(Appunti di Gianfranco Dell'Alba, Olivier Dupuis)
RIFORMA DEL TRATTATO DI MAASTRICHT, NUOVO ASSETTO EUROPEO: QUALI SFIDE PER IL PARTITO RADICALE
In vista della conferenza intergovernativa del 1996 per la riforma del Trattato di Unione europea, prendono corpo tutta una serie di proposte, miranti alla riforma o alla contro-riforma delle istituzioni europee.
Giscard d'Estaing, ad esempio, propone di incentrare il rilancio del processo d'integrazione intorno alla realizzazione dell'Unione monetaria. Questa Europa, ch'egli battezza "Europa-potenza", sarebbe un'unione aperta immediatamente a coloro che possono e successivamente a coloro che vogliono farne parte (Germania, Francia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo più Italia, Spagna e l'uno o l'altro dei nuovi aderenti). Essa si opporrebbe a una "Europa-spazio" aperta, quest'ultima, a tutto il continente ma limitata, nell'essenziale, ad uno spazio di libero scambio.
L'impostazione di Giscard d'Estaing da per scontata l'idea di un nucleo duro, ovvero della possibilità per un gruppo di paesi di andare avanti senza essere bloccati da paesi "recalcitranti" o da chi non vuole progredire ed ha un grosso limite: quello di basarsi su un'archittetura di tipo prevalentemente "intergovernativo" (contrariamente a ciò che può lasciare intendere il titolo dell'articolo "manifesto per una nuova Europa federativa" che espone queste idee) di questa "Europa-potenza" che egli auspica. E', in effetti, attorno ad un Consiglio dei ministri dell'Unione monetaria, ad un Consiglio politico dell'Unione monetaria composto dai capi di governo dell'Unione e da una Commissione parlamentare composta da membri dei Parlamenti nazionali, che egli propone di organizzare questa Europa a "vocazione federativa".
Alain Juppé e Klaus Kinkel - ministri degli esteri, rispettivamente, di Francia e Germania - evocano, da parte loro, numerose iniziative, in corso o a venire, in favore dell'integrazione europea ... guardandosi bene dal sottolineare che la maggior parte di queste si sviluppano fuori dal quadro istituzionale dell'Unione europea!
In effetti la libera circolazione delle persone, pur iscritta nel Trattato CEE, si organizza all'interno di una struttura multilaterale (Schengen) quindi solo intergovernativa e comunque concepita per essere integrata nel III pilastro del Trattato sull'Unione Europea, esso stesso intergovernativo; l'Eurocorps è una iniziativa franco-tedesca-belga-ibero-lussemburghese; il coordinamento delle marine è un'iniziativa franco-italo-spagnola; l'agenzia degli armamenti è franco-tedesca; la struttura di coordinamento dell'aviazione militare è franco-britannica ...eccetera.
Una centralità francese che si può difficilmente spiegare con i soli criteri geografici.
Naturalmente, questo giro "panoramico" dei due ministri permette loro di evitare di affrontare un problema centrale, quello della governabilità dell'Unione, che si limitano ad evocare quando dicono che: "L'Unione europea è una delle fondamenta più importanti di questo nuovo ordine di sicurezza in Europa. Essa non può assumere questa missione che se la capacità di decisione delle sue istituzioni viene mantenuta e rafforzata.
Una questione che il gruppo parlamentare CDU-CSU aveva posto in modo inequivocabile in un documento pubblicato nel settembre scorso che aveva provocato un certo scalpore; nessuna "capacità di decisione", nessuna democrazia, nessuna trasparenza ...è possibile "senza una riforma federale dell'Europa", afferma il documento; "le riforme devono tendere verso una nuova concezione della ponderazione delle istituzioni, conferendo progressivamente al Parlamento il carattere di organo legislativo ad uguaglianza di diritto con il Consiglio; quest'ultimo essendo chiamato ad assumere, accanto ad altri compiti per di più di natura intergovernativa, il ruolo di seconda Camera, vale a dire di Camera degli Stati, e la Commissione esercitando gli attributi di un governo europeo."
Il documento tedesco ha avuto l'indubbio merito di rilanciare il dibattito sull'assetto istituzionale e politico europeo, specie nei paesi tradizionalmente più attenti a queste tematiche (le reazioni spagnole ed italiane, ad esempio, si sono soffermate quasi esclusivamente sulla questione di una possibile esclusione dal cosiddetto "nucleo duro") soprattutto sul punto forse più delicato fra tutti: quello del modello federale dell'integrazione europea. In effetti, con poche eccezioni, tutti, nell'impossibilità di utilizzare l'alibi britannico, si vedono obbligati a constatare la loro radicale comunione di veduta quanto alla necessità di continuare a subordinare la costruzione europea agli interessi nazionali, dimostrando la loro incapacità, la loro assenza di volontà o la loro opposizione irriducibile alla possibilità e alla necessità di far emergere un interesse superiore comune, europeo.
Nelle ultime settimane, poi, da parte britannica in particolare sono riemerse le posizioni più oltranziste contro le istituzioni comunitarie per eccellenza, Parlamento europeo e Commissione, che prefigurano l'importanza del processo di revisione dei Trattati che sta per cominciare.
Non è più in gioco, come nel 1985 per l'Atto Unico e nel 1991 per il Trattato di Maastricht, "quanto" si progredisce, insieme, per una maggior integrazione politica e per un maggior carattere democratico e partecipativo delle istituzioni e delle procedure decisionali, ma "se" si progredisce, "con chi" e "con quali istituzioni", partendo dalla rimessa in discussione del ruolo motore della Commissione europea e del carattere rappresentativo del Parlamento europeo stesso.
Né, purtroppo, le recenti prese di posizioni coraggiose, anche se forse tardive, di Jacques Delors - che ha evocato a Strasburgo nel suo discorso d'addio, la necessità di creare una "Federazione di Stati nazionali" e di privilegiare quindi il metodo federale, e dello stesso François Mitterrand, possono farci dimenticare che oggi il rischio di una completa rinazionalizzazione dell'Unione europea è più che mai vicino.
In un tale contesto, più ancora che di una "riformetta" la conferenza del 1996 rischia di partorire una vera contro-riforma. Non si vede in effetti come, rebus sic stantibus sul piano della mobilitazione dei cittadini europei, la Germania, anche se raggiunta da un'Italia ritornata alla sua tradizione federalista europea, potrebbe opporsi ad un fronte comune "franco-britannico", per di più saldato da tre anni di "lavoro" comune nella ex Jugoslavia ... Milosevic, Karadgic e Mladic ringraziando ...
Il Partito Radicale trasnazionale e transpartito può e deve alzare le sue bandiere, i valori che ha sempre difeso a partire dalla grande campagna per "gli Stati Uniti d'Europa" condotta sulla base del Progetti di Trattato dell'Unione di Altiero Spinelli, del Parlamento europeo, per affermare una serie di convinzioni, vecchie e nuove, di punti fermi, senza i quali l'integrazione europea, la grande sfida di costruire insieme, da Est ad Ovest, un Europa giusta, libera, democratica, rischia di trasformarsi nella fine del sogno europeo. Solo una grande mobilitazione delle classi politiche, dei parlamentari, dei movimenti federalisti ed europeisti, su punti come quelli qui appresso indicati può contribuire a fare del 1996 la data di un balzo in avanti dell'Unione europea e non quella del suo declino, della sconfitta del progetto che sta alla base dell'integrazione europea.
La Conferenza intergovernativa del 1996 dovrebbe dare un seguito concreto ai seguenti obiettivi:
1. Allargamento dell'Unione e adesione immediata della Bosnia
La questione dell'allargamento all'Est deve, per delle ragioni evidenti di sicurezza e stabilità del continente (gli esempi della ex Jugoslavia e della Cecenia insegnano), nonché di consolidamento dei processi democratici, diventare una priorità politica dell'Unione e contemplare, di conseguenza, un calendario di realizzazione preciso e vincolante. Tale allargamento deve coinvolgere in particolare tutti i paesi dell'Europa centrale e balcanica, a due condizioni: che i paesi interessati siano retti da un sistema di democrazia politica e che vi sia una volontà reale, da parte dei paesi candidati, di aderire al progetto di creazione di un'Europa federale.
Un'unica eccezione va applicata a questa tabella di marcia successiva all'appuntamento del 1996: quella riguardante la Bosnia-Erzegovina. L'Unione dovrebbe in effetti proporre alle autorità legittime di questa repubblica, internazionalmente riconosciuta, di avviare immediatamente le procedure necessarie per la sua piena e completa adesione nel più breve tempo possibile all'Unione europea. Aldilà infatti degli argomenti economici che possono essere invocati, peraltro facilmente contestabili, per ritardare l'adesione dei paesi ex comunisti o ad "alta instabilità" come la Bosnia, l'argomento centrale è in questo caso senz'altro quello politico: "L'Europa muore o rinasce a Sarajevo". In effetti, solo una simile iniziativa da parte dell'Unione europea, assortita da meccanismi specifici per il necessario periodo di transizione riguardante il mercato unico, ma che non metterebbe in discussione la piena appartenenza della Bosnia all'Unione europea sarebbe in grado di interrompere la spirale di indifferenza e di cini
smo che caratterizza l'azione dell'Unione europea su quel fronte, non solo per quanto riguarda la Bosnia, ma anche per la Macedonia, il Kossovo, eccetera.
2. Creazione di una Corte costituzionale europea
Per fare si che l'ampliamento ai paesi dell'Europa centrale e dell'Est possa effettivamente avere luogo in tempi relativamente brevi, bisogna darsi da oggi gli strumenti per evitare che l'entrata di nuovi membri porti ad un blocco del funzionamento dell'Unione: già le procedure decisionali attuali sono particolarmente complesse, opache e poco democratiche: tutte sono poco efficaci. Ed in questo contesto è facile, fin troppo facile che l'intero meccanismo si inceppi: le "bizze" di inglesi o danesi, la cattiva volontà della Commissione, le "ripicche" di italiani o spagnoli, le pressioni di politica interna su un presidente del Consiglio sono fattori sufficenti a paralizzare per mesi, a volte per anni, il processo decisionale. Finora si sono evitati gli ostacolo grazie a continui compromessi spesso sui principi costitutivi stessi, a degli opting-out, a delle eccezioni che stanno però progressivamente e silenziosamente conducendo ad una rinazionalizzazione delle politiche comunitarie in nome di un applicazione d
istorta del principio di sussidiarietà. Ma non basta: la scelta fatta a Maastricht di non dare all'Unione una struttura istituzionale coerente e unitaria per tutti i settori di intervento, lasciando deliberatamente la politica estera e gli affari interni ad una gestione totalmente intergovernativa, si è tradotta nel completo fallimento della ambizione di dare all'Europa un peso e un ruolo autonomo sulla scena internazionale e di farne uno spazio senza frontiere interne per i suoi cittadini.
Lo stesso errore non deve ripetersi nel 1996: tra i temi fondamentali della riforma (e sarà da queste scelte cruciali che emergerà con chiarezza chi vuole fare parte di una Unione politica che funzioni e chi no) saranno quelli dell'eliminazione della struttura a "pilastri" dell'Unione e della semplificazione e democratizzazione delle procedure decisionali e dei testi normativi: questo in concreto significa che il Consiglio - unico organo legislativo in Europa che decide a porte chiuse - non dovrà più essere l'unico vero centro legislativo e di governo dell'Unione, che lo spazio della cooperazione intergovernativa e delle decisioni all'unanimità deve essere radicalmente ridotto e che tutte le competenze dell'Unione devono essere ricondotte nell'ordinamento comunitario; anche per l'Europa deve inoltre finalmente valere il sano concetto della separazione dei poteri...: Parlamento e Consiglio devono esercitare alla pari la funzione legislativa e la Commissione deve assumere in pieno il ruolo di governo dell'Unio
ne, liberandosi infine di tutto quel complesso sistema di pesi e contrappesi che oggi la condiziona a livello degli stati membri - e ne riduce i poteri di iniziativa e di esecuzione.
In questo quadro, la funzione della Corte di Giustizia, che è stata uno dei fattori più importanti di consolidamento dell'ordinamento comunitario, non deve limitarsi al controllo della corretta applicazione del diritto comunitario. In una Unione politica democratica, dotata di istituzioni separate ed autonome da quelle degli stati membri, nella quale norme e decisioni producono effetti diretti sulla vita e le attività di tutti coloro che vivono ed operano sul suo territorio, nella quale la dimensione di una cittadinanza europea deve essere meglio definita e allargata, è necessario che la Corte di Giustizia divenga una vera e propria corte costituzionale: suo compito dovrà essere quello di assicurare che i diritti e i doveri di istituzioni, cittadini, regioni, stati membri siano rispettati e che gli atti presi dall'Unione non violino i principi fondamentali su cui l'Unione si fonda.
3. Unicità delle procedure decisionali e delle istituzioni
Coerentemente con il punto precedente, la Conferenza intergovernativa del 1996 deve portare alla "comunitarizzazione" del secondo e del terzo pilastro dell'Unione, la Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) e degli Affari Interni e di Giustizia (AIG).
Parallelamente, deve sancire la sopressione dei vincoli che ostacolano l'attività di esecuzione della Commissione (la cosiddetta "comitologia") frapposti dai governi dei paesi membri per impedire l'affermarsi di un vero e proprio "governo europeo", pur se limitato alle materie di pertinenza comunitaria, deve semplificare drasticamente le procedure decisionali, decidendo la pubblicità delle riunioni del Consiglio quando agisce in quanto legislatore, riformando altresi la gerarchia delle norme comunitarie per arrivare, anche in questo caso, ad una razionalizzazione degli strumenti operativi dell'Unione.
4. un Presidente per l'Europa
L'opacità, la mancanza di efficacia, visibilità e coerenza della "leadership" dell'Unione, cioè del Consiglio - ed in particolare della sua Presidenza ruotante ogni sei mesi - e della stessa Commissione, sono uno dei motivi principali della disaffezione del pubblico per l'Unione, percepita a torto o a ragione comeun'entità potente ma inafferrabile, senza volto né nome, persa tra le nebbie di Bruxelles: se tra gli obbiettivi della riforma del 1996 ci deve essere, oltre alla democratizzazione dell'Unione e al riequilibrio dei poteri delle istituzioni, anche quello di assicurare visibilità e rappresantività all'Unione e renderla quindi credibile tanto sul piano interno che su quello internazionale, allora è necessario porsi il problema di come si può rendere più esplicito il legame tra i popoli europei e la leadership dell'Unione; una leadership certo controllata e democraticamente responsabile, ma pur sempre una leadership.
A partire da questo principio, che andrebbe acquisito, un ampio dibattito potrebbe svilupparsi sul ruolo di questo "presidente dell'Unione:
Si può prendere seriamente in considerazione l'ipotesi di una presidenza dell'Unione che corrisponda all'esecutivo, cioè a dire alla Commissione e che sia eletto a suffragio universale: un Presidente che possa scegliere i membri del governo per l'Europa tra candidati presentati dai governi nazionali e che sia sottoposto al controllo di Parlamento e Consiglio, nel quadro s'intende della radicale riforma democratica dell'Unione delineata più sopra e di una più esplicita ripartizione di competenze tra stati membri, regioni ed Unione.
Si puo, viceversa, pensare ad un "Presidente dell'Unione" in quanto tale, come carica autonoma e distinta dagli altri organi esistenti, eletto da un congresso composto per metà da rappresentanti dei parlamenti nazionali e per metà dai parlamentari europei - e magari successivamente a suffragio universale - ed incaricato di alcuni specifici e puntuali compiti, come la presidenza "superpartes" del Consiglio europeo, la presidenza dell'attività dell'Unione nel campo della politica di sicurezza, l'incarico di designare il candidato alla Presidenza della Commissione, la nomina dei giudici della Corte di Giustizia, di rappresentare l'Unione nelle istanze internazionali.
5. Uniformizzazione effettiva del sistema di elezione del Parlamento europeo
Una delle critiche ricorrenti riguardo al Parlamento europeo è la sua scarsa rappresentatività in virtù di leggi elettorali disparate fra stato e stato, complesse, talvolta di concezione radicalmente diversa dalle leggi elettorali per il parlamento nazionale, insomma scarsamente motivanti per il cittadino europeo. Allo stesso tempo, si esalta nel Trattato di Maastricht la funzione dei "partiti politici organizzati a livello europeo", si adottano disposizioni che permettono il voto e la candidatura alle elezioni europee al di fuori del territorio del proprio stato, salvo poi opporsi a qualsiasi tentativo di giungere, infine, ad una legge elettorale europea unica ed uniforme per tutta l'Unione.
E' dunque essenziale che nel 1996 si riesca ad arrivare quantomeno ad una "calendarizzazione" del processo decisionale necessario per fare si che le prossime elezioni europee si tengano sotto un unica legge elettorale, indipendentemente dal modello proporzionale o maggioritario che si vorrà privilegiare, e per il quale occorrerà in tempo utile avviare un serio dibattito, consentendo in particolare l'affermarsi di veri "partiti europei" che prendano il posto delle rituali, ed un po inutili, "internazionali" dei partiti oggi esistenti.
6. Democrazia linguistica
Numerosi sono, ormai, coloro che sottolineano che il problema centrale della costruzione europea è costituito dalla questione della comunicazione, tanto tra i cittadini dell'Unione quanto in seno alle istituzioni europee. Anche Giscard d'Estaing, per esempio, afferma che "i negoziatori dovranno rimettere in questione il numero delle lingue utilizzate nelle istanze comunitarie" e "la capacità di riformare questo sistema, e a ridurre a quattro o cinque il numero di lingue di lavoro, costituirà un primo test della volontà di rinnovamento delle pratiche comunitarie". Ma quando il ministro francese Lamassoure ha proposto, seppur in modo informale e poi smentito, di ridurre il numero di lingue a quelle dei 5 grandi paesi (tedesco, francese, inglese, italiano e spagnolo), abbiamo assistito ad una levata di scudi immediata da parte degli altri paesi membri dell'Unione.
Precisiamo immediatamente che la questione non è, in alcun caso, di rilanciare una qualunque "ricerca della lingua perfetta", ma quella di affrontare un problema, ben reale, sia di comunicazione e di democrazia linguistica, non solamente all'interno delle istituzioni europee ma anche tra i cittadini europei, sia un problema finanziario e di bilancio (le implicazioni in termini finanziari dei diversi servizi di traduzione e d'interpretariato di una Unione a 9 lingue rappresentano oltre l'1% del bilancio globale).
Il primo problema è di natura istituzionale. In effetti secondo il principio di sussidiarietà, che vuole che ciascun problema sia trattato a livello più pertinente con la sua natura e dimensione, il settore "dell'educazione e dell'insegnamento" è rimasto quasi esclusivamente (con l'eccezione, per esempio, delle procedure di equivalenza dei diplomi) di competenza nazionale. Per il 1996 un primo obiettivo potrebbe essere quello di attribuire alle istituzioni europee le competenze relative alla definizione di una politica europea di comunicazione linguistica, lasciando agli Stati a alle regioni la sua esecuzione.
Il secondo problema da affrontare, politicamente molto più difficile, riguarda la natura di questa nuova politica europea. Pur se le proposte attuali appaiono manifestamente non in grado di fornire una risposta convincente, è doversoso constatare come l'unica proposta alternativa, quella volta all'insegnamento generalizzato di una lingua "artificiale" in tutte le reti europee d'insegnamento, soffra di un pregiudizio oggi largamente - ed è un eufemismo - negativo. Un pregiudizio che i principali sostenitori di questa opzione, gli esperantisti, contribuiscono, volenti o nolenti, a mantenere coltivando equivoci di tipo utopistico.
Ciò che porta ad affrontare il terzo problema, forse il più delicato, quello del ruolo di questa lingua artificiale. Conviene qui essere particolarmente chiari. Questa lingua deve essere una lingua di comunicazione, dunque una lingua ausiliaria; non intende sostituirsi, evidentemente, alle diverse lingue nazionali, ma neanche alle lingue straniere eventualmente conosciute. Essa è lo strumento di comunicazione comune a tutti, la seconda lingua di tutti. Studiata come tale da tutti, creerebbe le condizioni di una pari opportunità nella comunicazione (ciò che è molto raro nel caso in cui una lingua impiegata è lingua materna per una parte degli interlocutori, seconda lingua per l'altra). Molteplici studi dimostrano peraltro che il suo apprendimento favorisce l'apprendimento successivo di altre lingue.
Infine, la struttura particolarmente logica di una tale lingua, la rende particolarmente propizia ad una utilizzazione come lingua di riferimento giuridico. Ciò che eviterebbe le interpretazioni divergenti come è spesso il caso oggi nelle organizzazioni internazionali che utilizzano più lingue di riferimento giuridico (il caso più conosciuto è quello di una risoluzione dell'ONU sui territori occupati dove i testi inglese e francese danno luogo a interpretazioni completamente differenti).
7. Come arrivare al 1996 ?
Avendo cosi delineato, a grandi tratti, quale Europa dovrebbe uscire dalla riforma del 1996, non è possibile chiudere ignorando che, allo stato, le possibilità che la Conferenza intergovernativa si chiuda con un accordo unanime su un'Europa forte, federale e democratica sono alquanto remote. Le crescenti divisioni tra gli stati membri quanto al futuro dell'Unione lo dimostrano ampiamente: che fare se la Conferenza rischia di concludersi con un nulla di fatto perchè non è possibile raggiungere un consenso tra i membri dell'Unione sulle modifiche da operare?
E' necessario fin d'ora porre il problema del metodo secondo il quale la revisione del Trattato di Unione avrà luogo; non si può più - le esperienze dell'Atto Unico e di Maastricht lo hanno dimostrato in modo lampante - lasciare le sorti dell'Unione nelle sole mani di una conferenza di diplomatici obbligati a raggiungere un consenso, magari di basso profilo e pieno di ambiguità e contraddizioni come è successo a Maastricht: in concreto, bisogna andare oltre lo stretto quadro giuridico definito per questra riforma dal Trattato di Maastricht, con l'articolo N: il negoziato tra gli stati deve essere aperto e condotto su scelte chiare; il PE, espressione della legittimità democratica a livello europeo deve esservi associato, attraverso una procedura che potremmo definire di "co-decisione costituzionale"; infine, già da ora gli stati membri devono aprire il dibattito in vista di un accordo sul modo più adeguato per evitare che l'unanimità richiesta dall'art. N costringa tutti ad uniformarsi a dei compromessi medi
ocri o porti all'impasse.
Solo così, con un impegno "politico" - precedente la fase conclusiva del negoziato - a voler seguire comunque questa via, sottoponendo poi i risultati ad un referendum "europeo" di ratifica, è possibile fare davvero dell'Unione europea affare di tutti i cittadini, progetto capace di affrontare, armati di ragionevolezza, il ventunesimo secolo.