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Agora' Agora - 16 ottobre 1990
L'ULTIMO DALAI LAMA
di Giovanni Negri

Giovanni Negri è deputato nel gruppo socialdemocratico, coordinatore dell'intergruppo parlamentare per il Tibet e membro del Consiglio federale del Partito radicale.

Lo scarno annuncio proveniente da Nuova Delhi, con il quale Tenzin Gyatso ha dichiarato al mondo la volonta' di essere l'ultimo Dalai Lama nella storia del Tibet e dell'umanita', ha sicuramente provocato profonda emozione e sconcerto nel popolo del "Paese delle nevi" e fra milioni di buddhisti sparsi nel mondo.

La stampa occidentale ha riservato grande attenzione all'evento, commentandolo con stupore e rispetto, rilevando come l'annuncio fosse accoppiato ad un secondo, apparente, atto di resa: la disponibilita' del Tibet - per bocca di colui che e' anche il suo leader politico in esilio - a trasformarsi non in uno Stato indipendente ma in regione autonoma, inserita nella Repubblica popolare cinese.

L'annuncio di fine luglio (data ormai cruciale nella storia del Tibet) appare dunque come un esplosivo combinato disposto, nel quale si sommano l'estinzione di una delle piu' alte istituzioni religiose dell'umanita' e la rinuncia a qualsiasi disegno di indipendenza del "Tetto del Mondo".

Ma se e' legittimo guardare al discorso di Nuova Delhi come a atto di definitiva rassegnazione di un popolo lungamente provato dall'estenuante confronto con il gigante di Pechino, ben piu' giusta appare l'interpretazione del passo del Dalai Lama in chiave di iniziativa nonviolenta internazionale, volta a scuotere il torpore della coscienza mondiale e ad imporre una concreta riapertura delle trattative attorno alla questione tibetana.

Un'iniziativa rivolta al Nord del mondo

A ben vedere il messaggio del XIV Dalai Lama e' in primo luogo rivolto al Nord del mondo: alle superpotenze che giocano un ruolo chiave alle Nazioni Unite; ai paesi occidentali che hanno silenziosamente acconsentito, dal 1950 ad oggi, al genocidio di oltre un milione di tibetani e alla distruzione di un patrimonio religioso, culturale ed artistico il cui valore e' equivalente a quello delle civilta' mediterranee. A costoro, ai potenti che come Bush e Gorbaciov debbono fare i conti (dentro e fuori casa) con le spinte fondamentaliste religiose, il Dalai lama di fatto ricorda il ruolo mite ma decisivo che il buddhismo svolge per la pace e la distensione in Asia.

In altre parole l'autoeliminazione politica religiosa di uno dei piu' alti simboli del buddhismo e dell'identita' tibetana, non sarebbero sopportabili ne' sullo sterminato altipiano del Tibet -vero cuore del travagliato continente asiatico - ne' in milioni di coscienze che si riconoscono in una filosofia religiosa priva di dogmi e sacri furori ma non per questo ininfluente. Dal messaggio del Dalai Lama e' infatti anche direttamente investita un'opinione pubblica del Nord del mondo dove il buddhismo si sta diffondendo e radicando, e con esso l'interesse per quel Tibet che ne e' una culla. Nel Nord libero dal muro e dalla guerra fredda, nell'occidente della fine delle ideologie, nei Paesi sviluppati dove si fa prepotente la domanda di valori, non e' casuale che molti - e fra questi spesso i piu' consapevoli - si volgano verso una filosofia della meditazione e verso un popolo affascinate, capaci di incarnare agli occhi occidentali il diverso, sotto la forma si una religione, un'astronomia, una medicina fondate

su un sapere ed una approccio alla conoscenza tanto vasti quanto estranei ai nostri.

IL XIV e forse ultimo Dalai Lama

Politicamente l'annuncio del XIV e forse ultimo Dalai Lama toglie definitivamente l'alibi della "teocrazia tibetana", del "potere feudale dei monaci", ovvero tutti i pregiudizi e le etichette negative che gli sono state affibbiate per giustificare l'in-differenza e fra queste la piu' ridicola: quella di "Re-Dio", laddove la sua religione non contempla la figura di Dio ed egli gia' oggi regna soltanto sui patimenti del proprio popolo.

Nessuno dopo l'annuncio di Delhi potra' affermare che lo scopo del Dalai Lama e' quello di "restaurare il feudalesimo medioevale monastico, felicemente soppiantato dalla modernizzazione socialista cinese"; e nessuno potra' ignorare la Costituzione democratica del Tibet in esilio e il suo Parlamento democraticamente eletto.

Ma oltre al Nord del mondo l'altro grande interlocutore del discorso del Dalai Lama e' proprio il piu' diretto avversario, l'uomo di Tien an Men, il gigante dai piedi d'argilla. In una sfida tutta a distanza i tibetani hanno saputo ascoltare il vento nuovo, determinato dai non pochi problemi che angustiano il padrone di Pechino: alle sue frontiere la democrazia si afferma, seppure lentamente, in Mongolia e in Nepal. All'interno Deng deve misurarsi non solo con il dissenso e la questione tibetana ma con il Turkestan cinese e la Mongolia interna, regioni immense nelle quali ribolle una tensione pari a quella dei nazionalismi che sventrano l'impero sovietico.

Anche a Deng il Dalai Lama toglie un alibi; rinuncia solennemente ad ogni potere temporale e alle pretese di indipendenza, offrendo l'integrazione in una nuova Cina.

Una prova di umilta'

E' una prova di umilta' (il Tibet storicamente e' del tutto estraneo alla Cina, con invece rapporti preferenziali o di affinita' con i mongoli) ma sopratutto una risposta sin d'ora federalista ai nazionalismi che potenzialmente minacciano Pechino. Il rifiuto di Deng di sedersi al tavolo delle trattative ora suonerebbe stridente e poco lungimirante. Ma la prospettiva tracciata dal Dalai Lama ha altresi un valore strategico che non puo' sfuggire agli osservatori internazionali: un Tibet zona-cuscino di pace, tempio della spiritualita' buddhista ma retto da autonome istituzioni democratiche, posto nel cuore del continente dove probabilmente si giocheranno, nel nuovo millennio, i destini del mondo.

Da saggio leader politico-religioso

Tenzin Gyatso, 14a reincarnazione del I Dalai Lama Gedun Trupa, dal 1931 grande maestro della scuola buddhista Gelugpa, ritenuto ancor oggi da milioni di uomini anche la reincarnazione del Buddha, della compassione e della protezione del Paese delle Nevi, ha insomma compiuto un grande passo.

Come il V e come il XIII Dalai Lama, egli forse meritera' di essere un giorno chiamato "il grande XIV".

Quel che e' certo, e' che non solo da autentico premio Nobel per la pace, ma da saggio leader politico-religioso sta affrontando la piu' difficile opera pur di guidare il suo popolo attraverso la bufera della diaspora e della violenza, verso la montagna promessa. E cio' che e' altrettanto certo, e' che bisogno di aiuto, come tutti gli uomini che sono forti e non temono di mostrare la propria fragilita'.

 
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