SOMMARIO: Facendo seguito al dibattito sulla nonviolenza e in particolare sull'arma del digiuno aperto dal documento di Marco Pannella, Giovanni Negri e Luigi Del Gatto pubblicato nel precedente numero di LR, Negri sollecita i "democratici in sonno" a riflettere sui guasti e i limiti della "democrazia reale"; Eughenja Debrianskaja sottolinea che la democrazia non è un'entità statica ma un processo dinamico all'interno del quale la nonviolenza può svolgere una funzione decisiva; Giuliano Pontara precisa le differenze fra digiuno di protesta e digiuno politico.
(Nei numeri successivi di LR pubblicheremo gli interventi, sullo stesso argomento, di Roberto Cicciomessere, Sergio D'Elia, Angelo Panebianco, Alex Langher, Carmine Benincasa, Luigi Manconi, Angiolo Bandinelli e Giovanni Bianchi)
IL SONNO DELLA DEMOCRAZIA
di Giovanni Negri
In un recente articolo Gianni Vattimo analizza, in un modo felicemente inedito, l'immaginario collettivo suscitato dalla rivoluzione dell'Est in noi "occidentali".
La fine della guerra fredda, la caduta di muri e catene, il riconoscimento della superiorità del modello democratico ci danno serenità e sicurezza. Ma la curiosità e l'aspettativa sono altrove, nello sgomento per la rapidità e il volume del cambiamento di quelle società rispetto alle degenerazioni e agli statu quo delle nostre società "democratiche"; e ragionevolmente Vattimo conclude che »in realtà vorremo anche noi, qui ad Ovest, essere capaci di cambiare radicalmente, di non lasciare che la democrazia si spenga in modo indolore ma non per questo meno inesorabile, nel trionfo del cinismo, della sfiducia, della corruzione accettati come il minor male... .
Se dunque pensiamo con tanta ansia e curiosità a ciò che può sorgere dalle macerie del socialismo reale é anche perché, in modo più o meno consapevole, ci sentiamo più sudditi di "democrazie reali" che protagonisti di democrazie vive.
Ci piace pensare che in Ungheria o in Urss, con ben maggiore freschezza e innocenza, si cerchi insomma non qualcosa che già abbiamo ma qualcosa che anche a noi manca, nonostante un tasso di benessere e felicità maggiore dei popoli dell'Est.
Ma è proprio sulla base di queste analisi che è calzante l'intuizione trasnazionale dei radicali. Assai raramente e con grande difficoltà riesce a divenire direttamente politica (nel senso dell'irrompere nell'agone politico con la forza di provocare confronto) ma definisce la cornice indispensabile della democrazia nuova, la dimensione al di fuori della quale non vi è possibile soluzione democratica a problemi che non conoscono confini nazionali.
Nello stesso ambito si situano i difficili tentativi, i primi passi di un'iniziativa nonviolenta che insieme a Marco Pannella e a diversi compagni dell'Est abbiamo avviato nei giorni scorsi, invitando a una più matura riflessione sulla questione cruciale del "potere dell'informazione" e del suo esercizio.
Non è per nulla paradossale che a Mosca e a Praga si sia manifestato dinnanzi ad ambasciate occidentali rivendicando diritto e libertà all'informazione, o almeno non è più paradossale di quanto non lo sia il manifestare a Roma o a Bruxelles per le libertà e i diritti civili ad Est. Né si è trattato di un contingente sostegno a difficili prove elettorali condotte in occidente in condizioni a-democratiche, nelle quali è dubbia non solo la gestione dell'informazione ma il computo di schede e voti. Con quelle manifestazioni, con il digiuno non si intendeva tanto "protestare" contro censure e discriminazioni pure gravissime, quanto arrivare a porre - finalmente in termini politici e non meramente accademici o astratti - un problema che sul piano transnazionale, e perciò anche nei Paesi nei quali viviamo, va affrontato.
Viviamo in democrazie monche e degradate dall'assenza teorica e pratica del nuovo Stato di Diritto e del nuovo equilibrio dei poteri che effettivamente operano nelle società contemporanee. Lo schema classico di tripartizione dei poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario) ha subito l'irruzione di un potere mediatico cresciuto prepotentemente in questo secolo, sino al punto di esercitare contemporaneamente una funzione di condizionamento pesante degli altri poteri e di possente veicolo di controllo del consenso.
Non è certo l'unica corposa anomalia delle democrazie tradizionali, ma l'armonia della dialettica democratica - prevista come frutto di un complesso sistema di controllo tra poteri - è oggi schiacciantemente compromessa da un potere di fatto non codificato e regolamentato.
Ciò vale a Est e a Ovest, sempre più varrà nella società della comunicazione e della sovrapposizione di realtà e immagine, sempre più è oggetto di ricerca ma sempre meno è affrontato in termini politici e legislativi. Eppure squilibri ed errori sono sotto i nostri occhi ogni giorno. L'assenza di garanzie di tutela dell'identità di soggetti collettivi o del singolo conducono all'abolizione di intere minoranze politiche e sociali, spesso alla demolizione dell'immagine senza possibilità di riscatto. Pene, sanzioni, correttivi, contrappesi, strumenti di controllo sono inesistenti o impraticabili. Prevale la logica di potere brutale e si fa strada un'etica autoritaria, proibizionista in senso lato, mentre dal suffragio universale al Parlamento gli istituti di democrazia perdono valore e ruolo.
Si tratta di una realtà di fronte alla quale ci si sente impotenti.
Né è scontato che il Partito radicale possa essere la sede della riflessione e dell'azione su questo bandolo della matassa "democrazia reale", che sul piano transnazionale si riesca effettivamente a operare con efficacia, che sia matura un'iniziativa nonviolenta articolata, collettiva, diversa da quelle che siamo abituati a conoscere e volta al rispetto della legalità democratica che pure le nostre Costituzioni solennemente sanciscono. Tuttavia rifletterci, ciascuno e insieme, non guasta proprio. Come in tante altre occasioni il pungolo radicale potrebbe forse scuotere i troppi democratici "in sonno", abbandonatisi alla rimozione e all'inerzia.
DALLA RUSSIA CON AMORE
di Eughenja Debrianskaja
Parlando di democrazia come fine, viene un dubbio: può essere veramente un fine?
La democrazia non è un'entità statica, ma un processo dinamico, durante il quale si tende a stabilire un complesso di garanzie costituzionali che offrano il massimo di libertà politiche, civili, economiche sia a gruppi di persone sia all'individuo. Per raggiungere il risultato desiderato bisogna avere innanzitutto l'aspirazione ad ottenere qualcosa.
Purtroppo bisogna riconoscere che noi viviamo in un paese dove per molte decine di anni l'escalation di violenza da parte della classe dirigente, esercitata come strumento ufficiale per la risoluzione dei problemi politici ed economici, ha generato terrore ed apatia nella popolazione.
Possiamo oggi affermare che le idee di libertà, di amore, di giustizia sono comuni alla maggioranza dei nostri concittadini?
Malgrado le trasformazioni evidenti nel modo di pensare sovietico e nonostante le parole diritto, libertà, democrazia riempiano i discorsi ufficiali e non, sarebbe affrettato e miope sostenerlo.
Pur avendo raggiunto un certo livello di garanzie per i propri cittadini, l'occidente affonda sempre di più nel "non essere" e non è in grado oggi di rappresentare un modello perfetto del suo sistema e di esprimere forme di protesta nei confronti dell'impero sovietico, grazie alle quali il processo di trasformazione democratica all'Est diverrebbe irreversibile.
C'è la sensazione che l'umanità, accettando la formula "Après moi le dèluge", ne abbia fatto il suo slogan, e che i singoli movimenti di opinione non siano in grado di respingerla.
La politica delle istituzioni che si muove capillarmente, condanna intere nazioni alla miseria e alla fame mentre lo squilibrio ecologico, conseguente a questa politica, le minaccia di estinzione.
In questa situazione noi leviamo una voce di amore e di speranza in difesa di quelli per i quali la nonviolenza, l'amore, la sete di giustizia sono divenuti ragioni di vita, e facciamo appello a tutti quelli che si uniscono a noi per sfidare i signori dell'odio, della guerra, della incomunicabilità.
DIGIUNO E NONVIOLENZA
Giuliano Pontara
Ordinario di Filosofia pratica presso l'Università di Stoccolma, Pontara è uno dei massimi studiosi di Gandhi. Ha curato per Einaudi una delle più ampie e complete antologie gandhiane
Il Mahatma Gandhi, che del digiuno come metodo di lotta politica e nonviolenta (satyagraha) non solo aveva fatto uso in diverse situazioni, ma era anche un autorevole teorico, scrisse in una occasione le seguenti righe: "La maggioranza dei digiuni non sono assolutamente riconducibili all'ambito del satyagraha e sono, come vengono generalmente chiamati, degli scioperi della fame intrapresi senza alcuna preparazione e coscienza". Aggiungeva anche che "se si ripetono troppo spesso, questi scioperi della fame sono destinati a perdere anche la dignità e la efficacia che possono avere e a scadere nel ridicolo." (M.K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, 1973 e susseguenti edizioni, p. 189). Il digiuno, come lo sciopero, il boicottaggio e tanti altri metodi di lotta, può essere impiegato da chiunque, al servizio di qualsiasi causa, per cercare di conseguire qualsiasi fine. Come metodo di lotta il digiuno, in quanto tale, è un metodo di lotta non militare, e basta: non è né un metodo violento né un m
etodo nonviolento, ma può diventare o l'uno o l'altro a seconda di come viene usato.
Parlando del digiuno come metodo di lotta politica è importante tener distinto il digiuno di protesta da quello che per brevità possiamo chiamare il digiuno politico. Il digiuno di protesta è quello intrapreso per richiamare in modo drammatico l'attenzione di determinate persone, o più in generale dell'opinione pubblica, su determinate circostanze o determinati fatti ritenuti del tutto intollerabili. Attraverso le sofferenze cui il digiunatore o i digiunatori volontariamente e pubblicamente si sottopongono essi cercano di esercitare una certa pressione morale, di risvegliare le coscienze, o di renderle consapevoli dei fatti o della situazione che essi intendono denunciare. In quanto non vengono poste delle condizioni che altri debbono accettare affinché il digiuno venga interrotto, il digiuno di protesta non comporta, di regola, alcuna costrizione.
Il digiuno politico è il digiuno intrapreso allo scopo di cercare e di realizzare determinati e precisi obbiettivi la cui realizzazione dipende da altri contro i quali il digiuno quindi è direttamente rivolto. Costoro possono facilmente percepire la situazione creata dal o dai digiunatori come una situazione coercitiva, ossia come una situazione in cui viene loro imposta una scelta tra alternative che sono tutte a valenza negativa: o accondiscendere alle condizioni poste dal o dai digiunatori, oppure assumersi la responsabilità delle loro sofferenze e al limite della loro morte con tutte le conseguenze che ne possono scaturire. Non vi è dubbio che, nonostante le intenzioni di Gandhi, alcuni dei digiuni da lui intrapresi vennero percepiti da coloro contro i quali erano diretti come atti coattivi nei loro confronti; ed è anche vero che in certe situazioni coloro contro i quali Gandhi digiunò cedettero alle condizioni poste da Gandhi non in quanto persuasi della loro giustezza, ma in quanto paventavano le conse
guenze di un ulteriore prolungamento del digiuno del Mahatma.
Una seconda caratteristica del digiuno politico in quanto distinto dal digiuno di protesta, è quella che possiamo chiamare della irreversibilità: per essere massimamente efficace il digiuno politico deve essere un digiuno a morte nel senso che non viene posto in precedenza nessun termine temporale alla sua cessazione, la quale è fatta esclusivamente dipendere dalla accettazione, da parte dell'avversario contro cui esso è rivolto, delle condizioni poste dal o dai digiunatori (alcuni dei digiuni gandhiani furono di questo tipo). Questa caratteristica tende a sua volta ad acuire quella coercitiva.
In quanto e nella misura in cui nel digiuno politico sono presenti queste due caratteristiche della coazione e della irreversibilità, esso si presenta come un metodo di lotta che, almeno nell'ambito di un movimento sedicente nonviolento, deve essere preparato con la più grande attenzione, assicurandosi, sulla base di una chiarissima formulazione della concezione nonviolenta di cui si è fautori, che esso presenti tutti quei requisiti che si ritengono essenziali di ogni azione nonviolenta. In modo particolare bisogna chiarire se per nonviolenza si intende semplicemente ogni metodo di lotta che non sia militare, o comunque esente soltanto da violenza fisica, oppure si intenda qualcosa di più. Occorre anche chiarire se vi siano forme di costrizione compatibili con la concezione nonviolenta che si propugna, ossia forme di costrizione nonviolenta, ed in caso di risposta affermativa stabilire le condizioni cui un digiuno politico deve soddisfare per risultare esente da forme di costrizione violenta.
Da ultimo vorrei sottolineare che, a mio avviso, il digiuno politico, in quanto distinto dal digiuno di protesta, dovrebbe essere usato soltanto come ultima ratio (come infatti fu sempre usato da Gandhi). Ciò, perché o esso si presenta con la caratteristica di irreversibilità cui ho accennato sopra, e allora è una cosa estremamente seria perché ne può andare della vita di chi digiuna e sottopone coloro verso i quali è diretto ad una grandissima responsabilità, oppure non si presenta con la caratteristica della irreversibilità, e allora, se viene usato troppo spesso, può facilmente avverarsi, come metteva in guardia Gandhi, che esso perda sempre di più la sua efficacia e finisca addirittura per cadere nel ridicolo.