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Calderisi Giuseppe - 7 gennaio 1995
"ELIA SBAGLIA, LA CONSULTA DEVE DIRE SI'"
di Peppino Calderisi

SOMMARIO: Documentazione complessa, articolata e assai tecnica per dimostrare - in contraddittorio con le tesi sostenute dal prof. Elia su "La Repubblica" - l'infondatezza o la non essenzialità delle critiche rivolte ai referendum elettorali inclusi nel pacchetto promosso dai referendari di Pannella (e, in parte, dalla Lega). In primo luogo, il deputato Riformatore nega che con il passaggio del referendum elettorale si determinerebbe un vuoto normativo tale da porre a rischio l'effettuabilità delle elezioni. Ma le argomentazioni di Calderisi affrontano anche altri aspetti, in particolare facendo un paragone con quanto avvenne per i referendum elettorali promossi da Segni, e con il corrispondente atteggiamento tenuto dal Presidente Scalfaro.

(Il Messaggero, 7 gennaio 1995)

L'on. Elia è intervenuto contro l'ammissibilità dei referendum elettorali in un articolo su la Repubblica del 6 gennaio. Alla luce della memoria presentata alla Corte Costituzionale dal prof. avv. Carlo Mezzanotte e dal prof. avv. Beniamino Caravita per conto del Comitato promotore, posso ora dire che non solo le argomentazioni dell'on. Elia non sono riuscite a tapparmi la bocca, ma hanno reso in me ancor più fermo il convincimento della fondatezza giuridica della tesi favorevole all'ammissibilità dei referendum volti ad abolire la quota proporzionale dalle leggi elettorali della Camera e del Senato. I quesiti sono infatti assolutamente omogenei, univoci e chiari nella loro finalità.

Si obietta che il sistema che scaturisce dal referendum crea un vuoto non tollerabile perché occorrerebbe ridisegnare tutti i collegi uninominali. Come si potrebbe tenere le elezioni se il presidente della Repubblica dovesse sciogliere le Camera proprio nel periodo di tempo occorrente per rifare i collegi elettorali?

Per rispondere a questo interrogativo, e comprendere che in realtà non si crea alcun vuoto nell'ordinamento, occorre aver presente che lo stesso identico problema si pone inevitabilmente in ogni avvicendamento di leggi elettorali (per esempio; variazione della quota proporzionale, disciplina del voto degli italiani all'estero, modifica del numero dei parlamentari, anche in questi casi occorrerebbe rifare i collegi).

Il solo modo per conciliare la cogenza della durata delle Camere (e il potere di scioglimento ai sensi dell'art. 88 Cost.), il divieto di proroga, l'obbligo delle elezioni entro sessanta giorni dalla fine delle Camere precedenti, con il principio della pienezza della potestà legislativa spettante al parlamento sino all'ultimo giorno prima dello scioglimento, è postulare che le leggi elettorali, eventualmente deliberate negli ultimi giorni della legislatura, quando siano bisognevoli di misure attuative, permettano comunque l'operatività (o l'ultrattività) delle leggi anteriori. Sicché in ogni momento, per il principio di continuità normativa in materia di elezioni delle Camere, opera una legge compiuta.

Si è in presenza di una vicenda (già acquisita nel sistema delle fonti, come dimostra l'istituto della delegificazione) che comporta un differimento dell'effetto abrogativo e che appare del tutto corrispondente alle prescrizioni costituzionali.

Tanto sostenne anche l'on. Elia durante l'esame della legge "Mattarella" (non sull'art. 10, ma ancor prima che tale articolo fosse concepito e introdotto dal relatore, correttamente riscontrando che in quella circostanza si verificava un ordinario caso di dissociazione tra abrogazione e vigenza o, se si preferisce, di ultrattività delle norme abrogate (e spiace che adesso l'on. Elia affermi che stessa sua tesi "non vale un fico secco").

E non vi è ragione di sostenere che, nell'avvicendamento tra legge del Parlamento e deliberazione abrogativa del popolo, abbiano ad operare principi diversi. A sostenerlo in due recenti diversi convegni è stato anche il prof. Antonio Agosta, già consulente giuridico dello stesso ministro Elia nel governo Ciampi, che ha pertanto sostenuto la piena ammissibilità dei referendum, pur non condividendone il merito. Questo principio ha già trovato attuazione nel 1953 allorché le elezioni del Senato - sciolto anticipatamente per rendere uniforme la durata delle Camere - si tennero senza adeguare il numero dei senatori a quello prescritto dall'art. 57 della Costituzione allora vigente (un senatore ogni 200 mila abitanti). Infatti in quella circostanza fu adeguato ai nuovi dati della popolazione solo il numero dei deputati (con il titolo V della cosiddetta legge "truffa") e non quello dei senatori (che avrebbe richiesto di ridisegnare tutti i collegi prevedendone 9 in più).

A voler approfondire la questione, problemi analoghi - e anzi qualcuno ben più serio - presentava anche il referendum Segni. Vi erano gravi incongruenze, quale l'enorme disparità del numero di abitanti dei vari collegi (tra 77.104 e 192.703!) o l'arbitraria distribuzione della quota proporzionale tra le regioni (da zero per il Friuli ad oltre il 40% per Lazio e Lombardia!). Queste incongruenze avrebbero condotto ad una sicura incostituzionalità della legge uscente dal referendum. Un qualsiasi ricorso avrebbe impedito le elezioni o avrebbe determinato l'annullamento dei relativi risultati (per non parlare dei diversi sistemi con cui sarebbero stati eletti Camera e Senato, proporzionale il primo, prevalentemente maggioritario il secondo, questione che per Ciampi comportava "rischi di paralisi nel meccanismo decisionale parlamentare")

L'esistenza di queste incongruenze fu rilevata dalla stessa Corte che investì il Parlamento del compito di porvi rimedio, come in effetti avvenne. Occorre infatti aggiungere che esiste un vincolo costituzionale a dare attuazione al dettato referendario (quando il quesito sia formulato in modo chiaro, omogeneo e univoco nella sua finalità). La formazione del governo Ciampi dimostra pienamente come tutti gli organi costituzionali - e in primo luogo il presidente della Repubblica - si fossero sentiti vincolati a dare esecuzione al voto del 18 aprile '93 (Scalfaro affermò che il Parlamento doveva provvedere "sotto dettatura della volontà popolare").

Tale dovere costituzionale di cooperazione esclude già di per sé che l'inerzia o il disinteresse del Parlamento nei confronti di una scelta popolare possano essere assunti come fondamento di una dichiarazione di inammissibilità di un referendum.

Ma anche nell'ipotesi estrema e contraria a Costituzione di un rifiuto del Parlamento a dar seguito ad una chiara volontà referendaria, non si creerebbe alcuna paralisi di funzionamento del Parlamento a dar seguito ad una chiara volontà referendaria, non si creerebbe alcuna paralisi di funzionamento del Parlamento, né si determinerebbe un esproprio del potere di scioglimento delle Camere del presidente della Repubblica. Profilandosene l'indifferibile urgenza o necessità, se anche il Parlamento non avesse ancora dato attuazione alla volontà referendaria, le elezioni politiche si terrebbero, come abbiamo già esaminato, con la preesistente disciplina elettorale.

La questione dell'intreccio tra svolgimento delle elezioni e consultazione referendaria (si possono svolgere sia in un ordine che nell'altro, e con diverse ipotesi di tempificazione) non può in alcun modo incidere sulla decisione di ammissibilità dei referendum.

Per tutte le ragioni esposte va ribadito con forza che, dopo aver consentito il referendum Segni, la Corte Costituzionale potrebbe bocciare i referendum Pannella solo in base ad una gravissima e inaccettabile "ragion politica".

Mi auguro che la Corte, alla vigilia del suo pronunciamento, in un momento della vita politica, economica e sociale del Paese in cui è venuto meno il ruolo dei partiti come dominatori e in cui sempre più l'opinione pubblica è presente e attenta, avverta che è necessario il ritorno alle regole e allo stato di diritto. E' in gioco il ruolo e la (ri)legittimazione della stessa Corte.

 
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