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Archivio federalismo
Dupuis Olivier - 4 febbraio 1993
Oltre le frontiere
a cura di Olivier Dupuis

SOMMARIO: contributo di Olivier Dupuis su ipotesi di impegno e azione del Pr; costituisce la seconda parte del documento "Federalismo e nazionalità" preparato in occasione di un seminario del Partito radicale svoltosi a Sabaudia dal 4 all'8 settembre 1992

(XXXVI· Congresso del Partito radicale, II sessione, Roma 4/8 febbraio 1993)

INDICE:

2. Europa

2.00. La crisi dell'Europa

2.01. La crisi della Comunità europea

2.02. Riforma o Rifondazione

2.03. Approfondimento o Allargamento

2.04. Il partito della Costituente europea

2.05. L'Anti-Maastricht

2.06. Il partito degli Stati Uniti d'Europa

2.07. Oltre le crisi

2.08. Il partito del Piano Marshall per l'Est-europeo

2.09. Il partito della Transbalcanica

2.10. Europa: la piaga della partitocrazia

2.11. Il partito della governabilità anglosassone

2.12. Per la nascita di partiti europei

2.13. L'Europa ed i diritti delle minoranze

2.14. Il partito della sporcizia etnica

2.15. Il partito delle minoranze

2.16. Il partito degli Zingari

2.17. La questione della Comunicazione e del diritto alla

lingua

2.18. Il partito della democrazia linguistica

2.19. Novità nel campo del diritto internazionale

2.20. Il partito della riforma dell'ONU

2.21. Il disastro ambientale

2.22. Il partito dell'Alta Autorità del Danubio

2.23. Il partito degli Stati Uniti d'Africa Occidentale

2.24. Il partito nonviolento

*****

Da intuizione a idea, da idea a progetto, da progetto a primo abbozzo reale quanto fragile, il Partito Radicale, transnazionale, transpartitico e nonviolento è cresciuto, cresce. Questo processo difficile, sofferto, lungo e tutt'altro che compiuto, rischia, con ogni probabilità, di fermarsi, o, meglio, di essere fermato da una radicale non-corrispondenza tra le sue ambizioni ed i mezzi per concretizzarle, tra le "cose da fare" e la "gente che ci sta".

L'ampiezza, la profondità, la serietà di questa nostra crisi è saputa e risaputa. Solo con un enorme salto di qualità e di quantità, da compiere prima di tutto nei paesi "ricchi", potremmo "farcela". Poco più, tuttora, che una tenue speranza.

Dalla quale siamo partiti per costruire alcune ipotesi prima su ciò che si potrebbe fare, che potremmo fare, SE ...

2. Europa

2.00. La crisi dell'Europa

A quattro anni dalla caduta del muro ... molte delle nostre speranze si sono trasformate in incubi. Da Vukovar ad Osijek, da Bosanski Novi a Sarejevo, dal Sangiaccato al Kossovo, dal Nagorno Karabak all'Ossetia, dalla Somalia al Togo, dall'Irak all'Iran, ovunque imperano guerre o repressioni feroci.

Parallelamente, per molti, la speranza e gli ideali federalisti europei, l'obiettivo degli Stati Uniti Democratici d'Europa, si sono frantumati, dissolti nel nulla. Alla convinzione che il federalismo possa essere una soluzione praticabile per l'Europa e per molte altre aree del mondo, è subentrata la disperazione o, quanto meno, la delusione, la rassegnazione.

Non siamo di questo parere. Anzi, siamo di un parere esattamente contrario. Siamo più che mai convinti che il federalismo costituisca una chiave fondamentale per un futuro di pace e di prosperità, a cominciare dal continente europeo, e non solo per quello.

Con ciò non vogliamo dire che si possa far finta di niente, far come se non fosse successo niente, come se lo spazio dell'impegno federalista non fosse stato moltiplicato per tre, con la caduta del comunismo in Europa centrale ed orientale, come se la via economicistica e burocratica alla costruzione europea di questi ultimi anni non avesse avuto conseguenze terribili sia sull'edificio comunitario, sia sulle opinioni pubbliche europee.

Tutt'altro. Gli effetti di questa contaminazione economicistica, burocratica, verticistica, quindi antifederalista e antidemocratica, sono enormi, profondi. Li dobbiamo, li dovremo affrontare. Radicalmente. Rialzando le nostre bandiere, le bandiere del federalismo europeo, della nonviolenza. Alzando il tiro ... ammesso che potremo ancora permettercelo.

2.01. La crisi della Comunità europea

Che la C.E. stia attraversando una gravissima crisi non è più un mistero per nessuno. Più incerta è invece la consapevolezza della natura di questa crisi. Un certo atteggiamento, fatto di mistificazione e di disinformazione, ad opera dei governi e delle burocrazie nazionali da una parte, e dalla stragrande maggioranza dei mass-media dall'altra, rende oggi molto difficile, se non impossibile, all'opinione pubblica della C.E. e degli altri paesi europei capire la natura e l'ampiezza di questa crisi.

Per di più un succedersi di avvenimenti, dall'unificazione tedesca alla crisi monetaria che ha coinvolto Inghilterra, Spagna e Italia, dal "no" al referendum danese al piccolo "si" al referendum francese per il Trattato di Maastricht, dalla recessione mondiale alla "riforma" dell'agricoltura europea e alla dimissione al GATT, dagli enormi, dolorosi, e spesso sottovalutati, processi di mutazione dei paesi ex-comunisti alla tremenda guerra di aggressione del regime serbo nell'ex-Yugoslavia e la non meno tremenda dimissione dell'Europa, dal rinascere, ovunque nel mondo, delle questioni nazionali al moltiplicarsi, in Occidente, degli atteggiamenti di intolleranza nei confronti dello straniero, del diverso, hanno reso ulteriormente difficile la comprensione della crisi che stava - logicamente però - avvenendo nel processo di costruzione dell'Europa.

Una crisi che non è, quindi, congiunturale, ma che è iscritta nel modello stesso alla base dell'insieme del processo di costruzione "comunitaria", ovvero quello fondato sul postulato del primato dell'economia sulla politica, sul dogma che voleva - e vuole tuttora - che la convergenza delle economie dei paesi occidentali avrebbe portato, quasi naturalmente all'unificazione politica del continente.

Quarant'anni di lavoro in questa direzione non sono stati privi di successi rispetto ad uno degli obiettivi iniziali, quello della convergenza delle varie economie. Oggi, però, vengono alla luce, "grazie" anche ai formidabili fattori esterni di cui abbiamo parlato, i limiti di una tale costruzione. La sua incapacità - appunto - di affrontare con serietà e tempestività le nuove problematiche - o addirittura catastrofi, perfino sullo stesso continente europeo.

Dalla guerra del Golfo a quella nell'ex-Yugoslavia, dalla Somalia al Caucaso, l'Europa si trova, nel migliore dei casi, al rimorchio degli Stati Uniti d'America.

Parallelamente, la prassi - ormai consolidata - da parte delle classi dirigenti dei vari Paesi della Comunità europea di nascondersi dietro direttive o pseudo direttive di Bruxelles per far passare misure di razionalizzazione o di ristrutturazione all'interno del proprio paese, ha progressivamente indotto i cittadini, in particolare quelli di categorie più a rischio come gli agricoltori o i lavoratori dei settori "vecchi" dell'industria a vedere nella Commissione europea il responsabile "de tous les maux".

Da parte loro, le istanze esecutive di Bruxelles, non affatto insensibili al canto delle sirene "tecnocratiche" e "burocratiche" hanno capito con molto - troppo - ritardo i richiami provenienti dal Parlamento europeo e, soprattutto da alcuni gruppi federalisti, non ultimo il Partito radicale, per un drastico cambiamento di strategia, per l'attuazione, quindi, di una riforma che dia alla costruzione comunitaria solide basi democratiche, incluso una architettura chiara, intellegibile a tutti i cittadini europei.

In particolare si proponeva di cominciare a riportare l'edificio comunitario alle regole della democrazia e del federalismo classico, ovvero alla divisione dei poteri, alla trasparenza ed al controllo di questi, nonché al ruolo imprescindibile del cittadino.

Il ritardo della Commissione, la pressione del tutto insufficiente del Parlamento europeo, la mancanza o l'inadeguatezza di partiti e movimenti federalisti europei hanno quindi lasciato spazio libero ai Governi nazionali, ovvero al Consiglio europeo ed alle sue consuete pratiche fondate sui "do ut des" nazionali, lontani se non estranei - per natura oltreché per scelta ed interesse di potere - alla questione della democratizzazione della costruzione europea, a quella del suo deficit democratico.

2.02. Riforma o Rifondazione

Se, come crediamo, questa è la situazione attuale della costruzione europea, non è più rimandabile la scelta di fondo quanto al tipo di Europa che si vuole. Due ci sembrano, anche se qui schematicamente riassunte, le strategie possibili per rilanciare la battaglia per una Europa unita.

La prima, di segno "europeista", punta alla massimalizzazione degli accordi di Maastricht. Ovvero intende lavorare nel quadro esistente, puntando su alcuni appuntamenti istituzionali importanti, ed in particolare su quello delle prossime elezioni europee (giugno 1994) e su quello della prossima Conferenza intergovernativa prevista per il 1996 (dicembre) per migliorare la trasparenza e la democraticità delle istituzioni europee, e più in generale, del suo funzionamento.

La seconda, di segno "federalista europeo", punta (o dovrebbe puntare) ad un chiarimento quasi risolutivo quanto alla natura della costruzione europea. Ovvero tra una cooperazione di segno sostanzialmente intergovernativa, anche se approfondita e istituzionalizzata, ed una vera e propria federazione democratica di Stati europei, sceglie risolutamente la seconda alternativa.

A partire da questa scelta si tratta quindi di rovesciare la logica che è stata alla base, e poi le fondamenta, del processo di integrazione europea per quasi quarant'anni, cioè che l'unione si sarebbe avverata al termine di un processo di progressiva integrazione economica.

Come abbiamo già accennato, le attuali crisi economiche e finanziarie - e non solo esse - dimostrano quanto sia fragile una tale visione. Essa rischia infatti oggi di vedere un lungo e paziente processo, portato avanti in tempi di relativa prosperità, essere definitivamente travolto dalle diverse crisi in atto.

La nuova logica sarebbe quindi incentrata sulla dimensione politica dello "stare insieme", della federazione. Non si tratta affatto di negare che le divergenze tra i vari stati dovrebbero essere affrontate e superate ma, al contrario di quanto previsto dall'attuale logica economicistica nella quale il superamento delle divergenze economiche e finanziarie è condizione di partecipazione ai meccanismi comuni, nella logica politica è l'unione che definisce i criteri ed i tempi di convergenza, investendo anche mezzi e risorse affinché tale paese o regione che non adempie a certi criteri fissati dalle istituzioni della Federazione sia in grado di farlo.

2.03. Approfondimento o Allargamento

Se questo diventa il criterio, è ovvio che cambia radicalmente l'approccio alla questione dell'allargamento e che, in buona parte, viene anche meno il dibattito sulla questione "approfondimento o allargamento".

L'approccio federalista consentirebbe probabilmente una adesione immediata di molti paesi del Centro ed Est europeo e, anche se con qualche riserva in materia di rispetto dei diritti umani di paesi come la Turchia o Israele; impedirebbe invece a paesi come la Gran-Bretagna, la Danimarca, e, probabilmente, anche la Grecia, di imporre unilateralmente la loro visione "cooperativistica", intergovernativa dell'Europa.

E' ovvio che per questi primi paesi - del centro Europa - numerose, ed a volte assai lunghe, sarebbero le procedure di transizione in campo economico e finanziario. Questo anche al fine di evitare quanto più possibile gli effetti, spesso devastanti, di un approccio "tedesco" all'unificazione. Ma del tutto diverso sarebbe la capacità di questi paesi di partecipare, a pieno titolo e sin dall'inizio, alle politiche non strettamente di dominio economico, giust'appunto quelle la cui mancanza è oggi così crudelmente sentita dai cittadini europei.

Quanto a quei paesi oggi membri della Comunità europea, ma che non ne condividono le finalità federali, la soluzione sta - forse - nel garantirgli di poter continuare ad usufruire di una istanza di tipo "cooperativistico" o "intergovernativo", quale si configura oggi il grande mercato, chiamato dopo Maastricht, Unione Europea.

Una tale scelta di fondo costringerebbe infine alcuni paesi - la Francia in primo luogo - ad uscire dall'ambiguità, facendo una scelta di campo chiara a favore dell'una o dell'altra ipotesi.

La questione dell'allargamento ai paesi dell'EFTA, a meno che non si parli dell'allargamento dell'Europa di Maastricht, non assume valenza politica di particolare rilevanza nell'ipotesi che ci interessa, ovvero quella della creazione di un nucleo di stati che danno vita a veri e propri Stati Uniti d'Europa.

Nella prospettiva europeista, però, l'allargamento ai paesi dell'EFTA, per via delle regole esistenti in materia di nuove adesioni ed in particolare per via delle competenze di co-decisione del Parlamento europeo in materia, potrebbe costituire una occasione, particolarmente in relazione al forte interesse britannico a favore dell'allargamento, per introdurre, in cambio dello stesso, alcune riforme di segno democratico delle istituzioni dell'Unione Europea o - anche se questa può apparire fantapolitica - in cambio dell'attribuzione di poteri costituenti al P.E.

Rimane però la questione, al di là delle valutazioni che si possono fare sulle reali capacità del Parlamento europeo, di far valere il suo limitato, ma in questo caso, reale potere, di capire se esistono ancora all'interno delle strutture dell'Unione Europea gli spazi per ottenere in tempi politici le riforme indispensabili affinché l'Europa possa affrontare in modo non velleitario le tragedie in corso e quelle prevedibili che affliggono il continente europeo e il mondo, nonché raccogliere le sfide ambientali, economiche e sociali all'ordine del giorno.

L'utilità in termini di "real-politik" delle istituzioni della C.E. oggi (dell'Unione Europea domani) è tale e così interiorizzata dalle varie classi politiche europee che ci sembra difficile che esse possano rinunciarci senza che vi sia una fortissima spinta esterna: dall'opinione pubblica e dalle istanze della società civile. Dalla politica agricola alla guerra nell'ex-Yugoslavia infatti, dal problema della disoccupazione alla politica nei confronti del Terzo Mondo, l'Europa di Bruxelles è diventata l'alibi per gli stati membri della C.E. dietro il quale nascondere l'evidente assenza di volontà politica.

2.04. Il Partito della Costituente europea

Se, come crediamo, rimane pochissimo spazio per "giocare" all'interno delle istituzioni europee esistenti, nell'intento di ottenere una loro sostanziale riforma in senso democratico e federale, dobbiamo valutare se esistano le condizioni per concepire e, poi, portare avanti dall'esterno delle istituzioni della C.E. una battaglia federalista ex-novo per la creazione da parte di alcuni stati europei dei veri e propri Stati Uniti d'Europa.

Prima di tutto una ipotesi del genere dovrebbe fare i conti con le notevoli ripercussioni dei referendum danese e francese sull'opinione pubblica dell'Europa dell'Ovest, anche quella dei paesi tradizionalmente considerati come più "federalisti europei", ripercussioni per lo più negative che si sono congiunte con le paure di un rovesciamento sull'ovest delle nuove miserie nate a Est dopo la caduta della cortina di ferro, travolgendo il "consensus mou" sulla questione Europa preesistente.

Paure e inquietudini che sono state spesso catalizzate dai nuovi movimenti nazionalistici, grazie anche - e forse soprattutto - all'assenza di risposte credibili e convincenti da parte delle istituzioni europee e delle varie classi dirigenti. Paure e inquietudini che insieme alla percezione del deficit democratico delle istituzioni europee hanno contribuito al rigetto, esplicito o meno, da parte di una parte consistente dell'opinione pubblica del Trattato di Maastricht.

Non bisogna sottovalutare l'aspetto estemporaneo, congiunturale, di questi atteggiamenti e, quindi, la possibilità di un loro eventuale superamento in tempi relativamente brevi, una volta che le riforme contenute nel Trattato di Maastricht - molto modeste come sappiamo - saranno state vissute ed "integrate" direttamente dalla gente. Rimane però il dubbio che la crisi venuta alla luce con i referendum e, soprattutto, con l'emergere ad un livello non più marginale di fenomeni razzisti e di intolleranza, non sia paragonabile ad altre crisi precedentemente vissute; essa invece esprime, insieme ad un malessere sociale e politico più profondo, un'incapacità ormai palese da parte delle classi dirigenti di mobilitare, di federare, di dare speranza oppure solamente di illudere l'opinione pubblica con un progetto "europeo" così riduttivo, il cui carattere non-democratico prima ancora che burocratico e tecnocratico, è ormai evidente a tutti.

Ma più ancora che quella del "contesto politico generale", forse l'unica vera questione che si pone rispetto ad un tale impegno è quella di sapere se saremo in grado, come Partito Radicale, di portarlo avanti, e quindi, ancora prima, se saremo in grado di trovare le risorse umane e finanziarie per sviluppare il partito transnazionale e transpartitico, rafforzandolo nei paesi dell'Europa Centrale ed Orientale, e - soprattutto - gettandone le basi in quegli stati dell'Europa Occidentale dove esistono i presupposti di una volontà popolare a favore della creazione di una vera e propria federazione europea.

Forse però, anche se una tale ipotesi avrebbe o avrà bisogno di molti passaggi intermedi, è proprio a partire da un patto di adesione al PR incentrato su un tale rilancio della costruzione europea, senza per questo accantonare battaglie come quelle per l'esperanto, l'abolizione della pena di morte, l'antiproibizionismo sulle droghe ma, al contrario, integrandole in un certo modo in questo progetto, che potrebbe risiedere una delle chiavi per un rilancio della presenza radicale nell'Europa Occidentale, oltreché, ovviamente, per un suo rafforzamento nei paesi dell'Europa centrale ed orientale.

2.05. L'Anti-Maastricht

In tale senso, andrebbe valutata l'ipotesi della redazione e della diffusione su larga scala, cominciando con tutti i membri dei Parlamenti d'Europa, di una vera e propria COSTITUZIONE dei futuri Stati Uniti d'Europa: un vero e proprio Anti-Maastricht, manuale per una Nuova Europa (un "mille lire"). Un testo chiaro, limpido, accessibile a tutti i cittadini europei, da contrapporre nello stile, come nel contenuto, al libretto sul Trattato di Maastricht diffuso massicciamente in occasione dei referendum danese e francese. Un testo-Manifesto che possa servire da traccia per l'impegno federalista del Partito Radicale nei prossimi 5 anni ma anche come punto di aggancio, come "base contrattuale" per l'adesione al PR da parte dei parlamentari e dei cittadini d'Europa, dell'Ovest in particolare.

Questo progetto di costituzione dovrebbe definire:

- i diritti e doveri fondamentali dei cittadini degli Stati Uniti d'Europa (a cominciare dal diritto alla vita, dal diritto alla lingua, ...);

- l'architettura istituzionale (e quindi anche il sistema elettorale unificato e l'istituto europeo referendario);

- le competenze o i terreni di azione (e quindi il principio di sussidarietà) degli Stati Uniti d'Europa, insieme a quelli di competenza degli Stati e delle regioni. Queste competenze dovrebbero comprendere comunque:

- la politica estera (con il diritto-dovere di ingerenza);

- la politica di sicurezza e di difesa;

- la politica macro-economica;

- una politica fiscale;

- la politica macro-ambientale;

- la politica energetica;

- la politica monetaria (a breve termine per alcuni stati, a medio termine - per le ragioni di cui sopra - per altri stati);

- le condizioni di adesione all'unione federale e di ritiro dalla stessa;

L'aspetto istituzionale, anche se spesso di interesse relativo da parte dell'opinione pubblica, è, e rimane, fondamentale se vogliamo evitare di ricadere negli errori dell'esperienza comunitaria.

In particolare una separazione netta tra legislativo ed esecutivo ci sembra fondamentale, così come lo è una partecipazione degli Stati membri al momento legislativo attraverso la delegazione di una loro rappresentanza diretta, elettiva (delegazione che potrebbe coincidere con le commissioni "Affari europei" dei vari parlamenti nazionali), insieme ad una rappresentanza (paritetica ?) delle loro regioni e/o comunità linguistiche in un Senato europeo. Uno schema che si distanzia molto, logicamente, da quello dell'attuale Comunità Europea dove il Consiglio Europeo che riunisce Capi di Stato e di Governo, non solo mescola le funzioni legislativa ed esecutiva, ma accentra, se non addirittura monopolizza, ogni tipo di potere, a dispetto del principio della divisione, fondamentale in democrazia.

Prefigurando questi Stati Uniti Democratici d'Europa, si può ritenere che lo schema di repubblica parlamentare sia quello più consono all'esigenza di rispettare le diversità ed a garantire l'equilibrio tra i vari poteri, e tra i loro vari livelli (federale, nazionale e regionale).

In questo quadro federale, per ben marcare la profonda esigenza di divisione dei poteri e dei livelli di potere, andrebbe finanche tolta ai capi di Stato e di governo la presidenza della federazione. Invece, con funzioni del tipo di quelle vigenti nelle repubbliche parlamentari, un presidente potrebbe venire eletto dalle due camere europee (Parlamento e Senato).

Infine, questa impostazione, di segno chiaramente federalista non dovrebbe - assolutamente - essere contrapposta a quella che abbiamo chiamato europeista ma bensì essere "complementare" ad essa. Gli Stati Uniti o la federazione dovrebbero svilupparsi PARALLELAMENTE all'UNIONE EUROPEA (oggi ancora CE) risultante del Trattato di Maastricht.

Ad essi aderirebbero quegli Stati e solo quelli, che decidono di aderire IN TOTO alla Costituzione suddetta.

2.06. Il Partito degli Stati Uniti d'Europa

Come abbiamo cercato di chiarire, l'Europa di cui stiamo parlando viene definita dai contenuti e non dalla geografia. E quindi, logicamente, prendiamo le distanze, dopo averlo fatto con la Comunità Europea, con le varie ipotesi di "Unione Paneuropea". Non nel senso che intendiamo escludere "per realismo" da questo processo di federazione europea alcuni paesi piuttosto che alcuni altri, ma perché, in questa nuova logica che vorremmo proporre, l'aspetto essenziale sta nella natura del contratto che verrebbe stipulato tra i vari stati aderenti. Un discorso quindi di qualità e non di quantità che potrebbe coinvolgere, nella sua fase iniziale, solo pochi paesi (dell'Ovest e/o dell'Est), per poi coinvolgerne altri, ma su delle basi sicure, definite: federali e democratiche.

Se questa logica dovesse essere nostra, rimane da capire come renderla operativa, o, in altri termini, come sviluppare lo strumento "Partito Radicale" perché possa diventare a tutti gli effetti battaglia politica.

In questo senso, e senza dimenticare i pesanti limiti per ogni riflessione operativa costituiti dalle ipoteche finanziarie che gravano sul Partito Radicale, ci sembra indispensabile valutare la possibilità di riaprire alcuni fronti radicali nell'Europa Occidentale.

Prima di tutto andrebbe riattivato il potenziale rappresentato dalle strutture di cui disponiamo (fino alle elezioni del 1994) al Parlamento europeo di Bruxelles. Contemporaneamente, restando nell'ottica che è stata quella perseguita in questi ultimi anni nell'Europa centrale ed orientale e che ci ha visto "privilegiare" il lato parlamentare nel nostro impegno per lo sviluppo del PR, andrebbe valutata l'ipotesi di costituire presso alcuni paesi dell'Europa "comunitaria" delle strutture operative minime del PR, in grado di diventare basi di appoggio e di "relais" per lo sviluppo di una presenza radicale nei vari parlamenti.

Oltre al criterio "finanziario", dal quale non possiamo prescindere, va preso anche in considerazione, ovviamente, il "contesto politico", ovvero la possibilità di riscontrare interesse per una tale proposta nella classe politica oltreché nell'opinione pubblica. Se questa è l'ottica, non potremmo prescindere dalla Germania, il paese che, anche se non con la convinzione necessaria, ha più insistito sulla necessità di una riforma in senso democratico dell'edificio comunitario. Oltre a questo paese, e con le dovute riserve, potrebbero essere presi in considerazione Spagna, Francia e Portogallo insieme ai paesi del BENELUX, dove la nostra presenza può essere ripotenziata a partire dal Parlamento europeo.

Parallelamente, ci sarebbe da ragionare su una rivisitazione dell'idea, del Partito Radicale all'origine, degli Stati Generali d'Europa, un'idea poi ripresa dal P.E. e dai parlamenti nazionali della C.E. e attuata, anche se in modo del tutto insoddisfacente, attraverso la Conferenza dei Parlamenti della C.E. Un'idea, questa, che dipende anch'essa dallo sviluppo delle presenze radicali nei parlamenti, dell'Occidente in particolare. Un corpo "parlamentare" che, se venisse a radicarsi in modo non più marginale ad ovest ed a consolidarsi ed arricchirsi ad est, potrebbe diventare centrale nella definizione e nell'attuazione di una ipotesi di "rifondazione" europea di segno federale e democratico. Questo "nucleo", insieme a costituzionalisti di valore, potrebbe, per esempio, lavorare alla definizione di una prima bozza di "costituzione" degli Stati Uniti d'Europa, a partire dai progetti esistenti, cominciando da quello di Altiero Spinelli.

2.07. Oltre le crisi

L'Europa potrà quindi rinascere se sarà capace di affrontare e di gestire alcune crisi maggiori in atto oggi.

Schematicamente queste ci sembrano oggi le crisi da affrontare:

1. la recessione mondiale, e quindi le sue implicazioni economiche e sociali nell'Europa occidentale stessa;

2. la crisi del "post-comunismo" con le sue gigantesche implicazioni interne, in termini economici e sociali ma anche politici, e le sue implicazioni esterne come la pressione sulle frontiere e la comparsa di una concorrenza per alcuni settori economici dell'Europa occidentale;

3. il persistente mancato sviluppo di una buona parte del Terzo Mondo oppure uno sviluppo fondato sul commercio di sostanze proibite in alcuni paesi (droga in primo luogo);

4. lo sviluppo, in particolare in Europa centrale ed orientale, di ideologie nazionaliste o nazionalcomuniste e, in alcuni casi, la loro degenerazione in veri e propri conflitti;

5. il continuo degrado dell'ambiente a livello mondiale;

Si tratterebbe quindi di individuare, a partire da questa analisi generale ed accanto all'impegno sul fronte politico-istituzionale per la nascita degli Stati Uniti d'Europa, alcuni settori di intervento che possano prefigurare una inversione di rotta dell'Europa, ovvero che possano segnare il passaggio da una Europa che subisce ad una Europa che affronta.

Cercheremo di evidenziare alcune proposte politiche tenendo presenti due parametri: da una parte un parametro simbolico, ovvero la capacità della riforma proposta, se dovesse essere acquisita, di provocare altre riforme; d'altra parte un parametro di trasversalità, ovvero la possibilità che la riforma proposta consenta di portare congiuntamente elementi di risposta a diverse delle crisi sopra elencate.

2.08. Il partito del Piano Marshall per l'Est-europeo

In un mondo caratterizzato oggi da enormi over-capacities di produzione solo una politica fondata sulla "spesa" potrebbe costituire una via d'uscita. Una politica della spesa che si potrebbe però concretizzare solo marginalmente in una crescita del consumo delle famiglie ed in una crescita degli investimenti delle imprese visti gli alti tassi d'interesse (per i quali è previsto un ulteriore aumento). In un tale quadro economico complessivo rimane quindi un unico spazio di manovra: le spese per infrastruttura, formazione e ricerca.

La liberalizzazione degli interscambi, la deregolamentazione insieme alla rivoluzione post-industriale - caratterizzata dall'introduzione dell'informatica, dei nuovi mezzi di comunicazione che cancellano le distanze ed il tempo - hanno provocato una vera e propria mondializzazione dell'economia. Questo dato di fatto rende indispensabile un approccio concertato e quanto più mondiale possibile al fine di affrontare l'attuale crisi e per attuare qualsiasi politica di rilancio dell'economia.

Se a questo criterio economico aggiungiamo due criteri politici fondamentali, quello di promuovere, non solo a livello europeo, l'emergere di vere e proprie federazioni democratiche di Stati, e quello dell'ambiente, abbiamo il quadro generale entro il quale definire alcuni obiettivi politici pertinenti con la gravità delle crisi.

Un piano Marshall per l'Est-europeo potrebbe essere un'occasione oltreché uno strumento in questo senso, se accompagnato però da alcune riforme concrete all'interno della Comunità europea, anche per quanto riguarda la Politica Agricola Comune.

Come andrebbe gestito un tale piano ?

La sua realizzazione, di natura politica ancora prima che economica, necessiterebbe di una gestione unica, al livello europeo. In assenza di una vera e propria federazione europea, e quindi in assenza di un vero e proprio governo europeo, sarebbe concepibile affidarne la direzione ad una struttura come l'attuale Commissione europea ?

Quale intervento ?

Un intervento mirato alla realizzazione di nuovi sistemi di comunicazione nei settori a basso consumo di energia, più rispettosi dell'ambiente e ad alto valore tecnologico; un piano incentrato sull'ammodernamento dei networks telefonici, sulla creazione di networks telematici, sul rinnovamento ed il completamento delle reti ferroviarie, con l'introduzione di collegamenti ad alta velocità tra le maggiori città dell'Ovest e dell'Est e tra quelle dell'Est (contribuendo quindi ad evitare una riproposizione nei paesi ex-comunisti del tragico "tutto macchina" dello sviluppo occidentale dal dopo guerra ad oggi); tutto ciò fornirebbe anche alle imprese specializzate nelle tecnologie avanzate dell'Europa Occidentale una formidabile occasione di rilancio e di ulteriore sviluppo.

Parallelamente andrebbe operata una apertura dei mercati dell'Europa Occidentale ai prodotti dell'Est. Una misura questa che dovrebbe essere accompagnata da una nuova riforma della PAC, per molti versi opposta a quella appena realizzata. Il criterio vigente di attribuzione di aiuti comunitari per supplire al congelamento di terre, calcolato in funzione del livello di produzione antecedente alla riforma (una misura che privilegia enormemente le zone agricole più ricche e, all'interno di esse, ancora di più i grandi produttori), andrebbe sostituito con un criterio di remunerazione per il ruolo ambientale, ovvero per le attività a favore della difesa dell'ambiente svolte dagli agricoltori. Una tale impostazione consentirebbe inoltre di fermare il processo di desertificazione delle campagne dell'Europa Occidentale e, conseguentemente, di bloccare una ulteriore concentrazione di popolazioni nelle megalopoli.

Una proposta che meglio si concilierebbe con una deregolamentazione dell'agricoltura comunitaria, in primo luogo perché restituirebbe al mercato la sua funzione regolatrice in materia di prezzi. Altri effetti derivanti dal ristabilimento delle regole di mercato sarebbero altrettanto importanti. Così il ristabilimento delle regole di mercato, con il conseguente equilibrio non fittizio dell'equazione domanda-offerta, consentirebbe ai produttori di riorientare le loro produzioni verso alcuni settori oggi distrutti dagli accordi di importazione ma anche verso produzioni di qualità, meno utilizzatrici di energia, di fertilizzanti e di fitofarmaci. Last, but not least, una tale politica toglierebbe agli americani molti dei loro attuali argomenti nell'Uruguay Round, consentendo agli europei di uscire dalla loro attuale psicosi della resa.

2.09. Il partito della Transbalcanica

Un tale piano Marshall non sarebbe soltanto una iniziativa "macro-politica", ovvero una iniziativa di stabilizzazione politica risultante dallo sviluppo economico conseguente. In effetti la realizzazione di infrastrutture di comunicazione può acquisire un forte valore politico favorendo, per esempio, la crescita del tasso di interdipendenza tra paesi vicini, e quindi di capacità di dialogo. Può anche impedire l'utilizzazione di posizioni di rendita da parte di alcuni paesi nei confronti di altri. In questo senso la costruzione di un'asse di comunicazione ferroviaria Durazzo-Tirana-Skopje-Sofia (con possibile estensione verso Bucarest, Chisinau, Kiev ed Istanbul), oltre a favorire lo sviluppo di un'intera regione ed i suoi collegamenti con altre zone d'Europa (Sud-Italia in testa), toglierebbe all'asse di comunicazione Nord-Sud (Atene-Tessaloniki-Skopje-Belgrado) il predominio nei collegamenti balcanici e vanificherebbe l'attuale potere di ricatto della Serbia e della Grecia nei confronti della Macedonia.

Oltre a questa "trasversale balcanica", molti sono gli altri collegamenti da sviluppare. A titolo solo indicativo, possiamo menzionare i collegamenti Ovest-Est come quelli tra Berlino, Varsavia e Mosca, tra Parigi, Vienna, Budapest e Kiev, tra Monaco, Praga, Bratislava e Budapest, e quelli Est-Est come quelli tra Kiev, Chisinau e Odessa e tra Bucarest, Budapest e Varsavia.

Questo piano sarebbe di un ordine di grandezza del tutto diverso rispetto ai progetti oggi studiati dalla C.E. Un piano concreto, teso a facilitare la transizione all'economia di mercato dei paesi ex-comunisti, a favorire la progressiva compatibilità di queste economie con quelle occidentali e a rendere possibile, in tempi politici, una loro piena integrazione in una economia europea integrata.

2.10. Europa: la piaga della partitocrazia

Da Varsavia a Roma, da Parigi a Bucarest, da Praga a Berlino, da Bruxelles a Budapest, da Bratislava a Madrid, dovunque, o quasi, sul continente europeo, dilaga la piaga degli effetti di una concezione della democrazia fondata sulla rappresentanza. Ad Est, dove questo sistema è stato recentemente reintrodotto, i suoi effetti disastrosi sono ancora "limitati" alla capacità dell'esecutivo di governare efficacemente, alla capacità del Parlamento di legiferare e di controllare effettivamente.

Ad Occidente, dove IL sistema vige da "sempre", ci sono, oltre a queste conseguenze disastrose, specialmente in tempi così difficili e spesso drammatici come quelli che viviamo oggi, quelle ormai evidenti a tutti e dovute al dilagare della corruzione eretta a sistema. Da "Tangentopoli" in Italia, che coinvolge quasi tutti i partiti (DC, PSI, PDS-ex-PCI, PRI, PSDI, PLI, ...), ai molteplici "affari" regolarmente insabbiati che hanno contrassegnato la vita politica del Belgio da vent'anni a questa parte; dagli scandali sul finanziamento dei partiti in Francia alle varie "Affaires" che hanno coinvolto personaggi politici di primissimo piano, non ultima quella sul sangue contaminato; dalle "dimissioni ministeriali" che hanno intaccato i vari governi della Germania al misero tramonto del cosiddetto "modernismo" socialista spagnolo, travolto anche esso dagli usi ed abusi di potere a fini personali o di partito; quasi tutti gli stati del continente europeo sono stati caratterizzati dalla corruzione e, anche se in mi

sura variabile a seconda dei paesi, dalla ingovernabilità e dalla mancanza di reali condizioni di alternanza al governo.

2.11. Il Partito della governabilità anglosassone

Per il Partito Radicale la diagnosi non è affatto nuova. Da più di dieci anni, in Italia, in altri paesi occidentali successivamente, da prima del crollo del muro di Berlino nei paesi dell'Europa Centrale ed Orientale, stiamo cercando di contrapporre al mito del proporzionalismo e della cosiddetta rappresentanza, il modello della democrazia anglosassone, del governo che governa, dell'opposizione che controlla e si prepara a governare. In Italia, dopo anni di censura, la proposta radicale è oggi fatta propria da settori consistenti dei principali partiti. All'Est, e malgrado il convincimento dichiarato, prima ancora della caduta del muro, di numerose personalità dell'opposizione a favore della democrazia anglosassone, quasi nessuna delle nuove democrazie ha scelto il sistema elettorale uninominale all'inglese. Col risultato che sappiamo: 18 partiti in Polonia, 11 partiti in Romania, 7 partiti in Ungheria, 9 partiti in Boemia-Moravia, 6 partiti in Slovacchia, 9 in Macedonia, ecc. Altri paesi, come la Bulgaria,

che avevano optato per un sistema elettorale prevalentemente maggioritario, l'hanno addirittura modificato successivamente. Una sola eccezione: l'Albania, dove vige un sistema maggioritario, uninominale secco all'inglese, con una correzione proporzionale per l'attribuzione di un venti per cento dei seggi.

In questi paesi, come da tempo in quelli occidentali, possiamo quindi oggi assistere alle stesse trattazioni a tempo indeterminato per la formazione dei governi, alle stesse crisi degli esecutivi, agli stessi mercanteggiamenti, alle prime compromissioni, alle lotte sfrenate per il controllo dell'amministrazione pubblica, dei mass-media, alcune volte in modo caricaturale, in puro stile "continentale", come in Ungheria.

Di fronte ad una tale situazione, la proposta anglosassone del Partito Radicale si propone e si ripropone con grande forza a tutti i paesi del continente europeo, e non solo europeo. Anche molti paesi dell'Africa, in corso di democratizzazione dopo molti anni di partito unico, si confronteranno o si sono già confrontati con questo aspetto fondamentale della democrazia.

Ma la scelta anglosassone non riguarda soltanto il momento del "buon" e dell'"effettivo" governo. Riguarda anche una questione cruciale del nostro tempo: quella delle nazionalità, delle minoranze e delle maggioranze "nazionali", della loro convivenza. Anche in questo contesto, questa scelta può consentire o, comunque, favorire la contrapposizione su concrete proposte di governo, invece di incitare alle divisioni fondate sull'appartenenza "etnica", "comunitaria", tese alla difesa di interessi particolari. Se tale scelta può apparire sufficiente anche per quanto riguarda la effettiva possibilità che vengano presi in considerazione gli interessi delle minoranze, nel senso che i consensi elettorali della o delle minoranze andrebbero naturalmente al partito che più si impegna a difenderli (come avviene in qualche modo negli Stati Uniti d'America), potrebbe essere opportuno però coniugarlo con il federalismo. Un sistema federale (o regionalizzato) consentirebbe in effetti, oltre ad avvicinare il potere ai cittadin

i (qualsiasi sia la loro "etnia" di appartenenza), di dare alle minoranze la possibilità concreta di autogovernarsi nei settori nei quali si esprime la loro "diversità", ovvero essenzialmente in quelli dell'educazione, della cultura e della comunicazione.

La questione anglosassone riguarda infine un altro tema di nostro interesse, quello europeo. All'interno del lunghissimo capitolo sul deficit democratico della costruzione europea giace anche, vittima della cultura continentale dominante, la questione della riforma e dell'unificazione della procedura per l'elezione del Parlamento europeo. In una prospettiva europeista, di riforma quindi dell'esistente, una nuova procedura elettorale, unificata e anglosassone, potrebbe costituire un elemento prezioso per un riequilibrio dei poteri della C.E. a favore del Parlamento europeo, finora unica istituzione a legittimità democratica. In effetti una tale riforma rafforzerebbe il rapporto tra eletti ed elettori, l'indipendenza dei primi rispetto ai partiti di appartenenza, tuttora partiti di carattere nazionale, favorendo anche la loro autonomia nei confronti degli esecutivi dei loro paesi di origine; conseguentemente ne verrebbe rafforzato il loro "peso" nei confronti del Consiglio europeo e della Commissione europea.

Nella prospettiva, aperta con il Trattato di Maastricht, di un maggiore coinvolgimento delle regioni, ci si potrebbe spingere più oltre, cercando - opera difficile - di fare coincidere - laddove è possibile - questi collegi uninominali con le regioni esistenti nei vari paesi membri. In ogni caso l'elezione "all'anglosassone" favorirebbe l'emergere di solidarietà altre rispetto a quelle nazionali o, in misura minore, a quelle "euro-partitiche": risulterebbero evidenziate, per esempio, le affinità tra le regioni frontaliere.

Non è facile individuare su questo fronte il "Che fare", a maggiore ragione a livello transnazionale. Se, come crediamo e abbiamo tentato brevemente di dimostrare, il dato partitocratico è un elemento comune oltreché rilevante nel degrado generale del continente europeo (e non solo di quello), non per questo risulta immediatamente praticabile una azione comune su questo fronte. I livelli di degenerazione, così come il grado di consapevolezza rispetto alle ragioni di questo degrado, sono diversissimi. La questione - aperta - è quella di capire se siamo arrivati ad un grado sufficiente di maturazione e di convinzione su questo tema, in primo luogo tra i parlamentari iscritti, con l'obiettivo di darci alcuni strumenti transnazionali di lavoro e di impegno, come, ad esempio, una Lega transnazionale per la promozione del sistema anglosassone.

2.12. Per la nascita di partiti europei

Il Partito Radicale, va ribadito, non è un partito europeo. Non per questo non può e non deve, crediamo, impegnarsi laddove è possibile far crescere le interdipendenze, ovvero quei processi di federazione regionale o continentale. Un processo che riguarda anche l'emergere in questi processi federativi di partiti federali.

Una necessità, questa, che viene affermata per la prima volta nel Trattato di Maastricht. Ma che rischia, con ogni probabilità, di essere interpretata - e poi usata - dalle classi politiche dirigenti europei, "coalizzate" (ed assolutamente non federate) negli pseudo-partiti oggi esistenti, come una ulteriore fonte di finanziamento pubblico. Il pericolo non è da poco. Vanno quindi prese da subito delle iniziative affinché venga bloccato sul nascere ogni tentativo di riproposizione a livello europeo di partito parastatale. Vanno invece individuate le possibilità di offrire alcuni servizi a quei partiti che si propongono di agire nell'insieme della C.E.

2.13. La questione delle nazionalità, delle minoranze

Già nel 1979, nel Parlamento europeo, nel Parlamento italiano, negli incontri tra delegazioni del PE e del parlamento yugoslavo, nelle piazze, nei loro giornali, i radicali in generale, Marco Pannella in particolare, ritenevano che "le questioni del Kossovo, del Paese Basco, dell'Irlanda del Nord, ... non potevano essere affrontate e risolte a Belgrado, a Madrid o a Londra, ma lo potevano essere, invece, a Strasburgo o a Bruxelles". Una analisi, purtroppo, drammaticamente confermata dalla storia recente ed attuale. Ma anche una proposta, spesso derisa, sempre bollata come irreale, dalle classi dirigenti della Comunità europea e dei suoi paesi membri.

Oggi, a quasi quattro anni dalla caduta della Cortina di Ferro, alle questioni basca, irlandese, kosovara se ne sono aggiunte decine di altre, che si credevano scomparse dal continente europeo, ma che erano state soltanto represse e negate da cinquant'anni o più di totalitarismo comunista.

Ovunque in Europa, e non solo, ha ricominciato quindi a bollire la pentola del nazionalismo. In alcuni casi, esasperata da classi politiche del vecchio regime in cerca di nuove basi di consenso, questa tremenda ideologia ha già fatto saltare il coperchio. Inutile dilungarci sul risultato della politica di questi signori che da demagoghi che erano all'inizio sono poco a poco diventati dei veri e propri criminali, responsabili di violenze, torture, stupri e stermini di massa: lo spettacolo di quanto sia avvenuto nella Croazia prima, nella Bosnia poi, è risaputo da tutti.

2.14. Il Partito della sporcizia etnica

Purtroppo si aggiunge a queste tremende situazioni ex-yugoslava o caucasica e a quelle cariche di tensione, come in Moldavia, in Macedonia, in Romania, nei Paesi Baltici, in Slovacchia, in Russia, in Ucraina, nelle repubbliche ex-sovietiche dell'Asia Centrale, una totale e non meno tremenda assenza politica dell'Europa, delle sue istituzioni sovranazionali.

In un tale quadro, ovviamente, non ha molto senso parlare di un intervento di questa Europa, né di come bisognerebbe che fosse organizzata per tutelare i diritti delle minoranze e per organizzare la convivenza tra nazionalità diverse.

La questione, invece, è netta, immediata. Che fare ? Che fare per fermare queste pazzie, per fermare la politica razzista e nazista di un regime, quello di Belgrado ? Che fare per creare le possibilità di una rinascita della Bosnia che non si fondi sui risultati della pulizia etnica ?

Una cosa quanto meno è chiara. La nostra battaglia deve essere tesa allo ristabilimento di un assetto politico ed istituzionale che rispecchi proprio ciò che si è voluto cancellare con la politica della pulizia etnica, ovvero la convivenza su uno stesso territorio di diverse comunità etniche. Deve quindi partire proprio dagli antipodi della logica dei negoziati di Ginevra: quella della spartizione (grossolamente nascosta dietro uno pseudo decentramento), che non è altro che l'iscrizione, nella legge, dei risultati di una politica di forza, della politica di pulizia etnica del regime di Belgrado e dei suoi signori della guerra in Bosnia. Bisogna quindi ritornare allo "status antes": allo stato dei cittadini.

Alla base di questo ritorno alla situazione anteriore, c'è la gente: quelle centinaia di migliaia di persone cacciate dalle loro case, profughi in Bosnia stessa, in Croazia, in Slovenia, in Germania e, un po' dappertutto, in Europa. Individuato il nodo della questione, rimane da inventare una strategia, che non può essere che multiforme, ovvero la concretizzazione di una serie di proposte fatte in questi ultimi mesi dal P.R. o da alcuni dei suoi esponenti. I punti fondamentali sono:

1. l'isolamento totale della Federazione Serbo-Montenegrina da parte della Comunità internazionale per la sua fondamentale responsabilità nella tragedia bosniaca oltre che per la guerra in Croazia e Slovenia e per l'oppressione della stragrande maggioranza della popolazione del Kossovo;

2. la costituzione, nel quadro dell'ONU, di un tribunale internazionale per i crimini di guerra;

3. un appoggio deciso e massiccio, politico, amministrativo e tecnico, con le città della Bosnia da parte delle città del resto d'Europa, attraverso una campagna di gemellaggio puntato al salvataggio di tutti i dati anagrafici, storici, ecc. delle città occupate, distrutte, "pulite" da parte dei serbi; al fine di creare le condizioni per un ritorno di tutti i profughi;

4. il riconoscimento immediato della Macedonia;

5. l'elaborazione di un assetto istituzionale agli antipodi di quello oggi discusso a Ginevra, ovvero un assetto istituzionale che si fondi non su una divisione geografica ("decentralizzazione") che faccia corrispondere le regioni con le comunità etniche (perché questo comporta comunque il sancire gli "spostamenti" di popolazione avvenuti) ma tenendo conto delle realtà regionali;

6. riconoscimento al Parlamento del Kossovo di uno status internazionale analogo a quello dell'OLP.

2.15. Il Partito delle diversità

Premesso che qualsiasi politica europea di garanzia delle minoranze non può prescindere, neanche minimamente, dalla risoluzione della tragedia bosniaca, rimane da capire quali meccanismi politici ed istituzionali di garanzia è necessario inventare e concepire, a livello del continente europeo (e non solo), al fine di impedire l'esplosione di altre tragedie di questo tipo.

Qui, come altrove, ci scontriamo, purtroppo e drammaticamente, con l'assenza o la sostanziale inadeguatezza, sia a livello europeo, sia a livello mondiale, delle attuali istituzioni internazionali. Abbiamo già visto i limiti - abissali - del processo "comunitario" di integrazione europea. Limiti che hanno per nome "cooperazione intergovernativa" invece di federalismo, "verticismo tecnocratico" invece di democrazia ma, anche, sostanziale trascuramento delle realtà regionali e delle minoranze, non certo colmato con la creazione, prevista dal Trattato di Maastricht, di un Comitato Consultivo delle Regioni.

Una inadeguatezza anche in questo settore, quella della C.E., non certo colmata dall'opera di altre istituzioni europee: il Consiglio d'Europa, completamente assente dall'inizio della guerra nell'ex-Yugoslavia; la Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE), anch'essa impotente; l'ONU, di cui viviamo ogni giorno la tragica inadeguatezza.

Di fronte però alla tentazione di individuare nuovi organismi o, meglio, istituzioni europee o mondiali incaricate di "gestire" i problemi delle minoranze (Alta Autorità Europea delle Minoranze, per esempio) ci sembra fondamentale confermare e, semmai, rafforzare, l'elemento centrale costituito dal Diritto, dai diritti di tutti i cittadini. Siamo in effetti, convinti, che solo nell'effettività del Diritto, dei diritti (e cioè anche con una giustizia che funziona, con leggi efficaci e applicate in materia di tutela del diritto all'informazione ed all'immagine), possono nascere le condizioni di un dialogo vero - quindi anche difficile e duro - tra maggioranze e minoranze, per raggiungere nuove articolazioni politico-istituzionali (autonomie, regionalizzazione, federalismo, ...) che consentano a ciascuna comunità di vivere, in convivenza con le altre, la loro propria diversità.

2.16. Il partito degli Zingari

Nel bel mezzo della questione delle minoranze, ce n'è una molto particolare: quella degli zingari. Una questione che è riemersa in tutta la sua drammaticità agli occhi dell'opinione pubblica europea attraverso gli atti di intolleranza di cui è stata vittima questa comunità in Germania, in Ungheria, in Bulgaria, in Romania, e, più generalmente, ovunque risiedono consistenti comunità rom. Più recentemente, è stata decisa in Germania l'espulsione di 80.000 emigrati illegali, provenienti dalla Romania: questa misura tocca particolarmente i rom visto che costituiscono la stragrande maggioranza di questi immigrati.

Con questi avvenimenti è riemerso un vecchio dibattito, quello tra "assimilazione" e "integrazione", mai risolto o chiuso ma solo congelato ad Est dai vari regimi comunisti o, in Occidente, dalla crescita economica che consentiva in qualche modo di "contenerlo", di "accantonarlo", di "nasconderlo".

Manifestamente però né la politica volontaristica (ed è un eufemismo) dell'Est, né i dividendi della politica del Welfare State dell'Ovest, ambedue fondate sull'assimilazione, hanno conseguito il loro obiettivo.

Le comunità zingare hanno mantenuto forte la loro identità, anche se, per alcune di esse, se ne è aggiunta o sovrapposta un'altra, di natura sottoproletaria, originata dalla rivoluzione industriale e dalla scomparsa delle classi artigianali.

Il nodo centrale della questione, a partire dal quale riaffrontare (o meglio affrontare, in ambito europeo) la questione zingara ci sembra quindi essere quello dell'identità. E, come è stato ormai dimostrato, non c'è possibilità di affermazione di identità se la politica - proclamata o meno dai vari stati - è una politica di assimilazione. E' giunto quindi il momento di inventare una politica tendente all'integrazione, fondata sull'affermazione delle peculiarità del popolo zingaro e sulle sue necessarie articolazioni con le varie culture nelle quali si è ambientato.

Si tratta, in altri termini, di creare lo spazio affinché il popolo zingaro possa compiere una vera e propria rivoluzione transnazionale. Una rivoluzione che, sul modello delle rivoluzioni nazionali del secolo scorso, consenta al popolo zingaro di affermare e di vivere la propria identità, le proprie peculiarità linguistiche e culturali. Una rivoluzione che, all'opposto delle rivoluzioni del secolo scorso, fondi questa affermazione sulla interdipendenza del popolo zingaro con i vari popoli europei con cui convive. Una rivoluzione, ancora, che abbia come geografia la democrazia, come referente gli Stati Uniti d'Europa da creare.

In questa direzione si stanno cominciando a muovere alcune organizzazioni internazionali Rom. Di recente, sotto la loro spinta, è stato approvato dal Consiglio d'Europa un documento nel quale viene loro riconosciuto lo status di minoranza europea. Un riconoscimento senz'altro importante ma che rischia di non produrre effetti se non si riescono ad individuare alcuni obiettivi grazie al cui raggiungimento si possa cominciare a rendere questo concetto visibile e comprensibile.

Un compito difficile che necessita di un ulteriore sviluppo della riflessione insieme ad un maggiore coinvolgimento degli zingari iscritti al Partito Radicale. Quanto segue non va quindi considerato come una vera e propria proposta ma come un primo contributo.

Un punto fermo, dal quale dobbiamo partire, è il carattere transnazionale della questione, anche se, di fronte al carattere relativo, in termini politici ed istituzionali, dei referenti europei, i problemi di praticabilità politica non sono da poco. A titolo quindi solo evocativo, al momento, indicheremo due possibili obiettivi che potrebbero essere perseguiti nel quadro delle istituzioni della Comunità europea o di quelle del Consiglio d'Europa:

1. la promozione di una Università Europea Rom dove diplomati dei vari paesi europei possano compiere una formazione complementare di studio e di insegnamento della lingua rom;

2. la creazione di un'Accademia Europea Rom, dove scienziati di questa etnia possano difendere e promuovere la propria lingua e cultura.

2.17. La questione della Comunicazione e del diritto alla lingua

Cominciamo qui con un paradosso: la lingua (di comunicazione) che si va affermando oggi nella Comunità europea e lo farà domani nell'Unione europea è proprio quella del paese che è più lontano dagli ideali federalisti europei: l'inglese.

Continuiamo con una aberrazione: i costi degli attuali sistemi di comunicazione nella CE: nove lingue ufficiali (72 direzioni di traduzione). Un costo annuo complessivo di 700.000.000 di ECU, pari a 800 milioni di dollari circa. Domani, con l'ingresso previsto di alcuni paesi dell'EFTA, le lingue saranno 12. Saranno 16 con l'ingresso dei Paesi di Visegrad (Polonia, Boemia-Moravia, Slovacchia ed Ungheria), all'incirca 25 con l'ingresso degli altri paesi dell'Europa Centrale. Una quarantina se l'allargamento dovesse estendersi ai paesi d'Europa Orientale o più ancora se consideriamo il numero totale del continente europeo: 72 censite.

Un paradosso ed una aberrazione che, con ogni probabilità, faranno venir meno il diritto alla lingua, un diritto fondamentale. Un problema quindi di democrazia che non può più essere accantonato, specialmente nel momento in cui viene individuata la poca democraticità dell'edificio comunitario ed i rischi che sin d'ora questa assenza fa correre alla vita democratica stessa del continente europeo.

Ma la questione della tutela di questo diritto non si limita alla sola prospettiva europea. Basta pensare alla questione dell'ONU e di molti altri processi di integrazione regionale. Diventa però, in questo quadro particolare, un elemento determinante per ogni tentativo di rifondazione in senso democratico e federale del processo di unificazione. A titolo solo esemplificativo possiamo indicare il carattere relativo di un mercato unico europeo del lavoro (libera circolazione delle persone) senza che vengano assicurate le condizioni di comunicazione.

Ma, ancora, la questione della democrazia linguistica è una questione che riguarda anche molti stati dove convivono "etnie" diverse e quindi anche lingue diverse. Dal Belgio con le sue sole tre lingue possiamo arrivare alle 150 dei Paesi dell'ex-Unione Sovietica, passando dalle 16 lingue e circa 500 dialetti dell'India, alla maggiore parte dei paesi africani dove convivono insieme alla lingua ufficiale, quasi sempre ereditata dalla potenza coloniale, decine di lingue, anche se spesso bollate dall'Occidente come dialetti.

Anche nel PR, con lo sviluppo del suo carattere transnazionale, si sono moltiplicati i problemi dovuti alla comunicazione. Ad esempio, nella sessione di questo Congresso, le spese di interpretazione (7 lingue) e di traduzione (4 lingue) rappresentano il 23 % del costo totale.

Quindi, sia nel funzionamento delle organizzazioni internazionali, sia nei processi di integrazione sovranazionale, sia, nella società civile, nei movimenti o, come nel nostro caso, nei partiti internazionali o transnazionali, si pone la questione del diritto alla lingua. Una questione, questa, che si può anche collegare, nei processi di integrazione sovranazionale, con la più vasta questione del "deficit democratico" ma, anche, con quella della necessità di dare un supporto neutro all'emergere di una identità culturale sovranazionale.

2.18. Il partito della democrazia linguistica

Si tratta quindi di riuscire a tutelare questo diritto alla lingua garantendo, nel contempo, la comunicazione internazionale. Nelle condizioni storiche che sono le nostre, l'esperanto ci sembra il mezzo maggiormente in grado di farlo perché, se assunto come mezzo di comunicazione dai vari stati membri della CE o del Consiglio d'Europa, consentirebbe di garantire una effettiva uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla questione comunicazione.

Quali iniziative ?

La battaglia per la democrazia linguistica non è nuova nel PR. Da alcuni anni ormai, alcuni compagni prima, Marco Pannella poi, altri compagni ed amici appartenenti a sempre più numerosi paesi si sono adoperati, con l'ERA (Associazione Radicale Esperantista) in particolare, prima per far conoscere questo problema, e poi per avanzare proposte. Alcune iniziative sono in corso. Al Parlamento europeo è stata chiesta la redazione di uno studio sui vantaggi che potrebbe rivestire l'adozione dell'esperanto come lingua di comunicazione nella C.E.

Altri obiettivi potrebbero essere definiti come:

1. l'adozione dell'esperanto come lingua-ponte nelle istituzioni europee, usandolo nei sistemi di traduzione e di interpretariato comunitari. Una tale richiesta potrebbe essere estesa ad altre organizzazioni internazionali come l'ONU, la CSCE, il Consiglio d'Europa.

2. l'adozione nella C.E. (ed anche in altre istituzioni internazionali) dell'esperanto come lingua di riferimento giuridico per tutti i documenti ufficiali.

3. l'introduzione nelle varie convenzioni internazionali del diritto alla lingua;

4. l'adozione nel Consiglio d'Europa, insieme all'inglese e al francese, e nell'ONU, insieme all'inglese, al francese, al russo, al cinese e allo spagnolo, dell'esperanto come "lingua di garanzia" (del diritto alla lingua) e, in quanto tale, come ulteriore lingua ufficiale di queste organizzazioni.

5. l'inserimento dell'esperanto nell'insegnamento elementare da parte di più paesi, anche come strumento propedeutico.

Un progetto questo che necessita anche di un maggiore sviluppo dell'ERA, in particolare al di fuori dell'Italia ma che si potrebbe anche articolare intorno ad una lega parlamentare "per la democrazia linguistica - promozione dell'esperanto".

2.19. Novità nel campo del diritto internazionale

Nel putiferio generale del dopo "caduta del muro", sono, però, emersi alcuni - pochi - elementi positivi che potrebbero anche rivestire una importanza determinante per il futuro dell'umanità se da "précédents" saremo capaci di trasformarli a tutti gli effetti in fondamenti di un nuovo diritto internazionale da una parte e se, insieme, saremo in grado di riformare le istituzioni internazionali esistenti al fine di renderle in grado di attuare questo nuovo diritto, di farlo applicare.

Si tratta in primo luogo dell'atteggiamento della Comunità internazionale di fronte alla guerra del Golfo dove venne non più solamente teorizzato ma praticato il diritto d'ingerenza contro uno stato che usa la forza contro un altro stato. Ed anche se l'operazione fu condotta sotto la guida degli americani, essa si svolse sotto il diretto mandato dell'ONU. Un ulteriore passo è stato fatto nel caso, più recente, della Somalia, dove questo diritto-dovere d'ingerenza viene attuato per supplire ad un totale dissolvimento di uno stato. Un altro passo in avanti nel caso della Somalia è rappresentato dal diretto coordinamento delle operazioni militari da parte dell'ONU.

2.20. Il partito della riforma dell'ONU

Se il ruolo dell'ONU appare ancora del tutto insufficiente ed inadeguato, soprattutto alla luce della tragedia in corso in Bosnia, appare invece chiaramente che solo a quel livello si potranno individuare gli strumenti in grado di limitare quegli effetti devastanti derivanti dal principio della sovranità nazionale.

Tre ci sembrano i livelli urgentemente bisognosi di intervento riformatore:

- quello del luogo di definizione e di adozione delle decisioni;

- quello della applicazione delle decisioni;

- quello del diritto internazionale e quindi della sua applicazione nei vari stati e, conseguentemente, della possibilità per i singoli cittadini di appellarsi all'ONU per mancato rispetto o violazione di diritti nei loro confronti da parte di uno stato.

Il primo livello di intervento riguarda principalmente l'Assemblea delle Nazioni Unite ed, al suo interno, il Consiglio di Sicurezza e, in modo particolare, lo status dei suoi cinque membri permanenti. Una struttura "inter-governativa" a tutti gli effetti, dove, come nella C.E., vige la più spietata logica del "do ut des" tra i vari stati membri e, in particolare, tra quelli membri del Consiglio di Sicurezza. Una struttura che non conosce meccanismi e luoghi di rappresentanza dei cittadini, nella quale, quindi, più ancora che nella CE, esiste un forte deficit democratico.

Di fronte a una tale situazione non ci sembra proponibile, come invece viene avanzato da molte parti, "riformare" la composizione del Consiglio di Sicurezza, attribuendo a tale paese piuttosto che a tale altro, un seggio "permanente", ma di introdurre invece elementi sostanziali di democraticità, con, in particolare, la creazione di una assemblea dei cittadini, ovvero di un vero e proprio parlamento mondiale.

Il secondo livello riguarda l'esecuzione delle decisioni prese. Un livello, anch'esso, oggi fortemente dipendente dal "buona volontà" degli stati membri in generale, dei cinque "permanenti" in particolare. Due ci sembrano i nodi da affrontare. Il ruolo e la legittimità del segretario generale: una questione questa che difficilmente potrebbe trovare uno sbocco positivo senza la democratizzazione di cui sopra. Il secondo nodo riguarda la reale autonomia del segretario nell'applicare le decisioni prese. Un problema che potrebbe trovare un primo abbozzo di soluzione con il distaccamento permanente all'ONU di contingenti militari da parte degli stati membri in grado di svolgere azioni sia di "peace keeping" sia di "peace making".

Il terzo livello è quello della costituzione di un vero e proprio corpus di diritto internazionale che diventi la base legale sulla quale l'ONU possa fondare le sue decisioni e di una Corte di Giustizia che possa emettere sentenze immediatamente applicabili dagli stati membri ed alla quale i cittadini possano fare direttamente ricorso. Nel quadro di questa Corte di Giustizia andrebbe anche incorporata una "Corte suprema contro i crimini di guerra", una specie di Corte d'Assisi mondiale.

Quali strumenti ?

Una tappa intermedia, ovvero uno strumento per questa grande riforma potrebbe essere costituito da una Lega Mondiale dei Paesi Democratici (gli "allineati sulla democrazia") che potrebbe agire da potente lobby all'interno delle Nazioni Unite per una riforma in senso democratico delle sue regole di funzionamento e per l'ampliamento dei suoi poteri e delle sue competenze a partire dalla limitazione delle sovranità nazionali dei suoi membri.

In questa ottica andrebbe valutata la possibilità di rifondare su queste basi il Consiglio d'Europa, una organizzazione che si è allargata recentemente a molti dei paesi ex-comunisti, senza, però, riuscire finora ad attuare una sua riforma in senso federale. Una organizzazione che ha, d'altra parte, conseguito nei suoi quarant'anni di esistenza, alcuni obiettivi tutt'altro che marginali, nella difesa e nella promozione dei diritti dell'uomo.

Una organizzazione infine che, anche se di integrazione sovranazionale limitata, contiene sin d'ora alcuni elementi di funzionamento - a cominciare dalla sua Assemblea Parlamentare - di indubbia superiorità democratica rispetto all'Assemblea delle Nazioni Unite (che rappresenta gli stati e non i cittadini) e di intervento, in particolare quello dell'applicazione vincolante - e quindi supremazia - delle sentenze del proprio organo di giustizia (Corte Europea dei Diritti dell'Uomo) negli Ordinamenti giudiziari degli stati membri.

Una trasformazione che consentirebbe anche - e forse soprattutto - di rompere una logica di raggrupamento fondata unicamente su delle basi geografiche o geo-politiche, e quindi, di evitare i rischi di ripiegamento tutt'altro che remoti su una logica che si incentri sull'Europa o sull'Occidente.

Una opzione che potrebbe prendere una ulteriore consistenza se alle ragioni costitutive del Consiglio d'Europa - la difesa dei diritti fondamentali della persona - venissero aggiunti compiti più generali di tutela e di promozione della democrazia. Una opzione che potrebbe anche andare incontro agli interessi -tutt'altro che illegittimi - dei paesi più poveri (in particolare quelli africani di nuova democrazia) abbinando all'impegno ad adempiere ai requisiti in materia di diritti della persona e di democrazia, un "riscontro" materiale concreto del tipo di quello offerto dalla "clausola della nazione più favorita" nell'ordinamento degli Stati Uniti d'America, ovvero una serie di vantaggi in termini economici, finanziari e doganali.

2.21. Il disastro ambientale

Ci pare inutile dilungarci in questa sede sui disastri ambientali che sta vivendo o sta per vivere il nostro pianeta. Individueremo soltanto in questa sede una situazione emblematica, ad Est, indicandone un'altra, a Sud, nel tremendo processo di desertificazione in corso nel Sahel e ricordandone infine una, a Nord, quella della riforma della P.A.C. (politica agricola comune) di cui abbiamo parlato prima.

2.22. Il Partito dell'Alta Autorità Europea del Reno-Danubio

Quanto sta succedendo oggi tra la Slovacchia e l'Ungheria a proposito della questione della diga sul Danubio ha, senza dubbio, una valenza esemplicativa forte - e preoccupante - di quanto i "beni naturali transnazionali" possano essere fonti di tensione e, potenzialmente, di conflitto aperto.

Una constatazione, questa, non di oggi. In effetti, già nel 1856, fu creata una "Commissione europea del Danubio", che raggruppava rappresentanti dei paesi rivieraschi e che era competente per una serie di questioni riguardanti il fiume. Un'istituzione che subì diverse mutazioni nel corso degli anni per essere poi cancellata in seguito alla divisione del mondo in due blocchi, sancita a Yalta.

Nel frattempo, contemporaneamente alla caduta del muro, un gigantesco progetto, rivoluzionario almeno dal punto di vista della comunicazione fluviale europea, è stato portato a compimento con la realizzazione, pochi mesi fa, del collegamento tra il Danubio e il Reno.

Una situazione nuova, quindi, sotto molti punti di vista. Già abbiamo detto delle tensioni tra la Slovacchia e l'Ungheria. Ma c'è anche, molto grave, la questione del rispetto dell'embargo nei confronti della Serbia, che come sappiamo viene aggirato da alcuni paesi proprio - anche se non solo - tramite il Danubio.

C'è, ovviamente, la gigantesca questione ambientale e la quasi impossibilità di affrontarla, per mancanza di risorse finanziarie ed anche tecniche, da parte dei paesi ex-comunisti. Oltre, ben inteso, ai problemi propri alla organizzazione del traffico su una rotta fluviale che attraversa o confina con nove paesi (Francia, Olanda, Germania, Austria, Ungheria, Croazia, Serbia, Bulgaria, Romania ed Ucraina).

Una serie, non esaustiva, di problemi seri, gravi, transnazionali per natura, che richiedono soluzioni e luoghi di soluzione internazionali, transnazionali. Una questione che si potrebbe affrontare con la creazione di una Alta Autorità europea del Reno-Danubio, dotata dell'autonomia e degli strumenti necessari per gestire con efficacia i numerosi problemi di questa fondamentale via di comunicazione europea. Una organizzazione che andrebbe, idealmente, collegata o inserita in una altra istituzione europea esistente ... il Consiglio d'Europa ? Una iniziativa che, se dovesse concretizzarsi, potrebbe far da modello per la gestione di tante altre problematiche di interesse europeo.

2.23. Il Partito degli Stati Uniti d'Africa Occidentale

Sul fronte "Sud", l'idea di un piano Marshall non è, ovviamente, nuova. E' la proposta che abbiamo avanzato 13 anni fa quando abbiamo intrapreso la nostra grande campagna contro lo sterminio per fame. Una battaglia che pur segnata da notevoli successi fu una sconfitta dal punto di vista generale perché non portò a quel radicale cambiamento della politica dei paesi del Nord nei confronti di quelli del Sud. Una sconfitta nella quale abbiamo trovato, noi, il Partito Radicale, le ragioni, la forza anche, per lanciarci in questo folle progetto transnazionale.

Una proposta che ha mantenuto tutta la sua forza e validità, come ce lo dimostrano, purtroppo, tante realtà africane di oggi, a cominciare da quella somala ma che, allo stato, non possiamo rilanciare a tutti gli effetti se non altro perché siamo ancora ben lontani dall'aver portato a termine il nostro processo di trasformazione da partito prevalentemente nazionale a partito transnazionale.

Non per questo non possiamo e non dobbiamo cominciare a costruire alcune premesse per un nostro futuro nuovo impegno: alcuni punti fermi intorno ai quali articolare meglio, appena ne saremo capaci, nuove proposte. Uno di essi, fondamentale secondo noi, dovrebbe essere incentrato sulla promozione nei Paesi del Sud di raggruppamenti regionali di tipo federale.

Un obiettivo da perseguire sia con l'azione politica diretta, in loco, come quella decisa e avviata dalla Prima Assemblea dell'A.R.E.D.A. (Association Radicale pour l'Etat de Droit en Afrique), sia promuovendo l'introduzione nei meccanismi di cooperazione, in particolare in quelli della C.E., di criteri di priorità per quei paesi che decidono di avviarsi sulla strada della costituzione di vere e proprie federazioni.

Per i motivi - ormai storici - della nostra azione passata e della nostra presenza e azione attuale nei Paesi del Sahel, per la particolare gravità delle situazioni economiche e sociali in quei Paesi, per la drammatica situazione ambientale costituita dal gigantesco processo di desertificazione dell'intera regione, perché molti dei paesi di questa zona hanno iniziato recentemente dei processi di democratizzazione, perché, infine, essi hanno già avviato dei tentativi, seppure embrionali, di raggruppamento sovranazionale, il Sahel, ovvero i paesi della CAO (Communauté de l'Afrique Occidentale), potrebbe o dovrebbe costituire questo laboratorio, questo "luogo" dove concentrare le nostre tuttora - e purtroppo - poche energie.

2.24. Il partito nonviolento

Abbiamo "camminato" attraverso l'Europa ed il mondo. Attraverso tragedie e drammi in corso, problemi irrisolti ... cercando di dimostrare quanto sarebbe possibile e necessario fare ... SE ...

Se ci fosse un Partito Radicale, forte della iscrizione, del contributo, dell'impegno di decine di migliaia di iscritti, forte della sua capacità di vivere e di agire con e nella nonviolenza, forte, quindi, di esistere, di esserci ...

 
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