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Farina Renato, Karadzic Radovan, Il Giornale - 23 gennaio 1995
Intervista a Radovan Karadzic

"Aiutateci, vi daremo la Dalmazia"

di Renato Farina

SOMMARIO: l'inviato de Il Giornale incontra a Pale (capitale della autoproclamata Repubblica serba di Bosnia), e riesce ad intervistare, il presidente dell'Assemblea nazionale Momcilo Krajisnik e Radovan Karadzic. I due, ormai sicuri di aver vinto la guerra, per porre fine al conflitto si dicono pronti a cedere parti del territorio bosniaco per zone e città più ricche, Sarajevo compresa. Non esitano a ritenere la Germania colpevole della guerra e per questo a volerla fuori dal gruppo di contatto, gruppo nel quale vedrebbero bene l'Italia, a patto che questa riconosca la loro Repubblica, in cambio, naturalmente, della Dalmazia!

(Il Giornale, 23 gennaio 1995)

Pale - Sarajevo è là, dietro queste montagne così morbide e bianche che sembra impossibile la guerra. Qui siamo nel quartier generale dei serbo-bosniaci. Il presidente dell'Assemblea nazionale si chiama Momcilo Krajisnik, ed è il numero due della Repubblica serba di Bosnia. Repubblica serba? La comunità internazionale non la riconosce ufficialmente, ma tratta con essa. Adesso c'è una tregua che dovrebbe durare fino ad aprile. Si discute sui territori da spartire tra le due entità politiche che nasceranno dalla guerra: da una parte la federazione croato-musulmana, dall'altra i serbi. Krajisnik ha ventisette cartine colorate su una parete del suo studio. Sono le varie proposte di pace, cioè di spartizione. Dice Krajisnik: "Dobbiamo dividerci. Altrimenti nessuna pace ci sarà mai. Hanno ucciso mia moglie. Mia nuora è stata abbattuta sulla soglia di casa da un colpo sparato da un cecchino. La pace è matura. O si fa adesso o mai più". Mostra le cartine: "Noi occupiamo il 70 per cento del territorio. Quel che ci vi

ene proposto è di ridurlo al 49 per cento. Ma non è questione di percentuali. Il fatto è che il piano prevede che musulmani e croati abbiano il 78 per cento delle ricchezze. La più grande città che ci resterebbe sarebbe Banja Luka: che è al numero 24 per sviluppo economico. Noi vogliamo riportare la nostra capitale a Sarajevo. Ne occupiamo già la maggior parte, per altro. Possiamo rinunciare al centro. Senza mettere muri, noi ci insedieremmo nei sobborghi dell'hinterland. Sarebbe Sarajevo Est-Ovest. Agli altri toccherebbe Sarajevo Nord-Sud. Non ci importa se avremmo i sobborghi. La rifaremmo. Ci si può accordare. Noi siamo i vincitori della guerra. Ma non vogliamo che ci siano vinti. I serbi, prima della guerra, detenevano i titoli di proprietà del 64 per cento del territorio. Possiamo rinunciare a qualcosa". E mostra una cartina con le proposte della sua parte. La Repubblica serba di Bosnia sarebbe una specie di ferro di cavallo che stringe il territorio croato musulmano. Loro vorrebbero stringere il più po

ssibile. Ci sono in gioco, come in una specie di roulette di guerra, 20 città e 8 grandi miniere. "I musulmani le vorrebbero tutte. Mi sono simpatici i musulmani", mente spudoratamente Krajisnik, "ma bisognerebbe che il gruppo di contatto li facesse ragionare". Il gruppo di contatto conta Usa, Gran Bretagna, Francia, Russia e Germania. Ed ecco la sorpresa: "Noi proporremo che nel gruppo di contatto entri l'Italia e se ne vada la Germania, che è colpevole di questa guerra". Il lampadario è pieno di luce sfarzosa e di mosconi morti. Entra la tivù serba, e cambia tono, il signore gentile adesso grida: "Siamo decisi. Siamo i vincitori. Noi serbi non accetteremo mai la Bosnia come Stato. Che loro si federino con i croati, noi con la Serbia. Con i musulmani, vivere è impossibile".

Che strano. La natura è di una bellezza struggente. La neve è alta. Il vento porta giù da altezze inverosimili un azzurro abbagliante. Eppure sai che finché c'è guerra è come contemplare il bel viso di una donna ferita. Dietro la collina c'è Sarajevo.

I militari si innervosiscono, scattano, maledicono. Entra il capo: Radovan Karadzic. Chi non lo conosce? Si muove nelle nostre televisioni come un pesce sempre ridente e fa venire il nervoso. In parecchi hanno scritto articoli sulla psicologia di questo psichiatra e sulla sua chioma puntata come un mitra.

Nella sala ci sono uomini d'affari serbi venuti dall'estero. Si lascia andare: "Restituiremo una parte dei territori che occupiamo. Ma non come vorrebbero gli altri. Non ci accontenteremo del 20 per cento della ricchezza. Il mondo dovrà accettare questo Stato". Lo dipinge come un futuro Bengodi, "sarà un bello Stato serbo, assai migliore della Slovenia". Ci saranno ferrovie che collegheranno Mar Nero e Adriatico. Ha un pensiero, incredibilmente, per "un'agricoltura sana ed ecologica, che non danneggia la salute". "Forse faremo una scelta di off-shore (cioè di paradiso fiscale). Di certo, finita la guerra, privatizzeremo tutto. Frammenteremo le proprietà. Torneremo indietro: a quando lo Stato non aveva niente. Adesso avremmo bisogno di una legislazione modello sulla proprietà privata".

A questo punto, mi guarda e sorride. Centoventi chili di uomo chiomuto e ridente si girano verso di me. Il patto era: niente domande. Ci provo. Funziona.

- Questo quando la guerra è finita. Ma quando finisce?

"La guerra si fermerà quando l'intera Europa ci riconoscerà come Stato. Se ci riconoscerà i musulmani. Avranno una giustificazione morale, e potranno dire ai loro: ci abbiamo provato, ci è andata male, li hanno riconosciuti. Noi vogliamo la pace, non abbiamo nessun interesse a rompere la tregua. Occupiamo più del territorio che riteniamo equo possedere. Siamo disposti a restituirne una parte. Il nostro diritto sarebbe almeno del 64 per cento. Possiamo andare anche sotto".

- Fino a quanto?

"Fifty-fifty. Il problema non è di quantità ma di qualità. Se mi danno Sarajevo e Tuzla, rinuncio a molto territorio. La percentuale non vuol dire niente. Il problema è scegliere i territori".

- Se no, ancora guerra?

"Per noi la guerra potrebbe già essere finita. Non abbiamo nessun interesse ad ingaggiare ostilità. Faremo controffensive solo se ci attaccano. Noi psicologicamente siamo già da tempo pronti per la pace. E' venuto il momento di chiudere. L'Italia ci riconosca, sarà un contributo per la pace".

Dico scherzando: E che ci guadagniamo?

Karadzic non scherza. Si sistema la gigantesca banana cotonata con un gesto alla Sgarbi: "Ci guadagnate la Dalmazia. Potrete prendere in considerazione la possibilità di ritornare in Dalmazia. Ma soprattutto dovete farlo perché è giusto".

- E perché è giusto? La Bosnia è uno Stato, voi no. Così dicono i giuristi.

"Per avere il riconoscimento come Stato occorrono tre elementi: un popolo, un territorio, un governo effettivo. Noi abbiamo questi tre elementi. La Bosnia no. La Comunità europea si è comportata come Caligola che ha fatto senatore il suo cavallo. Ha riconosciuto uno Stato che non c'è, e fa finta che non esista uno che c'è. Che l'Italia, finché non ci riconosce, ci tratti almeno come i croati e i musulmani. Stabilisca una missione qui a Pale con un diplomatico, un militare, un addetto stampa".

- Ma questo territorio l'avete preso con una guerra.

"La comunità internazionale, in spregio di ogni diritto, ha posto le basi per far sparire la Jugoslavia, riconoscendo come Stati le repubbliche secessioniste, oltretutto accettando i confini disegnati dal comunismo. La Repubblica serba che io rappresento qui è nata come un bambino non voluto, nemmeno da noi. Adesso c'è, e per non farlo piangere bisogna cullarlo. Anzi, ormai camminiamo. Nessuno riuscirà a ucciderci".

- Ma l'Italia...

Mi interrompe. Dice orgoglioso e in po' vanesio: "A proposito di Italia. Lo sa che un giornale italiano pubblicherà dieci poesie mie? Eh, eh: ho scritto cinque libri, quattro premiati. Il primo è del 1968". Mi sembra di vederlo con la lira in mano, sopra Sarajevo.

- L'Europa sarà come Caligola, ma lei è come Nerone.

Incassa benissimo, ride: 'Time' ha scritto la stessa cosa. Come tutti i tiranni, scrive poesie, questo Karadzic. "Ma si sbagliano. Da quando faccio politica, non ho più scritto poesie. Il paragone con Nerone, come vede, non regge. Comunque, per tornare a questioni serie: Kissinger, che non è uno sciocco, ha detto: 'La Bosnia non è mai stata uno Stato, né mai lo sarà'".

- Eppure lei e la sua causa siete assai impopolari all'estero. Non ha fatto errori?

"Ho fatto più errori a casa che sul piano internazionale". E si accarezza la chioma soddisfatto.

- Be', di certo ha sbagliato parrucchiere.

"La mia parrucchiera è bravissima. Si chiama Ljudica, ed è una croata cattolica. Ahimè adesso, pur vivendo lei in territorio serbo, sono fuori dalla portata del suo pettine". Non si dovrebbe mescolare la futilità quando c'è di mezzo la guerra. Ma noi siamo animali così. E la guerra fa capolino di nuovo.

- Se l'aspettava la guerra? La pensava così?

"Razionalmente sapevo che sarebbe arrivata. Ma emotivamente respingevo l'idea. Al punto che ho lasciato nella mia casa a Sarajevo ogni cosa, i miei amati 5.000 libri. Ho perduto tutto, potevo salvarli, spostarli su territorio serbo. Un poeta ha scritto: 'Lui sapeva di dover morire / ma sperava di non morire'. Poi viene la guerra. Un attimo prima non c'era, e un attimo dopo c'è. Il mio spirito rifiuta di questa guerra i cimiteri nuovi e gli orfani. Gli invalidi, le distruzioni: sopporto. Ma i cimiteri nuovi e gli orfani no. E dire che adesso andiamo ad accordarci su una spartizione che era già stata accettata da tutte e tre le parti a Lisbona, prima della guerra. Poi l'ambasciatore americano Warren Zimmerman convinse i musulmani a dire di no. In realtà, basterebbe che ci mettessimo d'accordo noi serbi e gli americani".

- Lei è psichiatra. com'è la salute mentale del suo popolo?

"Da scienziato constato che sono quasi sparite le psicosi e le depressioni. La patologia si mostrerà dopo la guerra. Uno si accorgerà solo allora di quanto è costata la guerra, dei figli morti. Adesso siamo tutti così ottimisti. Vinciamo, siamo forti, lo Stato cresce".

- Come potrà essere la convivenza dopo, con i musulmani?

"Intanto bisogna accordarsi. Di certo non si può convivere con i musulmani. Il Libano, Cipro, l'India lo dimostrano. Vivremo come Stati vicini e possibilmente amici. Il business ci avvicinerà. Noi non abbiamo odio. Odia chi ha paura. Se si vuole la pace si fa in due mesi". Mi sorride, si accarezza spiritosamente i capelli. Dice: "Lei sì che ha sbagliato parrucchiere". Dietro le colline, c'è Sarajevo.

 
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