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Manzella Andrea - 15 giugno 1995
ADESSO DOPPIO TURNO PER TUTTI
di Andrea Manzella

SOMMARIO. Importante articolo nel quale, sulla scia dei risultati del referendum sulla legge elettorale per i sindaci del 12 giugno 1995, si tenta di accreditare la tesi che quei risultati referendari legittimano la richiesta di trasferire anche sul piano nazionale il maggioritario a due turni, appunto. Secondo Manzella, il risultato referendario, che rovescerebbe tesi e aspirazioni dei suoi promotori monoturnisti, si colloca nella scia delle precedenti consultazioni referendarie sulle leggi elettorali, confermandone e precisandone la tendenza. Auspica quindi che il referendum in questione venga "automaticamente" recepito in campo nazionale, fin dalle prossime elezioni politiche.

(LA REPUBBLICA, 15 giugno 1995)

Duecentottantaseimila cittadini con il loro "no" hanno fatto la differenza e hanno impedito che la migliore legge elettorale funzionante in Italia, quella per i sindaci delle città maggiori, fosse abolita. "Mai così pochi riuscirono a fare cosí tanto per cosí tanti", varrebbe la pena di ripetere. In realtà, le conseguenze di questo voto possono essere - e, forse, devono essere - decisive per l'assetto definitivo del sistema politico italiano.

Questo referendum è venuto, infatti, a completare la triade dei referendum elettorali che si sono dipanati negli ultimi quattro anni. Nel 1991, il referendum contro il voto di preferenza multiplo colpí al cuore il diritto successorio della partitocrazia, il "sistemino" di cooptazione per politici professionisti e per portaborse. Nel 1993, il referendum contro la proporzionale portò al centro della riforma l'idea di una diretta efficacia del voto popolare, non intermediabile dalle combines partitocratiche. Domenica scorsa, il referendum "sui sindaci" ha affermato due esigenze.

La prima è la necessità che il maggioritario sia veramente maggioritario, cioè esprima, con la garanzia del doppio turno, la metà più uno dei votanti; la seconda è la necessità che chi governa abbia, con la garanzia del doppio voto, una investitura diretta popolare, coordinata ma distinta rispetto all'assemblea rappresentativa.

Con una successione serrata e coerente, la fisionomia elettorale si è, dunque, progressivamente precisata. E questo ultimo referendum si intreccia agli altri che l'hanno preceduto, li colora e li spiega ed offre cosí un modello di sistema elettorale che è impegnativo per le scelte del Parlamento e del Capo dello Stato.

La sequenza dei referendum elettorali ha dato vita infatti alla costante prassi di una successiva esecuzione a rime obbligate da parte degli altri organi dello Stato. Cosí, ci pare, dovrà essere anche oggi: oggi che, per di piú, la lettura integrata dei tre referendum consente di delineare un ordinamento elettorale omogeneo. Ora che si possono ricomporre ad armonica unitarietà i segmenti normativi che la discussa tecnica referendaria "all'italiana" aveva via via ricavato dall'abrogazione di leggi.

In realtà, l'omogeneità e la componibilità della legislazione elettorale vigente per i diversi livelli territoriali di governo è una caratteristica istituzionale sempre piú accentuata negli Stati dell'Unione europea (basti pensare all'esempio tedesco). Il nostro attuale non-sistema è invece caratterizzato da ben sette leggi elettorali profondamente differenziate (senza contare quelle delle regioni a statuto speciale). E' dunque una autentica fortuna istituzionale che - per effetto di un referendum risoltosi in una conferma popolare diretta e, quindi, in una "blindatura" delle sue norme di principio - la legge "sui sindaci" sia ora diventata la legge-guida per la sistemazione elettorale generale della Repubblica.

Una tale posizione di riferimento al fine della omogeneità elettorale comporta anche due conseguenze assai rilevanti d'ordine generale. La prima attiene alla necessaria connessione tra modi di elezione e forma di governo. I principi guida del cantiere istituzionale europeo sono il federalismo funzionale (come logica di organizzazione interna all'Unione e ai suoi Stati membri) e il principio di sussidiarietà (come criterio di distribuzione dei vari poteri di governo). Ora, solo quando le strutture elettorali e di governo consentono una efficace cooperazione tra i diversi livelli di gestione pubblica territoriale, diventa possibile realizzare queste due essenziali dinamiche di modernizzazione istituzionale.

La seconda conseguenza dell'assestamento del nostro sistema elettorale secondo le linee guida della legge "sui sindaci", attiene ad esigenze di garanzia. La forza legittimante che proviene dal doppio turno e dal doppio voto crea, infatti, istituzioni forti, capaci di confrontarsi tra di esse, l'una contropotere all'altra, in una realtà di effettivo pluralismo istituzionale.

Ecco allora l'immortale legge del contrappasso (o del "contropiede", secondo la recente analisi di Edmondo Berselli). Questo referendum fu promosso in base ad un teorema di astratto estremismo maggioritario a turno unico (e, quindi, nella sostanza, minoritario). Esso si risolveva in una proposta fatalmente confinante - per il ritorno ai sindaci-capilista, al listone lottizzato, al voto di preferenza - con il peggio del proporzionalismo. Ora, per "risulta" (secondo, questa volta, il linguaggio della Corte costituzionale) il suo esito impone un indirizzo di politica legislativa elettorale, completamente diverso da quello pensato dai suoi incauti promotori.

Si tratta di un indirizzo referendario di integrale attuazione della Costituzione. Il principio di maggioranza - in questa definito all'art.64 e all'art.75 - è sempre legato, infatti, alla regola della metà piú uno del voti espressi e non consente affatto i disinvolti colpi di mano del turno unico. E la concezione di partito costituzionale, dell'art. 49, non giustifica la degenerazione monistica del rapporto assemblea rappresentativa - organo di governo che si verifica, invece, quando fa presa la colla della partitocrazia.

Per questa loro piena costituzionalità, gli effetti garantisti del referendum "sui sindaci" possono essere dunque trasferiti all'intero sistema elettorale. Nei precedenti referendum elettorali il trasferimento si attuò sempre nelle elezioni immediatamente successive. Non si vede perché non possa avvenire cosí anche questa volta, riproducendosi, sotto la spinta referendaria, quella rapida concordia minima sulle regole che già ha consentito, in questo Parlamento, di varare la nuova legge elettorale regionale.

Milioni di elettori - ovviamente anche di centro-destra (che hanno votato in controtendenza) - hanno indicato, con questo referendum, un ragionevole sbocco alla transizione elettorale italiana. Non tenerne conto, trincerarsi dietro le tv auto-plebiscitate, tentare, con l'ostruzionismo, di ripetere il colpo a turno unico del 27 marzo (senza Bossi ma con l'impresentabile cumulo di interessi ancora intatto) sarebbe una esasperazione dell'insopportabile rischio a cui è, da tempo, esposta la condizione democratica di base in questo Paese.

Saggia mossa sarebbe invece quella di allentare la tensione, di cominciare ad alleggerire, rispettando la volontà degli elettori referendari e dando le garanzie da tempo promesse, una posizione soggettiva che, per la sua strutturale distorsione della vita pubblica, non ha eguali al mondo. Passano rapide le occasioni della politica. E questa, offerta dal referendum n. 8, potrebbe essere l'ultima per fare uscire dal grande stallo la situazione italiana. La normalità è dietro l'angolo (ma anche, in alternativa, vi è il suo contrario).

 
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