo relativo alla Unione economica e monetaria: lo vedremo oltre.

L'art.3B inserito a Maastricht sta diventando la chiave di volta del tutto: definisce infatti il famoso principio di "sussidiarietà" in questi termini:

"nei campi che non rientrano nella sua competenza esclusiva (tutti quelli che abbiamo appena visto non essere "politiche comuni"), la Comunità non interviene che se e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione progettata non possono essere realizzati in modo sufficiente dagli Stati membri e possono dunque, in virtù dello loro dimensioni o degli effetti dell'azione progettata, essere meglio realizzati a livello comunitario."

Sull'interpretazione di questo articolo verterà molta parte del prossimo Consiglio europeo di Edimburgo: gli inglesi infatti, e non solo loro, vogliono usarlo come grimaldello per spossessare la Commissione, e accessoriamente il PE, dei loro residui poteri in vari campi, a cominciare da quello ambientale.

La sua chiave di lettura è abbastanza semplice: in tutti i campi nei quali, come abbiamo visto, la Comunità non ha che un ruolo di accompagnamento di politiche nazionali, o dove tutt'al più ha una sua "politica", limitata a certi ambiti, nel contesto più generale di un settore dato, prima che un'azione venga intrapresa dalla Comunità si dovrà valutare (chi: i Governi, da soli, la commissione, il P.E., perché no le Regioni?) se la stessa azione non potrà essere meglio intrapresa a livello nazionale. In chiaro, questo può condurre a impedire azioni comuni la dove diano fastidio, più che effettivamente ad affrancare la Comunità da un centralismo eccessivo. Infatti, mentre chi sosteneva la sussidiarietà in un primo tempo lo faceva soprattutto per liberare la Comunità dall'onere di legiferare sulle dimensioni delle gabbie per polli o altro, cosi come si legge testualmente l'articolo attuale nulla consente in campo agricolo, dove la Comunità ha competenza esclusiva, e l'unico campo d'azione del principio sembra es

sere proprio in quei settori per i quali semmai andava affermata e non limitata una competenza comunitaria.

Addirittura, già si parla del fatto che questo articolo vada applicato non solo alle azioni "normative", ma anche a quelle "esecutive", quindi magari il potere della Commissione sul controllo dell'applicazione di certe direttive può essergli sottratto per venir "nazionalizzato" in nome del principio di sussidiarietà. (Il governo inglese piuttosto infastidito del fatto che il Commissario CEE per l'Ambiente Ripa di Meana si fosse permesso di metter il naso sull'applicazione della direttiva sull'impatto ambientale in Gran Bretagna (la famosa V.I.A.) prende spunto proprio da questa più che legittima "ingerenza" per provare a sottrarre questo pur modesto potere alla Commissione).

Chiarezza estrema su come sarà interpretato questo articolo è elemento essenziale, direi preliminare, per dare un giudizio d'insieme sul trattato. ci si tornerà alla fine.

Definiti i principi, una rapida scorsa agli aspetti principali del nuovo Trattato.

CITTADINANZA. (art.8)

E' istituita una cittadinanza dell'Unione: pochi i diritti riconosciuti al "cittadino" europeo expressis verbis:

diritto di circolare liberamente tra i dodici (con clausole limitative "usuali"), soprattutto diritto di elettorato attivo e passivo per il Parlamento europeo e analogo diritto per le elezioni municipali, secondo modalità da fissare al più tardi entro il 31 dicembre 1993.

Questo è indubbiamente un passo avanti: gli italiani sono certamente i più interessati direttamente alla questione, ma è proprio questa piccola pista verso un effettiva integrazione che fa urlare gli ultranazionalisti in Francia e in altri paesi.

La norma sulle elezioni municipali, oltre quella sul PE, è una delle poche norme da giudicare positivamente, ed è proprio quella sulla quale in particolare si scatenano le critiche "di destra nazionalista" - qui includendo anche i socialisti nazionalisti alla Jean Pierre Chevènement -. Questo va detto poiché una valutazione globale di Maastricht deve tener conto anche di questo fattore per il quale un no sarebbe anche un no - definitivo - a questo punto. Naturalmente, è molto importante capire quali saranno le modalità di esecuzione di questa norma: vi sono deroghe comprensibili, ad esempio in Francia i sindaci di certi comuni sono "grandi elettori" dei senatori e quindi vi sono dei problemi costituzionali, ma il principio è sancito: occorrerebbe comunque chiedere al governo le modalità di esecuzione in Italia di queste norme.

POLITICA ECONOMICA E MONETARIA (artt. da 1O2A a 109M).

La parte relativa all'Unione Economica e Monetaria (che fa parte integrante della Comunità europea, anche se il termine Unione usato inizialmente poteva far pensare altrimenti) si divide in due capitoli:

a) la politica economica

b) la politica monetaria

e si articola in tre fasi: la prima fino al 31/12/93, la seconda

dal 1/1/94, la terza al ... più tardi dal 1/1/99!

a) per la prima, si afferma che gli stati membri considerano le loro politiche economiche come una questione d'interesse comune e le coordinano in seno al Consiglio. Se uno stato non rispetta le grandi linee di politica economica fissate di comune accordo dal Consiglio (nessun ruolo per il PE in questo), il Consiglio può indirizzare delle raccomandazioni al paese in questione e, nei casi estremi, può renderle pubbliche. Questo pero è tutto il potere "sovranazionale" che viene riconosciuto. Non è poi molto.

Sul deficit pubblico (art.1O4 - entra in vigore con la seconda fase, ma non la parte sulle sanzioni), si afferma che esso va evitato: se non si ottempera ai criteri generali fissati un meccanismo istituzionale di messa in mora progressiva dello stato in questione viene azionato: le sue estreme conseguenze sono: obbligo di depositare una somma appropriata presso le istituzioni Comunitarie; pagare un'ammenda. Qui si va già un po più avanti: è evidente che le misure finanziarie del governo Amato partono da questa esigenza di rientrare in carreggiata: anche in questo caso, non mi sentirei di criticare questa parte del trattato per la particolare situazione italiana, una sferza esterna può risultare positiva: naturalmente l'approccio per altri paesi può essere diverso, e un impiantito apparentemente cosi rigorosamente monetarista lascia perplessi più di qualcuno. (Sono queste norme e quelle successive sulla politica monetaria, ad esempio, che fanno più storcere la bocca ai verdi belgi, altrimenti assai federalist

i, che in definitiva hanno votato NO alla ratifica del Trattato.

b) la politica monetaria

L'obiettivo di fondo è la messa in comune delle banche centrali europee chiamate a condurre in comune la politica monetaria della Comunità insieme alla Banca Centrale europea (B.C.E.): per semplificare i dodici governatori delle corrispondenti banche centrali nazionali - che nel frattempo avranno dovuto ricevere dai rispettivi paesi uno statuto di assoluta indipendenza dai governi -, ed il governatore della costituenda B.C.E. avranno il compito di:

- definire e mettere in opera la politica monetaria della Comunità (la B.C.E. essendo la sola abilitata ad autorizzare emissione di circolante)

- condurre le operazioni di cambio

- detenere le riserve di cambio dei paesi membri

- promuovere il buon funzionamento del sistema dei pagamenti

Per quanto riguarda le varie fasi, nella prima, nella quale ci troviamo, i paesi membri devono soprattutto mettersi in regola adottando dei programmi di convergenza, nella seconda iniziano alcuni meccanismi di limitazione al deficit pubblico e vengono perfezionati gli statuti delle banche centrali, mentre viene istituito un Istituto Monetario europeo (I.M.E.) chiamato ad essere l'embrione del S.E.B.C. ed a sparire all'inizio della terza fase.

Composto dai governatori delle banche centrali e da un presidente, inizia a preparare la terza fase; alla fine l'I.M.E. farà un rapporto nel quale si vedrà quali paesi soddisfanno ai criteri seguenti:

- realizzazione di un livello elevato di stabilità dei prezzi;

- buona situazione della finanza pubblica(senza eccessivo deficit);

- rispetto dei margini normali nella fluttuazione dei cambi - che diverranno fissi con la terza fase;

- carattere duraturo della convergenza e quindi livello normale dei tassi di interesse.

Sulla base di questo rapporto, il Consiglio europeo può decidere entro il 31 dicembre 1996 se c'è una maggioranza di Stati che sono suscettibili di passare alla terza fase e di adottare una moneta unica. In caso di non decisione, la terza fase entra comunque in vigore il 1/1/99 per i paesi che soddisfaceranno le condizioni richieste. Naturalmente gli stati rimasti fuori potranno sempre entrare una volta soddisfatte le condizioni.

Quando entrerà in vigore la terza fase verrà fissato il valore irrevocabile dell'ECU per le monete dei paesi entrati nella terza fase e l'ECU progressivamente diverrà la moneta di quei paesi.

Il Gruppo verde al PE ha giudicato molto negativamente questo impiantito ritenuto troppo monetarista e unicamente volto, in definitiva, a sostenere la crescita economica e la convergenza delle economie come unici obiettivi reali da perseguire, in questo andando contro l'art.2 del Trattato stesso che, enunciando i fini della Comunità precisa che essi sono:

"promuovere uno sviluppo armonioso e equilibrato delle attività economiche nell'insieme della Comunità, una crescita duratura e non inflattiva rispettosa dell'ambiente, un alto grado di convergenza delle economie, un livello di occupazione e di protezione sociale elevato, l'innalzamento del livello e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra gli stati membri".

Non si scorge in effetti nell'unica politica realmente messa in comune, quella monetaria, elementi tali da correggere questo giudizio, la politica fiscale procede molto a rilento e sempre secondo la regola dell'unanimità, le misure di carattere sociale in senso lato sono effettivamente rette da regole molto più labili.

Ciò detto, pur ritenendo queste critiche fondate, il mio personale giudizio è che questo processo una volta lanciato, non potrà che "trainare" il resto: certo l'ideale sarebbe stato un bilanciamento sin dall'inizio, ma in fondo Spinelli ha sempre sostenuto che la moneta unica (lui a dire il vero diceva anche l'esercito...) è un fattore decisivo di integrazione. La convergenza realizzata non potrà non far "comunitarizzare" gli altri problemi che non lo sono, o non lo sono sufficentemente.

Il problema è piuttosto quello di vedere se si arriverà davvero alla terza fase: occorrerà intanto che un numero sufficienti di paesi soddisfino le condizioni (si dice che a rigore, per ora, solo la Francia e il Lussemburgo lo siano) e poi che si definisca il caso dei due paesi che di fatto non riconoscono queste norme: la Danimarca- anche prima del referendum aveva chiesto e ottenuto una deroga per organizzare un nuovo referendum sul passaggio alla terza fase - e soprattutto la Gran Bretagna per la quale uno specifico protocollo sancisce che ... il trattato sull'unione monetaria molto semplicemente non si applica al Regno Unito!!

(E' in realtà la prima volta nella storia della Comunità che questa scappatoia (il cosiddetto opting-out) viene inserita; naturalmente ciò può condurre molto, molto lontano).

Le ISTITUZIONI

Il Parlamento Europeo dal trattato di Maastricht riceve, oltre ai poteri che già aveva:

- il potere di partecipare in condizioni di parità col Consiglio al processo per la definizione di una procedura uniforme per la sua elezione quinquennale (tale procedura peraltro oggi non esiste, per cui tutto ciò è molto teorico, se si pensa che il Consiglio delibera all'unanimità, per cui sinora nessuna conciliazione è stata possibile tra proporzionalisti e uninominalisti);

- il potere di inchiesta, secondo modalità che devono essere fissate di comune accordo con il Consiglio e la Commissione;

- il diritto di esaminare petizioni, sancendo cosi una prassi già in atto;

- il potere di nominare un mediatore (ombusman) e di fissarne le competenze;

- il potere di dare o negare la fiducia alla Commissione esecutiva prima che essa prenda le sue funzioni;

- il potere di partecipare alla formazione di atti legislativi aumentando leggermente i poteri già detenuti dal PE, ma come si è visto quasi esclusivamente nei settori non comuni;

- il potere di iniziativa legislativa, attraverso la richiesta alla Commissione di predisporre una normativa comunitaria in una determinata materia;

- il potere di dare lo "scarico di bilancio" alla Commissione;

Come si vede ben poca cosa, nel momento in cui in effetti aumentano i settori di intervento, specie come si è visto in campo economico, che vengono quindi sottratti ai parlamenti nazionali senza essere trasferiti al PE, ma avocati dal Consiglio.

Quindi aldilà del maggior o minor ruolo del PE quello che preme sottolineare è il pesante deficit democratico che continua a essere una delle caratteristiche della costruzione europea che pur offriamo a modello al resto del Continente.

Il Parlamento non ottiene la piena codecisione legislativa, mentre il Consiglio mantiene in molti casi la regola del voto all'unanimità (nonché della segretezza delle sue delibere), mentre è praticamente escluso da qualsiasi ruolo in materia di revisione dei trattati, di politica estera e interna, di politica economica e monetaria. Sulle politiche comuni poi, ha solo il diritto ad essere consultato, ma non quello di poter metter bocca con un minimo di forza.

Tra le istituzioni, stranamente, e segnatamente nella parte riguardante il PE, vengano citati i partiti politici a livello europeo che, si dice "sono importanti in quanto fattore d'integrazione in seno all'Unione. Essi contribuiscono alla formazione di una coscienza europea ed all'espressione della volontà politica dei cittadini dell'Unione."

E' la prima volta che tale "rilevanza costituzionale" dei partiti viene espressa e non escludo che ciò precluda a qualche forma di finanziamento per partiti europei, magari sotto forma di federazioni!!

Sulle altri istituzioni poco da dire se non la creazione, con mere funzioni consultive, di un Comitato delle Regioni, composto per l'Italia di 24 membri, del quale sarebbe interessante chiedere conto delle modalità di designazione, oltre che criticare la modesta risposta che è stata data alla domanda di una maggiore partecipazione delle regioni al processo decisionale della Comunità. La sussidiarietà va bene solo se consente alle amministrazioni nazionali di recuperare competenze, ma per quanto riguarda le regioni. ... è tutta un altra storia.

TRATTATI CECA E EURATOM

Le modifiche a questi trattati, che il PE avrebbe voluto vedere fusi nel trattato CEE soprattutto per poter finalmente instaurare una politica dell'energia, sono formali ed adattano le norme già illustrate sin qui.

P.E.S.C.

La politica estera e di sicurezza comune non fa che sancire il modello esistente di coordinamento fra i paesi membri. Non vi è niente di più che una cooperazione politica fra i governi, assistiti da un Comitato dei direttori degli affari politici dei ministeri, che fa politica estera comune quando può, quando tutti vogliono, e quando non sono cose troppo complicate! Non vi è insomma nessuna obbligatorietà tranne quella di non intraprendere azioni senza averne fatto partecipi gli altri, ma non si va molto più avanti. In più si affida all'UEO, organizzazione tenuta in vita sin qui con la respirazione artificiale e ancor più "intergovernativa", la "delega" eventuale a svolgere azioni di difesa comune per conto di tutti. La regola di base è l'unanimità, poco ha da dire la Commissione, punto il Parlamento, tanto che il Consiglio ormai da quasi un anno si rifiuta di comparire davanti al Parlamento per rispondere su temi di PESC, tranne che nelle poche occasioni istituzionali previste.

E' divertente constatare che quando nel 1960, tra la crisi dell'aereo americano in territorio sovietico e la costruzione del Muro di Berlino, si rilancio l'idea di una cooperazione politica europea, fu il Generale De Gaulle ha ispirare due progetti in tal senso, i piani Fouchet, sostanzialmente identici alla struttura attuale che... furono rigettati con sdegno dagli altri cinque governi appunti perché troppo intergovernativi e perché tendevano di fatto a sminuire le competenze ed il ruolo in prospettiva della Comunità!

COOPERAZIONE IN MATERIA DI GIUSTIZIA E DI AFFARI INTERNI

Anche in questo caso, si codifica un embrione di cooperazione intergovernativa già esistente a livello ministeriale (gruppo Trevi, Accordi di Schengen) e incontri periodici a livello ministeriale dovrebbero sviluppare la cooperazione. Punto ruolo di Commissione e P.E. se non quello di poter essere consultati sui grandi orientamenti e discutere del bilancio dei progressi realizzati nel settore. Una clausola "evolutiva" afferma che, se tutti sono d'accordo, si può decidere di "comunitarizzare" alcuni dei settori inseriti in questo capitolo (dando cosi un certo ruolo a Commissione e Parlamento europeo).

Anche qui si rischia dunque di veder decisa una politica senza controllo democratico ne del PE ne dei parlamenti nazionali.

DISPOSIZIONI FINALI

Due quelle di particolare interesse:

L'articolo N che riconduce a livello dell'Unione le norme già esistenti in materia di modifiche dei trattati: si riafferma, senza quindi concedere nulla al PE che pure aveva chiesto di essere se non attore principale, almeno associato a tale processo, che gli emendamenti ai trattati entrano in vigore "dopo esser stati ratificati da tutti gli stati membri conformemente alle loro regole costituzionali rispettive" (attuale articolo 236 del Trattato CEE).

Ciò significa, a contrario, che se non vi è ratifica dei dodici, non vi sono emendamenti ai trattati! E' esattamente la situazione nella quale ci troviamo; il Trattato di Unione europea di Maastricht è nato da un processo negoziale lanciato nel corso di un Consiglio europeo conformemente all'art.236 del Trattato CEE; tutto il negoziato si è svolto secondo questa procedura e la buona fede dei negoziatori si basava su questo assunto, anche se in realtà si è istituita un'entità nuova - l'Unione europea - che teoricamente potrebbe essere scorporata dal Trattato CEE propriamente detto: fa fede di Ciò il fatto, appunto, che ove si ammettesse, in ipotesi, che esistono diversi Trattati e che al limite l'obiezione non può valere che per il Trattato CEE, che questo stesso Trattato, in seguito alle modifiche di Maastricht, non comporta più proprio l'articolo relativo alle sue ulteriori modifiche (l'art.236 viene infatti soppresso).

La regola costituzionale danese per ratifiche di questo tipo è il referendum: questo vi è stato, è stato negativo, dunque manca attualmente un elemento costitutivo per l'entrata in vigore dell'intero Trattato né, rebus sic stantibus, possono bastare le altre 11 ratifiche per modificare questo stato di cose.

Del resto, è formale l'articolo R del nuovo trattato che stipula che "il presente trattato entrerà in vigore il 1 gennaio 1993, a condizione che tutti gli strumenti di ratifica siano stati depositati o, altrimenti, il primo giorno del mese successivo al deposito dello strumento di ratifica dello stato firmatario che procederà per ultimo a questa formalità".

Quindi, nella migliore delle ipotesi, si potrà pure concordare un protocollo che, poniamo - come nel caso del Regno Unito per l'Unione monetaria e le questioni sociali -, escluda la Danimarca dall'applicazione delle nuove norme, ma occorrerà comunque una nuova procedura di ratifica danese alle norme eventualmente cosi modificate anche per escluderne la loro applicazione in Danimarca, e parimenti occorrerà, il linea di principio, che si sottoponga a ratifica negli stati che hanno già ratificato, le nuove eventuali norme di "opting out" della Danimarca.

Dico questo perché credo che in questo imbroglio giuridico, sia forte la posizione di dire che a queste condizioni, l'Italia preferisce attendere il vertice di Edimburgo per vedervi chiaro, su questa e su alcune altre materie, prima di ratificare il tutto!

Una seconda riflessione da fare riguarda l'articolo 0 del Trattato che regola le procedure di adesione di paesi terzi e sostituisce, come l'articolo precedente, il precedente articolo corrispondente del Trattato CEE (art.237).

In esso si afferma dunque che ogni nuovo stato membro dovrà aderire all'Unione cosi come si configura nella struttura di Maastricht; si sa peraltro che gli inglesi, veri trionfatori di questo processo di rinazionalizzazione del tutto e svuotamento dall'interno della Comunità come la diplomazia del Foreign Office aveva sempre preconizzato - e bene faceva De Gaulle a tenerli fuori - vogliono accelerare i tempi per far aderire Svezia, Austria, Finlandia e Svizzera e bloccare cosi ogni ulteriore velleità evolutiva. L'articolo 0 prevede non solo le ratifiche nazionale, ma anche il parere conforme del PE.

Si potrebbe dunque, come il PE sommessamente ha già minacciato di fare, assortire il dibattito sulla ratifica ad una clausola esplicita del tipo "niente allargamento senza approfondimento" nel senso delle riforme necessarie per la democraticità della Comunità(o Unione). In mancanza di questo, niente allargamento.

A mio giudizio questo potrebbe essere un elemento che consentirebbe di spostare il tiro dal "si o no a Maastricht", sul "che succede dopo Maastricht" e porre da subito delle condizioni precise per l'evoluzione delle cose. Se ormai, per un paradosso molto relativo, tengono a Maastricht come la luce dei propri occhi quei governi - Gran Bretagna e Francia - meno "federalisti" che vi siano, anche l'Italia, legata ad un dimenticato referendum consultivo del 1989 molto positivo, dovrebbe poter essere in grado di imporre le sue condizioni all'entrata in vigore del Trattato.

Per riassumere e concludere, tralasciando di dilungarmi sui protocolli e le dichiarazioni se non per ricordare:

a) che la Gran Bretagna ha ottenuto, di fatto, di essere esentata dalla politica sociale della Comunità, le decisioni CE non si applicheranno dunque al Regno Unito e il governo britannico non parteciperà alla presa di decisioni in questo settore. La cosa è paradossale, perché domani lo stesso si potrebbe fare su questo o quell'altro settore: in più vi sarebbe il problema ad esempio della partecipazione degli stessi eurodeputati inglesi al processo decisionale: perché norme sociali dovrebbero essere influenzate, con emendamenti e rapporti, da deputati di un paese dove queste stesse norme non si applicano?

Un chiarimento sulle modalità di questa esclusione si impongono: ad esempio quale è la situazione di un lavoratore italiano in Gran Bretagna, cittadino europeo, al quale magari non verrebbero riconosciuti quei diritti accordati invece in Italia ad un inglese? Varrebbe la pena su questo di chiedere lumi al governo.

b) che la parte riguardante la "coesione economica e sociale" è ancora in alto mare. La coesione è in realtà il riconoscimento che il bilancio CE deve farsi carico dei paesi in ritardo di sviluppo e finanziare progetti specifici; ora questi paesi sono la Spagna, il Portogallo, la Grecia e l'Irlanda. L'Italia ovviamente, quinta potenza mondiale come diceva quello, è esclusa da questo criterio nazionale, che mette da parte un esame regionale che avrebbe meglio messo in risalto che il Mezzogiorno ha un P.I.L. inferiore alla Spagna, ad esempio. Risultato, nei nuovi conti previsti per pagare la fattura di Maastricht, come dice Delors, l'Italia si ritroverà fra i contribuenti più generosi del bilancio CEE, anche perché si progetta si diminuire il gettito proveniente dall'IVA, che con tutte le evasioni italiane è sottostimato a nostro favore, e fare più riferimento al PNL il che quindi ci svantaggia.

Anche su questo e sulla posizione del governo che eredita cosi il pesantissimo retaggio della gestione de Michelis, occorre chiedere conto al governo.

c) vi è una dichiarazione sulle "Assise" o Conferenze dei parlamenti: si riconosce una certa rilevanza a riunioni periodiche di PE e parlamenti nazionali: si potrebbe - la cosa è rischiosa occorre valutarne bene l'opportunità - chiedere la convocazione di tale organo prima della ratifica italiana, alla luce delle proposte che saranno fatte per sanare il caso danese e che certamente rappresenteranno un "grande orientamento" dell'Unione, cioè materia suscettibile di essere trattata dalle assise.

Per concludere il mio giudizio complessivo è il seguente:

1) Dopo il referendum danese ed il vertice di Lisbona, schierarsi contro Maastricht significa purtroppo fare il gioco di coloro che vogliono ancora meno Europa di quella che c'è. In Italia, sarebbe dare testimonianza, senza speranza, e con nessuna certezza di far passare con chiarezza una posizione federalista, ma senza pero nessun strumento per condizionare la posizione italiana in positivo. In Francia, vede schierato per il NO il fronte paleonazionalista più becero mai visto dai tempi della CED, quando anche allora, comunisti, gollisti, socialisti nazionalisti, individualità "illuminate" radicali e altro si unirono per respingere l'idea che un generale tedesco potesse comandare un reparto francese. E' un po lo stesso spirito di oggi, condito da ovvie considerazioni immediate (se vi è un No a Maastricht, Mitterrand dovrebbe logicamente dimettersi).

Inoltre, malgrado i limiti estremi del trattato, non credo che il modo migliore di combatterlo sia un NO, che poi si perde (i socialisti italiani votarono No al trattato istitutivo della CEE, i Comunisti dissero No alla creazione dello SME; se ce ne ricorda è per irriderli), quanto un Si condizionato.

2) Detto questo, penso che il referendum danese e la conseguente impossibilità per il governo di quel paese di rispettare le norme per la ratifica fa si che il parlamento non può esaminare serenamente il progetto di trattato: l'esistenza giuridica di questo trattato è dubbia, oggi, e per l'appunto i gollisti del NO in Francia hanno depositato un ricorso presso il loro Consiglio Costituzionale proprio sul quesito: "cosa si va a votare?"

In queste condizioni di incertezza, scartando subito la balla secondo cui un voto preventivo italiano aiuterebbe i SI in Francia: come si pretende che il SI di un paese cosi screditato come l'Italia - peraltro di cui è nota la vocazione europea - possa influenzare in alcun modo le decisioni di un paese cosi sciovinista come la Francia (potrebbe per paradosso essere vero il contrario), un rinvio del dibattito sulla ratifica dopo il Consiglio europeo di Edimburgo potrebbe rivelarsi una posizione sulla quale coagulare forze di opposizione e anche di aerea governativa.

Si potrebbe motivare in effetti:

- che occorre vederci chiaro e che non c'è poi questa fretta, potendo istruire il dibattito in commissione, ma non concluderlo in aula che dopo il vertice previsto il 9 e 10 dicembre(si ha tempo fino al 31 dicembre, e va comunque risolto il caso danese);

- che occorre vederci chiaro non solo sulla Danimarca, ma sull'ordine del giorno del vertice di Edimburgo stesso chiamato a decidere su due questioni chiave:

a) il finanziamento del bilancio CEE - e qui si può dar voce al malcontento generale per la posizione dell'Italia

b) la maniera nella quale si intende applicare il principio di sussidiarietà(lo stesso Ripa ha già messo in guardia sui rischi ad esempio dello smantellamento degli già scarsi poteri della Commissione CEE in materia di ambiente

c) come si intende correggere da subito il problema del deficit democratico della Comunità, sostenendo ad esempio che certamente fra i fattori che hanno determinato il no dei danesi vi è quello della sottrazione di poteri al parlamento danese, senza un corrispettivo aumento di poteri per il PE, o comunque di organi rappresentativi.

L'Italia insomma che sinora è stata buona buona, potrebbe anche lei far sentire la sua voce e mandare ad Edimburgo un governo che dica che non otterrà la ratifica che a prezzo ad esempio di un anticipo delle Conferenze di riforma dei Trattati stessi (previste nel 1996) al 1993, di un'associazione del PE a tale processo o cose simili. Non è accettabile che alcuni stati ottengano tutto nel Trattato e le per le due cose (non certo marginali) sulle quali non sono d'accordo abbiamo diritto a chiamarsi fuori e l'Italia alla quale l'88% dei cittadini ha chiesto di operare per dare al PE poteri costituenti non riesca a imporre nulla, ad esempio un "preambolo democratico" da annettere al Trattato che rilanci l'aspetto integrazione, voto a maggioranza, democraticità delle istituzioni, codecisione ecc.

Hanno ragione coloro che in questi giorni, in Francia, partendo da un giudizio favorevole su Maastricht, vedendo l'inazione del loro governo sulla Bosnia e sentendo dire che ciò deriva dal fatto che, poiché la cooperazione politica dei dodici nulla riesce a decidere, loro certo da soli non possono decidere l'invio delle truppe, denunciano l'ipocrisia di coprirsi dietro il dito della mancanza di decisioni a dodici e dichiarano che se cosi stano le cose, chiederanno di votare NO a Maastricht. Se la Politica estera comune deve essere decisa all'unanimità di dodici e magari domani sedici stati, senza magari nemmeno passare dai rispettivi parlamenti, ma allora é molto meglio il buon vecchio sistema per cui ogni paese, attraverso una dinamica governo-parlamento adeguata, si pigliava le sue brave decisioni in politica estera.

La Politica estera comune rischia di diventare l'alibi per il peggio.

L'altro aspetto forte sul quale vincolerei il giudizio finale su Maastricht riguarda l'allargamento: come si sa, a Lisbona il Consiglio europeo ha deciso che saranno esaminate soltanto le domande di adesione dei paesi ricchi (Austria, Svezia, Finlandia, Svizzera, Norvegia quando sarà formalizzata) per tutti gli altri (est compreso) se ne comincerà a parlare, casomai, dopo il 2OOO.

Se cosi stanno le cose, e il governo inglese tiene cosi tanto alle adesioni dei suoi vecchi alleati dell'EFTA (Associazione europea di Libero Scambio, nata nel 1958 proprio per far da contraltare alla CEE) che tutto sarà pronto per l'avvio dei negoziati veri e propri dal 1 gennaio 1993 con l'obiettivo di farli entrare il 1 gennaio 1995, che noi ci si dovrebbe dichiarare sfavorevoli all'allargamento, e comunque riuscire a far votare una mozione che affermi solennemente che il parlamento italiano non ratificherà nessuna nuova adesione tanto che non saranno cambiate alcun regole del gioco!

Questa credo che sarebbe una posizione forte, che potrebbe essere capita dagli inglesi che sanno che senza ratifica non solo del PE ma di un paese non c'è adesione, e sanno che la corda è molto tirata, che da noi, visto il grande interesse suscitato da Maastricht presso gli imprenditori, non solleverebbe grandi contestazioni un eventuale ritardo all'adesione che so svedese, e che ci consentirebbe inoltre di pronunciare un SI alla ratifica di Maastricht, al quale verrebbe messa un po la sordina proprio in virtù di questo schema di contrattacco.

Quindi idealmente niente ratifica prima di Edimburgo, ma richiesta di condizioni e di garanzie precise e comunque impegno a non ratificare nuove adesione prima di un approfondimento della dimensione democratica della Comunità - il che tra l'altro consentirebbe di recuperare una posizione sui paesi dell'est.

Vi è infine la questione del commissario italiano: anche ammesso che ormai non si sostituisca più Ripa, il governo deve nominare entro dicembre i due commissari per il prossimo mandato 1/1/931/1/95 e dovrebbe "negoziare" per i portafogli di questi due signori. Il governo Amato, con la maggioranza cosi risicata che si ritrova, può continuare ad ignorare il gentlemen agreement invalso negli altri grandi paesi per cui, normalmente, i due commissari sono uno di aerea governativa e uno dell'opposizione ?

(*) Gianfranco Dell'Alba è segretario generale del gruppo verde al Parlamento europeo e membro del Partito radicale.

 
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