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Aglietta Adelaide, Parlamento Europeo, Commissione Istituzionale - 10 gennaio 1995
PE 1996: revisione del Trattato

DOCUMENTO DI LAVORO SULLA REVISIONE DEL TRATTATO

Redattrice: on. Adelaide AGLIETTA (Verdi, Italia)

SOMMARIO: Il metodo da usare per la revisione dei Trattati nel 1996 è una specie di questione preliminare nella misura in cui le proposte del PE sulla riforma 1996 possono essere prese in considerazione. Il PE deve quindi decidere se fare o meno di questo punto un elemento essenziale della sua strategia anche nel quadro della sua partecipazione al Gruppo di Riflessione. La risoluzione che la Commissione istituzionale sottoporrà al PE per il Gruppo di Riflessione deve, secondo la relatrice, contenere una serie di proposte sul metodo per la revisione del 1996 e sull'Articolo N. (PE, Bruxelles, 10 gennaio 1995)

1. Nonostante la diffusa consapevolezza dello stato di crisi del processo di integrazione europea, le crescenti divisioni tra gli stati membri sul futuro dell'Unione e i rischi di rinazionalizzazione delle politiche comunitarie, la forte spinta verso un ulteriore allargamento che porterà al raddoppio dei membri dell'Unione entro pochi anni, ci si sta avviando verso la revisione del Trattato di Maastricht con lo stesso metodo della CIG svoltasi nel 1991.

Eppure è già evidente oggi che nel 1996 non ci si potrà limitare a rivedere i pochi punti menzionati dal Trattato: è ormai indilazionabile operare delle scelte sugli obbiettivi dell'Unione e trovare delle soluzioni istituzionali capaci di garantirne la governabilità e il carattere democratico.

Noi riteniamo che, oltre al contenuto e alla forma della revisione, il PE debba porre con forza il problema del metodo della revisione, indicando subito che il suo successo dipende anche dalla capacità delle istituzioni dell'Unione e degli stati membri di imparare la lezione del Trattato di Maastricht: questo in concreto significa condurre un negoziato aperto su scelte chiare, associarvi strettamente il Parlamento Europeo e trovare le forme più adeguate affinché l'unanimità richiesta dall'art. N non costringa tutti a conformarsi a dei compromessi mediocri.

2. L'Unione Europea è retta da un ordine giuridico "sui generis", che differisce in modo sostanziale da quello delle altre organizzazioni internazionali esistenti; anche se non è un sistema "federale" vero e proprio e pur presentando ancora degli elementi di ambiguità, l'ordinamento comunitario è fondato su delle basi "costituzionali" che si sono gradualmente formate a partire dai Trattati di Parigi e di Roma e si sono consolidate con l'Atto Unico e il Trattato di Maastricht.

L'Unione dispone di istituzioni e di regole, quali la preminenza del diritto comunitario, la personalità giuridica, le risorse proprie che non sono la risultante della sola volontà dei governi; l'Unione produce norme e decisioni che coinvolgono profondamente la vita, l'attività e i diritti dei cittadini.

Dunque, anche le procedure di revisione di questo ordinamento indipendente da quelli degli stati membri dovrebbero essere diverse da quelle previste dal diritto internazionale e cioè il negoziato diplomatico tra rappresentanti dei governi degli stati membri. Inoltre, in tutte le nostre democrazie, la modifica delle basi costituzionali è condotta dal Parlamento oppure da Assemblee costituzionali "ad hoc" che rappresentano l'insieme dei cittadini.

Fino ad ora la trasposizione di questa regola elementare della democrazia a livello europeo è stata fortemente osteggiata da coloro che paventano l'istituzione di un "superstato", non credono in una "democrazia sovranazionale" e dunque non accettano di istituire una assemblea ad hoc o di dare al PE il compito di definire i principi costituzionali e gli obbiettivi dell'Unione. Questa strada è spesso considerata irrealistica anche da coloro che pur essendo favorevoli ad un rafforzamento delle istituzioni e del ruolo dell'Unione, ritengono che i governi degli stati membri non potrebbero mai accettare di spogliarsi della propria autonomia di decisione in un campo cosi vitale; vi è infine chi sostiene che l'assoluta originalità della costruzione europea non permette di adattarvi "sic et sempliciter" le regole vigenti all'interno di uno stato.

3. Eppure l'inadeguatezza di un metodo puramente intergovernativo per la riforma della Comunità Europea è emersa chiaramente durante il processo che ha portato alla ratifica del trattato di Maastricht; il risultato dei negoziati, un testo spesso incoerente e macchinoso, ambiguo sulla finalità dell'Unione e incomprensibile ai non addetti ai lavori, ha messo in evidenza l'urgenza e la necessità che la procedura di revisione dell'ordinamento comunitario risponda a criteri di democrazia e trasparenza.

Da cio' deriva che gli "attori" della riforma non devono solo essere i rappresentanti dei governi, ma anche i rappresentanti democraticamente eletti dei cittadini e, attraverso l'organizzazione di una adeguata informazione e di un ampio dibattito, i cittadini stessi.

4. Inoltre, l'esperienza ci dimostra che l'efficacia dell'azione dell'Unione è fortemente ridotta in tutti quei settori di competenza comunitaria per i quali si decide all'unanimità,- dalla politica sociale, a quella ambientale, a quella fiscale, per non parlare della PESC -. Questo vale anche per la modifica dell'equilibrio istituzionale dell'Unione o la definizione delle sue competenze: come ben dimostra la vicenda del Trattato di Maastricht, la possibilità per ogni stato membro di bloccare con un veto la volontà della maggioranza rafforza le tendenze alla rinazionalizzazione delle politiche dell'Unione e la progressiva disgregazione dell'Unione allargata in un grande mercato senza regole.

5. Queste considerazioni di carattere generale ci portano a proporre un metodo di revisione che rispetti le regole elementari di democrazia e trasparenza, garantisca una certa efficacia superando lo scoglio del voto all'unanimità e allo stesso tempo permetta ai governi degli stati membri di agire anche in funzione dei loro singoli interessi nazionali, senza pero' che questo sia l'unico criterio del negoziato: una procedura di revisione completamente "comunitaria", (simile a quella contenuta nell'art. 84 del Progetto di Unione Europea approvata dal PE nel 1984 e nell'art. 31 del Progetto Herman, approvato nel febbraio 1994), nella quale siano previsti tre differenti passaggi:

a. il potere di iniziativa non puo' più appartenere esclusivamente agli stati membri; come proposto dal Progetto Spinelli, bisogna allargare tale potere ad un terzo dei membri del PE e alla Commissione;

b. la definizione del testo - da sottoporre alle ratifiche nazionali- che oggi è affidata esclusivamente alla Conferenza Intergovernativa, deve essere il risultato di una concertazione tra i due rami dell'autorità legislativa (PE e Consiglio), che decidono a maggioranza, secondo una procedura, nella quale il Parlamento partecipa pienamente e nelle forme che gli sono proprie alla redazione del testo finale.

c. per l'entrata in vigore del testo modificato è oggi necessaria la ratifica di tutti gli stati membri; questa disposizione, che ha fortemente ostacolato l'evoluzione dell'ordinamento comunitario, deve essere superata adottando una procedura simile a quella contenuta nell'art. 82 del Trattato di Unione del 1984, secondo la quale è sufficiente la ratifica di una maggioranza degli Stati membri la cui popolazione costituisca i due terzi della popolazione complessiva dell'Unione; tale "doppia" maggioranza ci pare ancora oggi l'unico modo realistico per tenere conto del fatto che esistono delle differenze numeriche molto consistenti fra le popolazioni degli attuali stati membri dell'Unione.

6. Tutto questo vale evidentemente per il futuro, per il testo che uscirà dalla Conferenza Intergovernativa del 1996. Infatti, la revisione del 1996 si svolgerà nel quadro del sistema attuale, anche se è non è impossibile prevedere che, in caso di una contrapposizione o una indisponibilità di fondo, il "dogma" dell'unanimità possa essere lasciato da parte. Ma limitarsi a stare a guardare e aspettare un eventuale superamento dell'ostacolo dell'unanimità in seguito ad una rottura del consenso nella CIG, sperando che questo orienti la riforma nel senso da noi auspicato non è sufficiente. E' necessario operare al fine di garantire già dal 1996 un metodo di revisione che, pur applicando la procedura formale prevista dal trattato di Maastricht, rispetti i principi summenzionati di democrazia e trasparenza. Del resto, uno dei compiti del Comitato di riflessione ed in particolare dei rappresentanti del PE è proprio quello di favorire un accordo politico tra le parti in causa perché la prossima riforma dell'Unione si

svolga nel modo più efficace e democratico possibile.

7. Noi crediamo che questo obbiettivo potrà essere raggiunto se la maggioranza dei governi degli stati membri sceglieranno di andare nella direzione di un'unione politica forte e capace di agire e se la definizione del testo verrà fatta seguendo una procedura che potremmo definire di "co-decisione costituzionale" che metta il più possibile su un piede di eguaglianza la CIG ed il PE.

Siamo infatti convinti, al di là di ogni volontà di rivendicazione "corporativa", che la partecipazione del Parlamento Europeo al processo di revisione del Trattato costituisca un elemento fondamentale per la riuscita delle riforme del 1996, non tanto e non solo per le qualità ormai tradizionali di chiarezza e coerenza delle sue proposte, quanto perché questo potrebbe permettere l'uscita del negoziato dalle chiuse stanze della diplomazia degli stati e potrebbe contribuire a porre pubblicamente sul tappeto le grandi questioni del futuro dell'Unione europea: quali obbiettivi, quale assetto istituzionale, quali risorse, quale ripartizione di competenze fra stati, regioni e l'Unione.

8. Si dirà che una tale procedura costituisce una violazione dell'art. N del Trattato, che non prevede espressamente alcun ruolo per il PE in questa materia: a questa osservazione si puo' rispondere attirando l'attenzione sul fatto che da tempo è stato riconosciuto al PE un potere "politico" di ratifica; questo "potere" si è espresso nell'adozione di un parere che è stato in due occasioni, - dopo la firma dell'Atto Unico e dopo la firma del Trattato di Maastricht - determinante per orientare il voto dei parlamenti di alcuni stati membri e che è ormai considerato come un atto il cui valore va molto al di là di una semplice consultazione. E' sulla valenza politica del nostro ruolo come pure sulla legittimità democratica del PE più che sul rispetto formale delle norme che è nostro interesse porre l'accento; cio' al fine di orientare le riforme del 1996 nella direzione di una maggiore democrazia ed efficacia, obiettivo irrangiungibile, fino a quando ogni decisione rimarrà nelle mani della Conferenza Intergoverna

tiva.

9. Dunque, è perfettamente possibile e coerente con le posizioni tradizionali del PE proporre che attraverso un accordo solenne di natura politica, venga concordata una procedura che permetta al PE di emendare le proposte di revisione elaborate dai rappresentanti dei governi e di convocare una sorta di "conciliazione" in caso di grave disaccordo, al fine di approvare un testo comune da parte del PE a maggioranza qualificata e dei rappresentanti dei governi degli stati membri, o almeno di quei paesi che sono disponibili ad avanzare sulla strada della integrazione (1).

A questo proposito è utile ricordare che il Parlamento Europeo, in una sua risoluzione approvata la scorso settembre, pur respingendo l'idea di un nucleo predeterminato di paesi (-predeterminato, aggiungiamo noi, sulla base di criteri puramente economici-) ha ribadito il principio secondo cui uno stato membro non potrà ostacolare la volontà di una maggioranza di partners e che già nell'art. 82 del Trattato di Unione approvato nel 1984 viene esplicitamente prevista una procedura secondo la quale

"i governi degli stati membri che avranno ratificato si riuniranno immediatamente per decidere di comune accordo le procedure e la data di entrata in vigore del nuovo testo nonché le relazioni con gli stati membri che non hanno ancora ratificato".

10. Restano aperte le questioni della partecipazione dei parlamenti nazionali a questo processo e delle conseguenze di una integrazione differenziata degli stati membri all'Unione.

Sul primo punto, è ormai riconosciuta da tutti l'importanza di un maggiore coivolgimento dei Parlamenti nazionali nel controllo delle attività dei loro governi rispettivi a livello europeo e nella definizione delle regole fondamentali dell'organizzazione dell'Unione e dei suoi obbiettivi; allo stesso tempo, pero', rimaniamo convinti che esiste e deve essere rafforzata l'espressione della legittimità democratica al livello europeo, e che non bisogna fomentare quelle tendenze presenti in alcuni stati membri, che mirano a risolvere il cosiddetto "deficit democratico" attraverso l'attribuzione ai parlamenti nazionali di funzioni legislative e di controllo che devono invece appartenere al Parlamento Europeo.

In questo senso, la convocazione di una Conferenza dei Parlamenti della Comunità prima e dopo la Conferenza Intergovernativa e uno stretto contatto, scambio di informazioni e documenti con gli organi specializzati dei parlamenti nazionali sono le vie più realistiche e prudenti per assicurare da un lato il rispetto delle diverse prerogative delle assemblee rappresentative dei cittadini europei e dall'altro un ampio e aperto dibattito e confronto sulle grandi scelte sul futuro dell'Europa.

(1) Il PE dispone di alcuni mezzi di pressione sul Consiglio e la Commissione (mozione di censura, rigetto del bilancio, sciopero dei pareri) che ha usato solo di rado; nell'ambito di una strategia volta ad ottenere l'accordo sopra indicato, è opportuno utilizzare tali mezzi con maggiore convinzione, ed in particolare il voto del parere obbligatorio sulla convocazione della CIG come strumenti di pressione nel dialogo interistituzionale.

11. Quanto al problema degli stati che non desiderano partecipare ad un avanzamento ulteriore dell'Unione, la strada indicata dal progetto del 1984 resta, a mio avviso, la più seria; si potrebbe riflettere ad un calcolo più adeguato della "massa critica" e ad una più precisa definizione delle conseguenze della mancata ratifica, che non dovrebbe necessariamente comportare un'uscita definitiva dal sistema, pur non impedendo agli altri di procedere. Il problema non è di poco conto specialmente in questo momento. E' probabile ad esempio che alcuni nuovi membri non possano decidere subito di entrare in un sistema PESC più integrato (neutralità, mancanza di esperienza nel funzionamento del sistema, reticenze nazionali). E' ugualmente possibile che i paesi dell'Est che dovessero aderire in tempi relativamente brevi non possano subito accettare l'integralità dei vincoli posti dall'integrazione economica e monetaria.

Dove situare il limite al di sotto del quale non si tratta più di organizzare una "integrazione differenziata", ma bensi l'uscita dall'Unione ?

Io credo che, se una certa flessibilità è possibile ed auspicabile nella realizzazione delle politiche dell'Unione, tutti gli stati membri debbano aderire al percorso politico e agli obbiettivi dell'Unione e debbano accettare che ogni deroga ed eccezione sia limitata nel tempo.

In questo senso è di primordiale importanza che gli Stati membri, all'inizio della Conferenza si accordino sul fatto che chi di loro non fosse disposto a partecipare alle riforme accolte da una larghissima maggioranza, sia pure entro dei termini definiti, non possa impedirne l'entrata in vigore.

Tale/i Stato/i potrebbe/ro, in un termine da definire, decidere se entrare nell'Unione con le nuove regole o uscirne, pur mantenendo stretti rapporti con l'Unione.

 
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