di Livio Caputo
SOMMARIO: L'Unione europea deve porsi pochi, ma buoni, obiettivi di fondo: fra questi una crescita economica stabile e omogenea, l'incremento dell'occupazione, la semplificazione della macchina decisionale, il consolidamento della politica estera comune. Per conseguirli occorre da un lato uno snellimento degli organismi istituzionali, dall'altro un rapido processo di liberalizzazione del mercati. (Il Mulino, n·2-1994, serie MulinEuropa)
L'avvicinarsi della scadenza della Conferenza intergovernativa del 1996 ha offerto l'occasione per ravvivare il dibattito sulla costruzione europea che si era quasi ibernato dopo i negoziati del Trattato di Maastricht e le peripezie per la sua ratifica da parte di diversi Stati membri. Uno stato d'animo di tipo »euroscettico ha in effetti pervaso l'opinione pubblica del continente nel corso degli ultimi due anni, euroscetticismo dal quale ci si sta riprendendo solo ora. La recessione che ha colpito l'Europa tra il 1991 e il 1993 ha certamente giocato un ruolo importante nell'alimentarlo. E infatti più facile parlare di costruzione europea quando le economie tirano, mentre le recessioni, inevitabilmente, inducono gli Stati a ripiegarsi su se stessi e a restringere i propri orizzonti politici.
Sarebbe tuttavia un errore ascrivere il raffreddamento dell'opinione pubblica europea nei riguardi degli affari dell'Unione esclusivamente alla recessione. La crisi di legittimità attraversata dall'Unione nella fase del dopo Maastricht ha motivazioni politiche più profonde, che toccano da vicino la sua stessa identità. Quest'ultima, non v'è dubbio, è stata in parte sconvolta dai mutamenti repentini del quadro internazionale occorsi negli ultimi anni. E mi riferisco qui soprattutto al crollo del regimi comunisti in Europa, che ha messo in moto trasformazioni politiche, economiche e culturali di portata tale da non poter non rimettere in discussione le finalità dell'azione dell'Unione europea stessa, la sua raison d'être. Ed è quest'ultima che va oggi ritrovata, adattando Maastricht al nuovo contesto storico. Questa è la grande sfida che ci attende per il 1996. Se non veniamo a capo di questo che mi sembra sia il nodo principale, e cioè la ridefinizione dell'identità dell'Unione europea del XXI secolo, non ris
olveremo nemmeno il problema della crisi di legittimità, del gap esistente tra l'Unione e l'opinione pubblica. E' bene essere consci che l'attuale ripresa economica è di per sé condizione facilitante, ma non sufficiente per colmare tale gap. I cittadini non parteciperanno alla costruzione dell'edificio europeo senza capire e conoscere prima i progetti dell'architetto.
Geometrie variabili e nuclei duri
In questo sforzo di ridefinizione del carattere e delle identità dell'Unione europea, le recenti diatribe sulle ipotesi secondo cui questa debba costruirsi a »geometria variabile , o »à la carte oppure se debba presupporre un »nocciolo duro di paesi che possano fare da locomotiva - secondo quanto suggeríto da ultimo dal documento della Cdu tedesca - risultano di scarsa utilità e sono persino fuorvianti. Mi spiego. E evidente che non possiamo immaginare l'Unione europea allargata, fino a venti e più membri nei prossimi dieci anni, senza prevedere un certo grado di flessibilità.
Non ci si può immaginare che paesi di tradizioni politiche, culturali, economiche e di schieramento assai diverse tra loro possano impegnarsi a partecipare, allo stesso livello, a tutte le attività dell'Unione. La flessibilità è del resto già una realtà di fatto nell'Unione, come dimostrano gli opts-out di Gran Bretagna e Danimarca sui capitoli dell'Unione economica e monetaria e la Carta sociale. La flessibilità è insomma una necessità oggettiva e non la scopriamo certo oggi: fino a poco tempo fa la si chiamava semplicemente »periodo transitorio . Ciò che è importante è invece che essa non sia posta in antitesi con il consolidamento di un'identità comune dell'Unione; problema, che, ripeto, è lo scopo principale che dobbiamo porci negli anni a venire.
E grave difetto del documento partorito dalla Cdu era tra l'altro quello di dividere - con quel tocco di immancabile rudesse germanque que - l'Unione europea in paesi di serie A e di serie B, sulla base dell'esclusivo metro del loro stato di salute economico-fínanziaria. Ma l'Unione è una realtà assai più complessa e multidimensionale di quanto pensi la Cdu. Cercare di ricondurla alla realizzazione da parte dei singoli paesi di alcuni parametri economici, per quanto importanti, significa avvilirne la ragion d'essere. Individuare sulla base di tali parametri una élite di paesi che potranno fare l'Europa del futuro, ignorando il resto, è una sorta di quick fix, che allontana la soluzione del problema reale, cioè della definizione di alcuni obiettivi storici dell'Unione che siano comuni, nei limiti del possibile, a tutti o almeno alla maggior parte dei suoi membri. Insomma, se dobbiamo indicare dei »noccioli duri essi devono essere aperti, come ha indicato il premier britannico Major, e costruiti intorno a un
disegno politico anziché a un gruppo di paesi.
L'Unione del futuro
Nel prossimo futuro l'Unione dovrà porsi obiettivi il più possibile pragmatici, realizzabili, e possibilmente limitati nel numero. Pauca sed bona. concreti e rea
Il meccanismo dell'unanimità per l'adozione delle decisioni, che governerà anche la Conferenza del 1996, non consente di avventurarsi in disegni vaghi di stampo federalista, tra l'altro poco popolari sia in Occidente, sia nell'Europa centro-orientale, dove la gente ha troppo di recente scoperto l'irresistibile gusto di possedere un'identità nazionale. Ha ragione G. Mammarella nell'affermare che una federazione europea con un governo sovranazionale »non è né per l'oggi né per il domani , mentre »una cooperazione sempre più stretta ed estesa a nuovi settori nell'ambito di un'Unione aperta a un numero sempre maggiore di Stati è realística e prevedibile .
Alcuni obiettivi concreti con cui potremmo definire la raison d'être dell'Unione nei prossimi anni sono:
a) una crescita economica stabile e omogenea - nel quadro del completamento del mercato unico - e che abbia riflessi tangibili anche sull'occupazione;
b) la semplificazione »democratizzante della macchina decisionale dell'Unione;
c) il consolidamento della politica estera e di difesa comuni; d) uno sviluppo della collaborazione in materia di giustizia e affari interni, il cosiddetto terzo pilastro dell'Unione (ovverosia lotta alla criminalità transnazionale);
e) la riforma della Pac.
a) Crescita e occupazione. E forse questo il principale metro su cui le opinioni pubbliche giudicheranno l'efficacia delle politiche dell'Unione nei prossimi anni. Alla crisi di legittimità di quest'ultima ha certo contribuito l'aumento della disoccupazione sul continente, che è stato continuo negli ultimi venti anni. Dal 2,5 per cento verso la fine degli anni Sessanta, la disoccupazione nell'Unione è arrivata oggi a superare il 10 per cento. L'esperienza dei maggiori concorrenti dell'Unione, in particolare Nord America e Giappone, è stata invece ben diversa, avendo essi registrato una significativa crescita dell'occupazione in questo periodo. E evidente che qualcosa da noi non quadra. E non è nemmeno troppo difficile scoprire questo »qualcosa . Basta constatare che la maggior parte dei nuovi posti di lavoro nei paesi nostri concorrenti sono stati creati nel settore privato produttivo, mentre m Europa la gran parte dei nuovi occupati fa riferimento al settore pubblico.
E' evidente quindi che ciò di cui necessita l'Europa è un rilancio del settore produttivo privato, attraverso politiche incoraggianti e non invadenti, cioè seguendo un approccio il più possibile non burocratico e non centralizzato. Alcuni strumenti a tal fine sono già stati identificati o sono in fase di perfezionamento. E Libro bianco su »Crescita, competitività e occupazione messo a punto dalla Commissione nel dicembre del 1993 - e che mette l'accento sulla necessità di liberalizzare il mercato del lavoro - rappresenta un importante contributo all'identifícazione di principi e strumenti che dovranno guidare il risanamento dell'economia europea.
Tra gli strumenti concreti a cui dovremo tuttavia rivolgere un'attenzione prioritaria ritengo vi sia soprattutto la cosiddetta »deregolamentazione delle economie europee, da attuare sia a livello comunitario sia a livello nazionale, onde liberare l'industria e le altre attività economiche dalla miriade di opprimenti »lacci e lacciuoli . L'attuale presidenza tedesca dell'Unione, su iniziativa del ministro per l'Economia, Rexrodt, ha già istituito un comitato ad hoc per la deregolamentazione, i cui lavori andranno seguiti con particolare attenzione, sebbene-occorre purtroppo riconoscere - non tutti i suoi membri risultano di provata fede liberista.
Il principio da affermare è il seguente: occorre riconsiderare sul piano normativo e regolamentare tutte quelle disposizioni che riteniamo non siano più strettamente necessarie a disciplinare attività di carattere economico, amministrativo e sociale, al fine di procedere a una loro eliminazione o almeno nazionalizzazione. Si dovrà insomma studiare una semplificazione delle procedure amministrative che facilitino gli investimenti produttivi, l'apertura alla concorrenza e all'iniziativa privata di quei settori che sono stati tradizionalmente riservati all'intervento pubblico (sistema ferroviario, postale, ecc.) e cosi via.
Un discorso a parte merita la deregolamentazione del mercato del lavoro, che va perseguita con particolare vigore. Si potrebbe creare un maggior numero di posti di lavoro se stipendi e pratiche lavorative fossero meglio in grado di rispondere rapidamente alle esigenze del mercato e del rendimento delle imprese. Alcune normative base sull'occupazione sono necessarie e vanno certamente salvaguardate (sanità, sicurezza sul posto del lavoro, ecc.). Ma è altrettanto vero che normative non necessarie e troppo garantiste rischiano di danneggiare gli interessi delle stesse categorie che si vogliono proteggere. Per creare ricchezza e occupazione sul continente occorre infatti che la nostra industria recuperi competitività nei confronti del paesi asiatici e del Nord America, che da tempo beneficiano di costi della manodopera troppo inferiori ai nostri. Né possiamo, con il futuro allargamento dell'Unione a Est, correre il rischio di una massiccia delocalizzazione delle nostre industrie, a cui andremo incontro se il nos
tro mercato del lavoro non sarà reso più flessibile: i paesi Peco dispongono infatti di abbondante manodopera qualificata e a basso costo, condizione che potrebbe indurre le nostre produzioni a »Migrare a Est.
b) Semplificazione e democratizzazione della macchina comunitaria. L'Europa allargata non potrà funzionare conservando gli attuali meccanismi e strutture decisionali. Anche qui c'è bisogno di una nazionalizzazione, che oltre a rispondere a esigenze di funzionalità, possa nel contempo essere democratizzante, capace dì favorire cioè l'avvicinamento tra cittadini e istituzioni dell'Unione.
Per quanto concerne le istituzioni, la Conferenza del 1996 dovrà innanzitutto ridiscutere il formato della Commissione. Con l'entrata dei paesi Efta nell'Unione, a partire dal 1 gennaio 1995, la Commissione, come noto, si allargherà a 21 membri, una struttura troppo ingombrante, che poco si addice a un organismo esecutivo e che va pertanto snellita. Una soluzione da considerare a tale proposito potrebbe consistere nella rinuncia da parte degli Stati grandi al diritto di avere due commissari ciascuno, accontentandosi invece di un solo commissario. Per gli Stati minori, d'altra parte, si potrebbe pensare a una rappresentanza »di gruppo all'interno dell'esecutivo comunitario. E ridimensionamento numerico della Commissione potrebbe procedere parallelamente a una più efficiente strutturazione delle sue competenze, soprattutto quelle economiche, attualmente troppo frazionate, e che andrebbero invece ricompattate. Va da sé che la nazionalizzazione della Commissione avrebbe effetti positivi anche sull'immagine di q
uest'ultima presso l'opinione pubblica, oggi offuscata dal suo »iperburocratismo . Effetti nel contempo di maggiore funzionalità istituzionale e democratizzanti avrebbe anche l'attivazione di un rapporto più stretto tra Parlamenti nazionali e Parlamento europeo, sulla base di quanto già suggerito dallo stesso Trattato di Maastricht.
Sul piano delle procedure, c'è invece da risolvere soprattutt o un problema di semplificazione dell'attuale sistema di produzione legislativa, spesso confuso e farraginoso. Occorrerebbe al riguardo alleggerire le procedure di codecisione che coinvolgono oggi Parlamento europeo e Consiglio e che - nate con il proposito positivo di coinvolgere maggiormente l'Assemblea di Strasburgo nel processo decisionale - si sono tramutate in un ostacolo alla rapida adozione delle decisioni. Un correttivo potrebbe essere individuato nella definizione di una nuova »gerarchia delle norme comunitaria, all'interno della quale l'intervento in fase di codecisione da parte del Parlamento venga previsto soltanto per le leggi-quadro, di carattere generale, ed escluso invece per quelle di dettaglio, da lasciare all'adozione esclusiva del Consiglio, o, in quel casi in cui lo strumento regolamentare è di per sé sufficiente, alla Commissione.
Per quanto concerne sempre i meccanismi decisionale, l'Europa allargata avrà inevitabilmente bisogno anche di un maggior ricorso alle votazioni a maggioranza. E rischio sarebbe - se mantenessimo le regole attuali - quello della paralisi del processo decisionale. Ma è questo solo un aspetto del problema, quello, diciamo, funzionale. L'altro, non meno importante, da tenere sempre in considerazione è quello relativo alla »democratizzazione del sistema. Occorrerà cioè considerare la necessità di legare maggiormente i meccanismi di voto alla dimensione dei singoli paesi, in termini di popolazione onde evitare di indebolire il »senso di appartenenza dei cittadini dell'Unione. Le regole attuali attribuiscono un peso sproporzionato ai paesi piccoli. La Germania, ad esempio, dispone nel Consiglio di 10 voti (1 voto per ogni otto milioni di abitanti), mentre il Lussemburgo, con due voti, ha una ratio di un voto per ogni 180 mila abitanti. Con l'ingresso dei nuovi paesi di dimensioni medio-piccole tale squilibrio si
aggraverà ulteriormente. La soluzione al problema può essere trovata nell'introduzione del criterio della maggioranza »ponderata , che consentirebbe l'adozione da parte del Consiglio delle decisioni a maggioranza dei voti solo quando quest'ultima rappresenti anche la maggioranza della popolazione dell'Unione.
Quando affrontiamo il problema di quella che ho definito la razionalizzazione »democratizzante della macchina comunitaria, uno degli aspetti cen~ trali è infine quello della sussidíarietà, cioè di una più logica e trasparente ripartizione delle competenze tra Unione e Stati membri. L'Unione, in altre parole, deve integrare - laddove necessario - le azioni intraprese dagli Stati membri, anziché tentare di sostituirsi o accavallarsi a essi. L'articolo 3b del trattato di Maastricht, è vero, già riconosce in linea di principio tale esigenza, ma il problema - di meno facile soluzione - è adesso quello di metterla in pratica. Sarà qui necessaria un'attiva e onesta collaborazione tra la Commissione e gli Stati membri, per stabilire oggettivamente in quali casi l'azione dell'Unione si rivela più efficace di quella degli Stati, e viceversa. Gran Bretagna, Germania e Francia hanno avuto finora un ruolo di primo piano in tale esercizio, e sarebbe bene che anche l'Italia mostrasse spirito d'iniziativa, anche nell'ottic
a di una salvaguardia ottimale dei propri interessi nazionali.
c) Politica estera e di difesa comuni'. La necessità di un'Unione che investa i settori della politica estera e di difesa comuni è oggi più viva che mai. E crollo del comunismo a Est non ha certo liberato l'Europa dal bisogno di premunirsi contro altre minacce, oggi più sottili, ma anche più diffuse e, come tali, forse più insidiose. Basti pensare al caso jugoslavo per avere un'idea di come un certo tipo di nazionalismo possa essere anche più destabilizzante del comunismo, o alla minaccia del fondamentalismo islamico, che pende come una spada di Damocle sulla stabilità del Mediterraneo.
Le basi per una politica estera e di difesa comuni (Pesc) sono state gettate dal trattato di Maastricht e non dobbiamo quindi crearle dal nulla. Un embrione di politica estera comune europea già esiste, e ha ragione qui Arrigo Levi nell'osservare che se è vero che l'Unione europea non è stata capace di arrestare la crisi balcanica, è altrettanto vero che se essa non fosse esistita per nulla, »l'esplosíone della Jugoslavia sarebbe diventata di nuovo occasione per uno scontro tra i grandi Stati europei, con Sarajevo nuova possibile causa di una grande guerra .
Per rendere la Pesc più efficace in futuro occorrerà tuttavia dotarla di nuovi strumenti, sia diplomatici che militari. Sul piano diplomatico si potrebbe pensare a un nuovo organo, diciamo un Segretariato, che funzioni nello stesso tempo da centro propulsore e da braccio esecutivo del Consiglio. Ma ciò non può bastare. Occorre anche accelerare l'integrazíone della Ueo nell'Unione, come suggerito dallo stesso trattato di Maastricht, e approntare strumenti militari concreti, come gli »eurocorpí franco-tedeschi o il progetto italofranco-spagnolo per la creazione di una forza di rapido impiego. Il momento oggi è particolarmente propizio. Non solo per l'atteggiamento di apertura dimostrato di recente dagli Usa circa una divisione di compiti tra Nato e Ueo per la difesa dell'Europa. Abbiamo infatti oggi anche l'opportunità di associare alle iniziative della Pesc i paesi Peco, la cui domanda di sicurezza, dopo il crollo del Patto di Varsavia, è rimasta parzialmente insoddisfatta, malgrado il piano »Partnership for
Peace . L'iniziativa italo-britannica rivolta a tali paesi può funzionare a tale proposito da efficace rompighiaccio. Ma non dobbiamo però nasconderci che l'ingresso nel gennaio 1995 di Svezia, Finlandia e Austria porrà all'Unione alcuni non semplici problemi di »adattamento della Pesc alla specialità del loro status di paesi neutrali. Nel prossimo futuro occorrerà anche mettere a fuoco con maggiore concretezza l'attenzione sulla »dimensione mediterranea della sicurezza, visto e considerato che è la minaccia da Sud ad apparire oggi la più preoccupante, almeno dal punto di vista militare (e terroristico).
d) La cooperazione nel »terzo pílastro . La sicurezza dell'Europa, comunque, è oggi un problema più complesso e non assimilabile soltanto a concetti militari. La criminalità organizzata, il traffico di droga e di materiali nucleari, il riciclaggio di danaro sporco possono alla lunga rivelarsi fattori tanto destabilizzanti quanto lo era ieri l'Armata rossa. Anche qui dobbiamo meglio sviluppare gli strumenti di cui disponiamo onde costruire una efficace rete di protezione. Mi riferisco in particolare alla collaborazione tra paesi europei nel cosiddetto »terzo pilastro (affari interni e giustizia).
Abbiamo ad esempio il progetto per la creazione dell'Europol, che va portato avanti con coerenza e la prospettiva di coinvolgere anche i Peco nella soluzione di problemi che preoccupano tutti. Finora forse è mancata una sufficiente volontà politica a collaborare in tali settori tradizionalmente considerati domaine reservé degli Stati nazionali. Il fatto che la criminalità stia divenendo sempre più un problema »senza frontiere dovrebbe tuttavia indurre gli Stati a moderare tali reticenze, come indica del resto l'iniziativa dell'Onu di organizzare prossimamente una conferenza mondiale sull'argomento a Napoli.
e) La riforma della Pac. Le dimensioni della politica agricola comune sono un anacronismo storico. E difficilmente accettabile che l'Unione debba continuare a devolvere oltre la metà del proprio bilancio ad un settore che, per quanto importante, è da tempo non determinante nelle nostre economie industriali avanzate. I dati Ocse ci danno una mano a chiarire quest'assurdità.
Nel 1993 la Pac è costata a ciascun cittadino comunitario ben 385 dollari Usa; il che significa che abbiamo assicurato con i nostri contributi un sussidio medio di 15.400 dollari Usa a ogni attività lavorativa impiegata fulltime in agricoltura (anche se, per la nota storia dei polli di Trilussa, questi non sono certo stati distribuiti equamente). Nessuno dei lavoratori impiegati m altri settori dell'economia gode nemmeno alla lontana di un simile trattamento con »i guanti . A ciò si aggiunga il fatto, anche fin troppo noto per insistervi, che i meccanismi di protezione della Pac hanno favorito nettamente i prodotti delle regioni del Nord economicamente più forti (cereali, prodotti lattierocaseari) a discapito dei prodotti tipici delle regioni più sfavorite, i cosiddetti »prodotti mediterraneo. E ciò ha quasi colorito la Pac di tinte orwelliane, creando un universo in cui »tuttí gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri . E pacchetto di misure ideate dal commissario Mac Sharry due anni fa
è stato realizzato solo in parte con i suoi meccanismi della messa a riposo dei terreni (set-aside) e la parziale riduzione dei prezzi agricoli, e ciò non ha risolto il problema della riforma strutturale della Pac, ma lo ha soltanto rinviato. Oggi, tuttavia, le responsabilità dell'Unione in sede Gatt e la prospettiva dell'allargamento a Est rendono improrogabile l'esigenza di tale riforma. Da un lato, infatti, se mantenessímo in vigore i meccanismi attuali di sostegno ai prezzi agricoli, estendendoli anche ai Peco, provocheremmo il collasso delle finanze dell'Unione, visto che questi ultimi risultano due volte e mezzo maggiormente dipendente dal settore agricolo rispetto agli attuali Stati membrí. E stato calcolato, ad esempio, che l'ingresso di Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia (senza contare gli altri paesi dell'Est che dovrebbero seguire a questa) comporterebbe un aumento del 75 per cento delle spese agricole e per fondi strutturali dell'Unione. Dall'altro lato, non possiamo nemmeno realist
icamente pensare di escludere per periodi troppo lunghi tali paesi da quello che resta un settore centrale della politica dell'Unione. Insomma, non c'è via di uscita a una riforma della Pac, che vada nella direzione di una riduzione del sostegno al prezzi agricoli e che prenda in maggior considerazione gli interessi anche dei consumatori e dei contribuenti. Sarà poi il caso che la nuova Pac dia maggiore considerazione agli interessi dei produttori mediterranei, fino a oggi penalizzati rispetto a quelli continentali.
Un futuro delle Comunítà?
L'evoluzione del quadro internazionale negli ultimi anni, è vero, ha creato all'Unione seri problemi di auto-Identità, ma le ha anche aperto nuovi orizzonti e opportunità politiche ed economiche da sfruttare.
Il raggiungimento degli obiettivi sopraindicati per l'Europa del futuro richiederà dunque un forte impegno da parte di tutti i governi europei, e, in particolare dell'Italia, sotto la cui presidenza si apriranno i lavori della Conferenza del 1996.
Il fine ultimo della nostra azione dovrà essere la creazione di uno spazio economico sul continente che consenta al massimo numero di persone di godere della massima prosperità. A tal fine un settore chiave su cui puntare è quello delle imprese medio-piccole, che in tutta Europa rappresentano l'asse portante dell'economi e dove noi italiani abbiamo qualcosa in più da insegnare agli altri.
Ma è nell'interesse di tutti anche che l'Europa del futuro sia politicamente stabile e con una più forte personalità in campo internazionale. Bisognerà inoltre assicurare che l'allargamento a Nord e a Est non finisca per schiacciare la dimensione mediterranea dell'Unione, a cui l'Italía in particolare non può rinunciare, nel rispetto delle proprie tradizioni di politica estera. Un paese come Malta, per esempio, guarda all'Italia come al suo naturale ancoraggio europeo, e sarebbe un gravissimo errore deluderlo.
Concludo con una giusta questione posta di recente da Maurice Duverger: »Il XXI secolo sarà il secolo delle Comunità come il XV secolo fu quello degli Stati e il V avanti Cristo quello delle città-Stato? . Una risposta potremo darla solo tra qualche decennio. Ma una cosa è certa: stiamo assistendo, dovunque nel mondo, alla creazione di grandi comunità economiche (la Nafta, il Mercosur, tra i paesi dell'America Latina, la Apec tra i paesi Asean, ecc.), che inevitabilmente assumeranno anche un crescente peso politico nei rapporti internazionali.
E di fronte a questa sfida l'Unione non dovrà farsi cogliere impreparata.