di Marcello PeraSOMMARIO: "Fondo" nel quale l'articolista critica aspramente la sentenza con la quale la Corte Costituzionale ha respinto la richiesta di referendum, avanzata dai Riformatori di Marco Pannella, per riformare la legge elettorale in senso decisamente uninominalista. Le argomentazioni, non nuove, sono esposte con semplice efficacia giornalistica.
(Il Messaggero, 12 gennaio 1995)
Niente, assolutamente niente, mi convince delle possibili motivazioni della Corte Costituzionale per eliminare i referendum elettorali per la Camera e il Senato. Tutto, anzi, mi conferma che si è trattato di un errore di diritto e di un atto politico a mio avviso molto censurabile. E mi merviglia che Livio Paladin ne prenda le difese, lui che della Corte è stato presidente e che è autore di un apprezzato 'Commentario alla Costituzione' in cui proprio la giurisprudenza della Corte sui referendum è presentata come sconcertante, e sottoposta a critica.
Intanto una questione di principio. Citando il precedente del '93 sul referendum per il Senato Paladin dice, e suppongo lo stesso abbia detto la Corte, che " con queste premesse" non si poteva far diversamente, "salvo il caso che si fosse affermato un nuovo indirizzo giurisprudenziale". Già, ma perché la Corte doveva scegliere quelle premesse? Perché doveva confermare il suo vecchio indirizzo giurisprudenziale? La Corte ha un obbligo solo: leggere l'art. 75 della Costituzione e, alla luce di esso, e solo di esso, valutare se il quesito referendario postole è ammissibile. Ora, quell'articolo dice che tutto è sottoponibile a referendum abrogativo fuorché le norme in materia fiscale, amnistia, indulto e trattati internazionali; non parla, tale articolo, di "norme di risulta", di "norme autoapplicative", di "omogeneità della richiesta" ecc.
Tutte queste cose ce le ha messe la Corte durante ben precisi momenti storici e politici. Donde la questione: la Corte è guidata dalla Costituzione o dai propri precedenti scartafacci?
C'è poi la questione di merito. Si dice, se i referendum elettorali fossero stati ammessi, allora il Parlamento avrebbe dovuto ridisegnare i collegi. E' vero.
Ma così fu anche per i referendum Segni: qual'è la differenza? Perché ciò che allora fu un "inconveniente" ora diventa un "impedimento assoluto".
Tra la giurisprudenza della Corte c'è anche la regola dei due pesi e due misure?
Se proprio la Corte, anziché la Costituzione, vuole interpretare se stessa, non potrebbe almeno essere coerente con se stessa?
Sempre sulla questione di merito, si dice ancora, e mi stupisce che lo dica Paladin, che "nel mezzo di una crisi istituzionale come quella odierna, con lo scioglimento delle Camere che incombe", non si poteva "paralizzare per qualche mese l'avvio dei provvedimenti elettorali". In altri termini, non saremmo potuti andare a nuove elezioni.
Ma fior di costituzionalisti hanno sempre negato questa tesi; e a buon motivo: perché niente limita il potere sovrano del Presidente della Repubblica di sciogliere le Camere e di indire nuove elezioni.
E' vero: se non si fosse arrivati in tempo a ridisegnare i collegi, avremmo votato con la vecchia legge. Sarebbe stato incostituzionale o semplicemnte inopportuno politicamente? E poi come si fa a dire che non saremmo arrivati in tempo?
La Corte, oltre che i propri precedenti, tiene d'occhio anche il calendario della crisi? E che cosa l'autorizza a fare ciò? Certo non la Costituizone. E allora che cos'altro?
Qui arriviamo al punto. La decisione della Corte è politica. La si può ritenere nobile e a fin di bene o invece perversa e a fini di parte. Ma politica resta.
Lo ammette, e anche questo mi fa molta tristezza, lo stesso Paladin: "La Corte costituzionale - dice - ancora una volta si è trovata a togliere le castagne dal fuoco, in chiaro contrasto con il suo ruolo di giudice estraneo al contingente gioco politico".
Ora io credevo che un giudice costituzionale fosse un tale con la Costituzione da una lato, il quesito referendario dall'altro e, in mezzo, la propria scienza e coscienza. Mi avvedo invece che un ex-presidente della Corte dice che un giudice costituzionale si occupa anche di castagne e di fuoco.
Questo autorizza le peggiori domande: quali castagne stavolta la Corte ha inteso togliere da quale fuoco? A chi voleva fare un favore e a chi un danno?
Preferisco non congetturare risposte. Osservo solo che ci sono due perdenti: quei milioni di cittadini italiani che avevano chiesto di esprimersi sul sistema elettorale, come già avevano fatto una volta, quando il presidente Scalfaro si prese tanta cura di loro da chiedere persino che il Parlamento facesse "un legge sotto dettatura", e la Corte costituzionale stessa. Se un organo di suprema vigilanza entra nel merito delle castagne dei politici, diventa anch'esso politico e delegittima il suo stesso ruolo istituzionale.
Ci son già troppi guai in questo paese, perché la Corte ne aggiungesse un altro così serio.