SOMMARIO: Prosegue la pubblicazione degli interventi nel dibattito sulla nonviolenza e il digiuno aperto dal documento di Marco Pannella, Giovanni Negri e Luigi del Gatto (LR n.8-9).
Angelo Panebianco - opinionista del Corriere della Sera e membro del Consiglio federale del PR - rileva, a partire dall'esempio della strage di Tien An Men, la inservibilità della nonviolenza contro uno schieramento compatto e ferocemente determinato;
Alexander Langer - deputato verde al Parlamento europeo - afferma che il nonviolento deve essere disponibile a mettere in gioco non solo e tanto la sua salute quanto le proprie posizioni e la propria rigidità;
L'importanza della causa-obiettivo
Angelo Panebianco
Politologo, opinionista del Corriere della Sera, è stato iscritto al Pr e ha fatto parte, come membro eletto, del Consiglio federale
Alla richiesta di una valutazione sul ruolo che le tecniche della nonviolenza possono svolgere nella lotta politica risponderò con due osservazioni, la prima di carattere generale (sulla nonviolenza in sé), la seconda di carattere più specifico (sull'uso che della nonviolenza ha fatto o fa il Partito radicale nella politica italiana). Sul primo punto dirò che nulla può essere mitizzato da un laico, neanche la nonviolenza. Altrimenti ci si fa battere in laicità persino da Gandhi, il quale era consapevole che la nonviolenza poteva servire al popolo indiano contro la democrazia britannica (il conto, politico e culturale, di sparare su masse inermi rischiava di essere altissimo per qualsiasi governo britannico) ma sarebbe stato uno strumento inservibile contro Hitler e le SS. Ciò che intendo dire è che la valutazione sulla possibilità di usare o non usare le tecniche nonviolente della disobbedienza civile non è una questione di principio ma di opportunità, che richiede, di volta in volta, un'analisi costi/benefi
ci e un esame della situazione in cui ci si trova immersi. Faccio un esempio. Piazza Tien An Men può essere letta come un caso paradigmatico di applicazione di una strategia nonviolenta che ha successo fin quando la configurazione delle forze in campo è di un certo tipo ma che porta alla catastrofe quando la configurazione delle forze cambia. Fin quando la lotta all'interno del Partito comunista cinese resta aperta Tien An Men svolge un ruolo importantissimo, contribuisce simultaneamente a indebolire e a paralizzare il potere totalitario. Quando però cambia la congiuntura politica, quando il gioco delle fazioni all'interno del partito si risolve a danno del segretario aperturista e a favore dei duri, in quello stesso momento la strategia nonviolenta perde qualsiasi valore. L'esito è ormai scontato. Da quel momento in poi l'unica incertezza riguarda solo il numero dei cadaveri che resteranno sul terreno quando verrà dato l'ordine del fuoco a volontà. L'esempio tragico di Tien An Men, o anche i rapporti fra Ga
ndhi e la democrazia britannica, ci aiutano a capire quale è la regola che, anche in situazioni molto meno drammatiche, decreta il successo o l'insuccesso della strategia nonviolenta. Si intende che uso l'espressione "nonviolenza" con riferimento all'uso sistematico delle tecniche della disobbedienza civile e non, semplicemente, dei normali strumenti, non violenti, della lotta politica democratica. La regola può essere così enunciata: la principale condizione del successo è data dal grado di divisioni che il nonviolento sa creare/alimentare all'interno dello schieramento avversario. Se lo schieramento avversario è diviso il nonviolento può sfruttare le divisioni, può giocare, come si diceva un tempo, sulle "contraddizioni" altrui. Se lo schieramento avversario è compatto la nonviolenza (nel senso stretto del termine) è inservibile e porta chi ne fa uso (è il caso del digiuno, ad esempio) al fallimento. Ma perchè lo schieramento avversario si divida occorre, in primo luogo, che la strategia nonviolenta sia po
sta al servizio di una battaglia dai contenuti chiari e precisi, sia finalizzata alla vittoria su un problema specifico e sul quale, almeno astrattamente, la vittoria è possibile. La strategia nonviolenta richiede, per avere successo, che una parte almeno dello schieramento ufficialmente avversario simpatizzi per la causa (l'obiettivo) per cui il nonviolento si batte. Infatti, non si simpatizza per il nonviolento (non c'è alcun motivo per farlo), si può simpatizzare per la sua causa-obiettivo. E' un fatto che il Partito radicale ha riscosso i suoi maggiori successi nelle fasi in cui ha combattuto battaglie che in Italia sono sempre riuscite ad attivare estese simpatie e a dividere gli "schieramenti" avversari. Ed è un fatto che lo stesso Partito radicale ha visto logorarsi i suoi strumenti d'azione quando si è dedicato a cause-obiettivo diverse (la fame nel mondo, la politica transnazionale), incapaci, per loro natura, di suscitare simpatie (autentiche, non di pura facciata) e di creare divisioni. So bene ch
e molti radicali non la pensano così. Essi pensano che tutto dipenda, non dalla natura della causa-obiettivo che di volta in volta si sceglie, ma dal fatto che sono venute meno le condizioni di sussistenza di una autentica democrazia in Italia. Non intendo impegnarmi in una discussione, che sarebbe davvero lunga, su questo punto (che cosa è una "democrazia"? In quale luogo della terra è possibile, nel senso forte dell'espressione, "conoscere per deliberare"?). Constato semplicemente l'esistenza di una diversa valutazione che, a sua volta, discende da un diverso giudizio sullo stato della democrazia in Italia. E qui dunque mi fermo. Convinto però che in questo Paese, secondo me molto "democratico" e molto poco liberale, o sono i radicali ad assumersi la difesa dei diritti individuali di libertà oppure non lo fa proprio nessuno.
Trovare parole e forme
Alexander Langer
Ambientalista, deputato verde al Parlamento europeo, é stato iscritto al Partito radicale
Per essere "forti" in un'azione nonviolenta ci si deve realmente mettere in gioco: bisogna davvero rischiare. Non solo e non tanto il deperimento della salute in un digiuno o le aggressioni della polizia in un sit-in, ma soprattutto qualcosa delle proprie posizioni e rigidità. Quando invece l'azione nonviolenta viene concepita da chi la promuove e da chi vi assiste come semplice "megafono" di posizioni precostituite, quasi come uno strumento per mettere in mora qualcun altro senza davvero rischiare di lasciarsene anche trasformare (attenti solo a contare le righe di giornale o di secondi di TV che l'azione "rende"), l'impatto nonviolenza corre il rischio di stemperarsi nell'ovvio, nel già visto, nel sospetto della strumentalizzazione. Mezzi estremi - quando lo sono, perchè non ogni azione nonviolenta comporta di per sé il ricorso a mezzi estremi - vengono compresi ed approvati solo quando si è di fronte ad una minaccia o ingiustizia davvero anch'essa estrema: il padre di famiglia disperato e senza casa che m
inaccia di buttarsi dal cornicione o il prigioniero che ricorre allo sciopero della fame hanno ben altra credibilità dalla loro parte che non i nostri digiuni elettorali.
Dico "nostri", perchè anche a me è capitato negli ultimi 10-12 anni di partecipare più volte a digiuni orientati a denunciare l'ingiusta esclusione dalla grande comunicazione (Tv, soprattutto) in occasione di competizioni elettorali o referendarie, e recentemente ho proposto (ed attuato, con circa 70 persone) un "digiuno propiziatorio" di una settimana, anch'esso rivolto ad un obiettivo fortemente elettorale: aprire un fronte di dialogo e di possibile iniziativa unitaria verde in occasione delle ultime elezioni europee. Anche se in quel caso il digiuno non voleva - esplicitamente è stato ribadito - essere rivolto contro nessuno e non puntava a mettere in mora altri, ma semplicemente a sottolineare e rendere più credibili la serietà e la profondità di un intento (convocazione di un "concilio verde"), si trattava pur sempre di un'azione assai legata alla contingente scadenza elettorale. Una sproporzione, mi sembrava, confrontandosi poche settimane dopo con i giovani della Piazza Tien An Men, per i quali la sco
perta del digiuno e della resistenza nonviolenta avveniva in ben altre condizioni e con ben altra drammaticità.
A proposito di "drammaticità": è naturale che l'azione nonviolenta punti alla drammatizzazione: è un'arma (pacifica!) dei poveri, che cerca di supplire almeno in piccolissima parte al gigantesco squilibrio creato e mantenuto dai padroni-ladroni dell'informazione e dello spettacolo, che sovranamente trasformano i non-eventi in eventi, e cancellano e sfigurano notizie ed eventi a loro piacere.
Ma proprio per questa ragione mi sembra necessario trovare parole e forme, gesti e metodi nuovi per dare forza all'iniziativa nonviolenta in Italia ed in Europa, puntando soprattutto a due cose: a iniziare che trasformino ed in un certo senso trasfigurino chi le fa e chi vi partecipa (costruendo un vincolo di solidarietà e di inter-azione forte) e ad una possibilità di aggregazione e di estensione comunicativa che offra anche ad altri la possibilità di intervenire, assumendo e condividendo responsabilità intorno a "grandi cause" (che sono poi quelle che legittimano e magari richiedono azioni persino auto-lesive).
Il sistema politico e dei mass-media in cui ci troviamo promette la massima informazione e comunicazione per alluvionarne poi invece i destinatari con messaggi composti da una miscela propagandistica di irrilevanza e di fraudolenza in favore dell'ovvio trionfante. Il digiuno, la manifestazione nonviolenta, il silenzio (così difficile da trasformarsi in grido percepibile) forse non sono più capaci di offrire una sorta di contraltare efficace, che aspiri anch'esso alla spettacolarità ed alla semplificazione, ma non per questo hanno perso la loro capacità di trasformare chi vi ricorre e di indicare un'altra qualità di verità e di democrazia. Non saranno antidoti capaci di svelenire la miscela, ma come gli studenti cinesi dovremo saper reggere anche oltre la momentanea sconfitta.
E forse potremo, per parte nostra, fare qualcosa perchè le nostre azioni da "unilaterali" e un po' predicatorie diventino davvero più comunicative: perchè non unire, per esempio, ad un digiuno anche l'invito a qualcuno degli interlocutori interpellati di fare con noi una lunga camminata, nel corso della quale ascoltarsi, litigarsi e forse trovare soluzioni?