E' opportuno che questo testo venga diffuso tra i nostri amici partecipanti al congresso affinché lo scenario di entrata in congresso sia chiaro.__________________________________________________________________
Roma, 14 gennaio 995
Care compagne, cari compagni,
sono profondamente spiacente di non poter aprire io stessa, come avrei voluto e come ero tenuta a fare, il 37· Congresso del Partito radicale. Da domani, infatti, mi trasferirò nella sede europea dove assumerò formalmente l'incarico che mi è stato affidato dal governo italiano. Invio dunque un caloroso saluto e un augurio fervido di buon lavoro a questo congresso che ho preparato e indetto, e al quale sono affidate decisioni fondamentali per quello che è ancora, posso dirlo, il mio partito, il Partito radicale transnazionale e transpartito delle speranze non solo italiane per la crescita del diritto e della nonviolenza al di là delle frontiere e nel cuore della comunità dei popoli.
Questa mia è una relazione manchevole: manchevole di tutte le parti che dovrebbero riferirsi al periodo di tempo che intercorre da oggi all'apertura della vostra assise: dal 14 gennaio, dunque, al 7 aprile. Tre mesi che porteranno qualche elemento fattuale nuovo, ma che non penso possano incidere sul nocciolo dei problemi che il partito si trova ad affrontare: e dunque, da questo momento, consentitemi di dimenticare e di non tener più conto del periodo di tempo che effettivamente ci separa, e di rivolgermi a voi congressisti al presente, come se fossi dinanzi a voi a leggervi queste poche pagine.
Questo 37· congresso è stato convocato in due scadenze. Ad un certo momento abbiamo deciso infatti di posticiparlo al 7 aprile, per abbinarne lo svolgimento con la marcia delle Palme di domenica 9 aprile. Sapevamo che la coincidenza avrebbe creato un problema aggiuntivo, perché avremmo dovuto ulteriormente ridurre i tempi congressuali, ma siamo convinti che i due eventi, ambedue indirizzati ad un unico progetto politico, saranno rafforzati dalla contiguità. Dobbiamo ora far sì che quella decisione risulti funzionale, lavorando su positivi risultati congressuali e facendo sì che la marcia sia incisiva sull''opinione pubblica e nel dialogo con i suoi interlocutori. I due eventi dovranno essere occasioni di crescita.
Ma intanto possiamo aprire il nostro dibattito con la piena consapevolezza di aver in questi anni compiuto un lavoro che, senza sicumera ma con tranquilla fierezza, posso definire di grande rilievo. Oggi il diritto, la vita del diritto, può contare su un valido strumento giurisdizionale a livello mondiale. Il Tribunale Penale è stato incardinato, ampliando le prospettive aperte dal Tribunale ad hoc per la ex Jugoslavia. Non è detto che riuscirà a superare gli ostacoli frapposti al suo funzionamento, ma c'è, e costituisce esso stesso il punto di partenza per una ulteriore - possibile, necessaria - nostra iniziativa; all'ONU, sulla pena di morte, si è finalmente aperto un grande confronto, di valore storico, e gli Stati, tragiche divinità assolute del nostro secolo, sono stati portati a mettere in dubbio il mito di una sovranità collocata al di sopra dei diritti civili e del diritto alla vita.
Questo lavoro, lo abbiamo compiuto tutti assieme, a Roma come a Mosca o a Zagabria, a Sofia o dovunque vi siano dei nuclei, dei cittadini che, nella loro apparente solitudine ma collegati da una comune profonda trama di convinzioni e di speranze, hanno sostenuto il comune sforzo: acquistando una tessera certo costosa, inviando fax, diffondendo i nostri fogli, i nostri comunicati, la nostra povera, essenziale informazione, organizzando e partecipando alle diverse iniziative e manifestazioni militanti e nonviolente, scrivendo lettere, sempre presenti e attivi in contesti difficili, ostili, lontani: sia a Roma che in qualsiasi città dove i conflitti, gli odi etnici, le incomprensioni razziali, culturali, religiose scavano abissi tra cittadino e cittadino, tra uomo e uomo e tra uomo e donna, negando alla radice quell'"irreductible humain" su cui, come ha detto Boutros-Ghali, si edificano i valori, le speranze, che ci costituiscono in comunità di dialogo.
E se pure dobbiamo sempre tener presente, ad evitare pericolosi errori di valutazione, che il raggiungimento dei due obiettivi è stato reso possibile anche per l'efficace intervento di un soggetto politico "nazionale", la Lista Pannella-Riformatori (a cui, in un momento elettorale difficile e controverso deve andare oggi il nostro caloroso saluto e il nostro più vivo augurio) e per l'attenzione prestata dal parlamento dal governo italiani a questi temi, abbiamo comunque ampio motivo di essere soddisfatti, nella consapevolezza che l'ideazione, come l'iniziativa e tutto il quotidiano, defatigante, necessario lavoro è stato compiuto da quel pugno di militanti che costituisce l'unica classe dirigente consapevolmente transnazionale del nostro tempo.
La nostra soddisfazione non può essere però piena e limpida: essa è offuscata e ferita, nell'intimo, dal vuoto lasciato dalla scomparsa inaspettata, dolorosa e violenta di tre nostri compagni: Alberto Torzuoli, Andrea Tamburi e Mariateresa Di Lascia. Compagni preziosi, ed amici cari: Alberto nella sua generosità di militante sempre pronto e disponibile ad ogni necessità e chiamata del partito, insostituibile nel coprire alle incombenze più diverse e delicate senza chiedere per sé; Andrea, per come, senza esitazioni, aveva saputo abbandonare una esistenza tranquilla e fattiva per abbracciare con entusiasmo il lavoro, pieno di incertezze e spesso ingrato, del militante proiettato in realtà diverse e lontane; Mariateresa per quanto, in anni di militanza, ci ha donato con la sua parola aspra e sollecita, con la sua intelligenza umana e politica dei rapporti e dei valori che devono necessariamente presiedere ad una impresa quale è la nostra. Parti essenziali, l'uno e l'altro di questi compagni, e ciascuno a suo m
odo, del corpo del nostro partito, che si è costruito e ha potuto vivere negli anni, nei decenni, solo per l'apporto di tante diverse esperienze, incomparabili e tutte necessarie. A loro, ad Alberto, ad Andrea, a Mariateresa il nostro ricordo e il nostro saluto.
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Gli ultimi due anni, quelli trascorsi dalla Assemblea di Sofia ad oggi, sono stati - ripeto - intensi e produttivi. Il bilancio che se ne può trarre e di una importanza che ancora, probabilmente, non possiamo valutare appieno. Una esposizione puntuale e dettagliata, una cronologia precisa e comprensiva di queste vicende vi sono già state distribuite, come parte prima e seconda (più i vari allegati) di questa mia relazione introduttiva. Ho scelto questa via per risparmiare un po' dello scarso tempo disponibile (lo sapete, abbiamo dovuto ridurre questo congresso al minimo, costrettivi dalla esiguità delle risorse finanziarie disponibili). Senza dunque ripercorrere minutamente le tappe che hanno segnato questi anni, mi limiterò a un rapido schizzo di valutazione e di sintesi, finalizzato a trarre immediatamente alcune basi di discussione alle vostre decisioni congressuali. Decisioni, anticipo ancora, che ritengo debbano ruotare attorno a una sola, precisa, inequivoca scelta: che può essere riassunta - come fac
cio - nella consapevolezza di dover considerare chiuso un ciclo della vita del partito e di dover compiere un'altra volta, come già nel passato e sia pure con forme diverse e soluzioni diverse (vi ricorderete certamente di un consiglio federale tenutosi a Bohinj, nell'allora Jugoslavia) una drastica rottura di continuità con il nostro ieri.
Proprio i nostri indiscutibili successi ci consigliano - ci ingiungono - una decisione come questa, per dolorosa che ci appaia e oggettivamente sia. Certamente abbiamo commesso errori, ma nulla che ci possa indurre a cambiamenti essenziali di rotta. E il primo elemento forte e positivo è ancora nella scelta iniziale. Alla luce di tutta la nostra esperienza, è sempre più evidente che la scelta politica su cui il partito transnazionale venne disegnato, progettato e, in parte, realizzato dal Congresso di Budapest del 1989, era ed è giusta, previdente, di lunga prospettiva. Non ho né dobbiamo avere alcun pentimento, e non dobbiamo quindi pensare di poter risolvere i problemi di oggi attraverso una via riduttiva, rinunciataria rispetto a quello che siamo stati e siamo. Io non lo consentirei. Mai come oggi avvertiamo, nel disordine che ci circonda in ogni parte del globo, che la sfida di organizzare come partito la politica del diritto e della nonviolenza era, è, valida, necessaria e urgente. E, mentre non crediam
o nei progetti che cercano di imporre un "ordine nuovo" al mondo attraverso accordi multilaterali di Stati, o attraverso l'esercizio monopolistico della forza di polizia da parte di un solo Stato (cosa a volte necessaria ma non soddisfacente e sopratutto non risolutiva) pensiamo che sia fondamentale ancora impegnarci perché - come era scritto nel nostro documento di Budapest del 1989 - "alla stessa ora, nello stessa forma, in più parlamenti siano presentati analoghi disegni di legge, o uno stesso disegno di legge" per promuovere, in una dimensione transnazionale, diritto e giustizia. In stretto e positivo collegamento con questa è l'altra nostra caratteristica, di essere una internazionale ad adesione diretta, non mediata dalle burocrazie dei partiti "nazionali", capace di coinvolgere cittadini di ogni paese intorno ad iniziative politiche a carattere nonviolento promosse o sostenute nei vari parlamenti nazionali dai parlamentari iscritti anche al Partito radicale.
Tenendo la barra fissa su queste indicazioni, abbiamo combattuto con successo all'ONU le battaglie per il tribunale penale permanente e per l'abolizione della pena di morte.
Nelle due parti precedenti della mia relazione troverete la cronaca e una valutazione anche delle altre iniziative che hanno assorbito le energie nostre e delle associazioni assieme alle quali le abbiamo condotte, inquadrandole sempre, sul piano del metodo, sotto il denominatore di quell'antiproibizionismo radicale che cerca, attraverso la definizione e la conquista di leggi positive, di sviluppare in primo luogo la libera responsabilità dei singoli, dei cittadini. Nella varietà dei temi affrontati, esse sono dunque un nostro patrimonio unitario, del quale non vi è nulla da rifiutare o accantonare.
Se si limitasse a tirare le somme di quanto abbiamo fatto, sembrerebbe naturale che il congresso debba porsi come suo obiettivo quello del COME sviluppare ulteriormente le varie iniziative. Ed è proprio quel che abbiamo cominciato a fare quando abbiamo indetto il congresso, ponendoci una serie di domande, tutte essenziali, e cercando di dare loro una risposta.
Dunque, in prima sintesi: A quali progetti, a quali inizitive il partito dovrebbe dare priorità? E quale dimensione, quali strutture sarebbero necessari, a partire da domani, per impegnarci sui diversi fronti appena ricordati, per aprire nuove sedi, per affrontare nuovi temi? E' il partito, con il gruppo militante e dirigente di questi anni, in grado di garantire l'iniziativa politica ai livelli necessari e adeguati?
Altrimenti detto: quali investimenti finanziari sarebbero necessari, magari per mantenere i livelli attuali o anche per immaginare una dimensione più ampia e adeguata alle nuove esigenze? Possiamo individuare possibili nuovi apporti, di individui e organizzazioni politiche "altre"? Ci sono, nell'occidente o nel centro-est europeo persone, parlamentari o cittadini in grado di assumere ora responsabilità di dirigenti del partito?
E poi, del tutto "ovviamente": come far crescere la comunicazione di un soggetto politico che ha avuto e ancora avrà come interlocutori le Nazioni Unite e i parlamentari, ma vuole raggiungere anche cittadini e singoli, per coinvolgerli in modo diretto in iniziative militanti? Potrà per esempio il Partito radicale, nell'imminenza di una rivoluzione tecnologica destinata a sconvolgere il futuro del mondo, ignorare, non avvalersi dei nuovi strumenti telematici? Ma, anche qui, quali investimenti, quali conoscenze e competenze, quanto tempo occorrerebbero?
Abbiamo ormai accertato che per garantire gli attuali livelli di presenza occorre realizzare un flusso annuale - costante e stabile, di iscritti (o constribuenti non-iscritti) - che sia dell'ordine di dimensione di quello raggiunto con la campagna 1992-1993, vale a dire di circa 30000 iscrizioni a quota "italiana". Ma esistono altre situazioni in grado di garantire un simile apporto, così da ridurre l'ipoteca e l'attesa che oggi grava solo sul cosidetto "serbatoio italiano"?'
E infine: l'azione del Partito radicale deve privilegiare alcune aree, già note e sperimentate, oppure cercare di aprirsi anche ad altre, come l'Africa, che non apportano risorse economiche ma hanno mostrato di poter accogliere il suo messaggio?
Di fronte a tante domande - alle quali non si può, responsabilmente, dare una risposta evasiva o elusiva se si vuole che il Partito radicale transnazionale sia non un mero fatto di testimonianza ma un soggetto politico commisurato ai suoi obiettivi e sopratutto alle necessità del nostro tempo - dobbiamo tener presente, con franchezza, senza aver paura della realtà, senza nasconderla sopratutto ai nostri occhi, un dato estremamente preciso e puntuale: Il partito attuale, nella sua classe dirigente e militante, nelle sue forze effettive - quelle che sono impegnate fulltime nel lavoro oscuro, faticoso, essenziale, di sviluppare con iniziative quotidiane, passo passo, le singole iniziative, da New York a Roma a Mosca, ecc., o anche quelle che danno al partito la risorsa, limitata ma importante e preziosa del loro "tempo libero" inteso come momento di dedizione, di intelligenza, di partecipazione, ecc. - non può contare complessivamente su più di 200 persone circa.
Tentar di rispondere alle domande, tentare di sciogliere i vari problemi non tenendo presente, rimuovendo questo ineliminabile dato di partenza, sarebbe irresponsabile, illusorio e pericoloso. A questa elementare realtà dobbiamo restare ancorati, se vogliamo che ogni nostro progetto abbia un senso preciso e non sia una aspirazione illusoria, per noi e sopratutto per quanti, sapendo della nostra presenza, scaricano su di noi, sul partito, speranze o sogni, così sgravandosi della responsabilità di fornire un contributo alla loro realizzazione.
Noi non possiamo, non dobbiamo assolutamente consentire di diventare un alibi, agli occhi di nessuno: neppure ai nostri.
Ma altre considerazioni si sommano a questa prima, non meno urgenti, impellenti, alle quali non si può sfuggire, ignorandole o sottovalutandole o, magari, scaricandosene. Io ho cercato di farmene carico, giungendo alla conclusione che esse condizionino in modo determinante le scelte che sono dinanzi al congresso, se non si vuole fare fughe in avanti.
Le cifre della relazione finanziaria presentatavi dal tesoriere parlano da sole: questo partito per vivere al minimo delle attività ha bisogno mediamente di 330/350 milioni la mese, circa 4 miliardi all'anno. Come potete vedere dagli allegati, tale cifra media mensile comprende quanto è minimamente indispensabile a tener aperte - solamente "aperte" - via di Torre Argentina, Budapest, Bucarest, Tirana, Varsavia, Zagabria, Mosca, Kiev, Baku, Tbilisi, Erevan, San Pietroburgo, Vilnius, Minsk, Alma Ata, Tashkent, Praga, Sofia ed ora, se si vuole, New York, corrispondendo un minimo di rimborso spese ai compagni che vi operano, oltreché per consentire alle associazioni che ospitiamo nella sede di Roma di avere una struttura di base e i servizi indispensabili.
Ma 350 milioni al mese sono sufficienti solo alla sopravvivenza quotidiana; non a sostenere efficacemente, a rilanciare una sola campagna politica dell'ampiezza di quelle condotte nei confronti dell'ONU sulla pena di morte o sul Tribunale speciale: tanto meno per affrontare, con realismo, gli altri obiettivi indicati da documenti e mozioni, con la massa dei problemi, delle necessità, che impongono o imporrebbero.
350 milioni al mese, quattro miliardi l'anno sono, in sostanza, troppo poco per le idee e i progetti che il partito della nonviolenza, del diritto quotidianamente produce. Né, d'altra parte, vogliamo abbandonarci alla mera sopravvivenza. Io respingo con decisione, e mi auguro che il congresso abbia analoga sensibilità, una simile prospettiva. Il problema da sciogliere è esattamente l'opposto: come crescere, come divenire adeguati per rilanciare i nostri obiettivi?
Ci si ripresenta, insomma, una situazione finanziaria che per l'ennesima volta pone a rischio il progetto radicale. Abbiamo tentato di affrontarla subito, non appena essa cominciò a chiarirsi ai nostri occhi nella sua gravità, rallentando o impedendo le attività nel semestre precedente il congresso. Non abbiamo trovato soluzioni accettabili. Né facciamoci illusioni (lo dico subito prima che qualcuno cerchi di riproporla in congresso): una ripetizione della campagna iscrizioni del 1993 in Italia, quando si associarono al partito circa 30.000 persone dandoci un periodo di respiro e qualcosa anche di più, è irripetibile: la congiuntura politica italiana è profondamente mutata e non si vede una ipotesi di sbocco a noi favorevole come avvenne - anche a seguito di un "felice equivoco", come venne definito - nel 1992/1993. Certo, se dovessero presentarsi imprevisti eccezionali, tali da mutare il quadro e da rendere ancora aggredibile il cosidetto "serbatoio italiano" saremo come sempre pronti a cogliere l'opportuni
tà; ma sarebbe assurdo farci conto oggi. E, d'altra parte, un Partito radicale che dovesse ogni anno dedicare la maggior parte delle sue energie per raggiungere quel numero minimo di iscrizioni o sottoscrizioni che fosse indispensabile alla sopravvivenza pura e semplice è impensabile: sarebbe una struttura antieconomica e improduttiva, o produttiva solamente della propria perpetuazione: questo è il destino cui si sono votati troppi altri soggetti, esaurendo in esso le stesse proprie ragioni di vita. Noi, questo, non lo vogliamo.
Il combinarsi dei problemi e delle difficoltà finanziarie con i problemi e le difficoltà di ordine più schiettamente politico è, come vedete, tale da porre ostacoli insuperabili, e da imporre scelte drastiche e risolutive.
Io non ho altra indicazione da proporre al congresso, pertanto, se non che si debba prendere atto della conclusione di un ciclo, quello nel quale abbiamo pensato, realizzato, fatto lavorare - e bene - un certo modello di partito, con certe strutture e un certo modello di organizzazione, di radicamento, e per conseguenza certe incomprimibili necessità in fatto di risorse umane, finanziarie e strutturali. Questo ciclo - durato complessivamente circa 6 anni - va considerato chiuso. Va chiuso, ripeto, un periodo, non va chiuso il partito, né va minacciata, come facemmo nel 1992-93, la sua chiusura. Allora, quel che possiamo ragionevolmente fare, è di affrontare un periodo che penso debba essere di "straordinarietà", di "sospensione", cioè di riflessione e di ripensamento generale su quanto abbiamo fatto e su come, se e quando sarà possibile avviare un nuovo inizio, ancorato al passato ma anche, in strumenti e strutture, in risorse e modalità, radicalmente diverso.
Non è un escamotage, né un appello per l'ultima prova, per l'ultima scommessa. Non è una ripetizione del 1989 a Budapest, quando le strutture del partito vennero azzerate e la sua gestione affidata a un "quadrumvirato", che sciolse la riserva, e rilanciò il partito, nel 1992/1993; non è una ripetizione della scommessa del congresso del 1992, nelle sue due sessioni, quando lanciammo la sfida dei 30.000 nuovi iscritti dal "serbatoio italiano". Come ho detto, non siamo davanti a nessuna delle due ipotesi, anche se il richiamo ad esse può essere suggestivo.
La situazione in cui ci troviamo ha una sua precisa specificità. Essa presenta anche, e li ho sottolineati, problemi, condizionamenti, finanziari: ma deve innanzitutto fronteggiare un problema che è politico: il problema di una classe militante e dirigente insufficiente, non certo per qualità ma per dimensioni, a sostenere una ipotesi di crescita del partito.
Problema di classe dirigente. Lo ripeto: una classe dirigente che, nella sua duplice composizione di coloro che sono impegnati full time e di quanti sono invece impegnati in quote, seppur consistenti e moralmente assorbbenti, del loro tempo, non supera forse di molto (se lo supera) il numero di duecento persone, ha potuto compiere, realizzare, quello che ha realizzato in questi anni (e di cui anche il congresso è conferma); ma domani, e già oggi, ogni giorno, dobbiamo constatare che in questa dimensione non è più possibile lavorare con una prospettiva valida. Ce ne aveva avvertito anche l'allora tesoriere paolo Vigevano, nella relazione tenuta all'Assemblea di Sofia, ma fino ad oggi la situazione non è sostenzialmente mutata.
Certo, possiamo e dobbiamo chiederci cosa sarebbe successo se anche altrove, in altri Paesi, e sia pure in parte minima, si fosse verificato quanto ha caratterizzato in questi anni - in risorse e militanza - il cosidetto serbatoio italiano. Ma un tale apporto, o un apporto paragonabile, è mancato. Di ciò il congresso deve prendere atto, su questo deve riflettere, e rispetto a questo dare una risposta: se è vero che si sono iscritti in questi due anni più di quattrocento deputati e parlamentari di vari paesi, e se questo apporto è stato, in più di una occasione, determinante, prezioso, per fare conseguire al partito alcuni dei suoi successi, va anche denunciato, con forza, che solo in pochissimi casi questi nostri (ripeto, nostri) parlamentari hanno avvertito l'importanza di un loro più consistente contributo di presenza e di collaborazione - non a full time, ma nel loro "tempo libero", come noi lo concepiamo - che fosse il "valore aggiunto" su cui far leva per dare al partito la dimensione, la forza necessar
ia.
Oggi, sono presenti al congresso alcuni, molti parlamentari, sopratutto provenienti dall'Europa dell'Est. Davanti a questa relazione, e ancor più dallo svolgimento del congresso, essi potrebbero essere spinti a pensare: cosa stiamo a fare qui, dove non si parlerà che pochissimo di Bosnia, di Macedonia, di Cecenia, o di Russia, ma di altro, che è però distante dai nostri problemi? A questi dubbi io rispondo subito: il primo obiettivo da porsi, se si vuole non solo "parlare" ma agire efficacemente sulla questione Bosnia e sulle altre cose, è il come fare vivere, crescere e rendere forte il Partito radicale. Noi in definitiva non rimproveriamo a questi compagni di non avere "dato" al partito, ma di non esserselo "preso", di non averlo occupato, di non averne fatto cosa propria, di non aver saputo o magari di non aver potuto farsi una forza di questa appartenenza, di questa militanza, per rafforzare la loro "presenza" nazionale. Cari amici, deputati della "Duma", o del parlamento bosniaco, o bulgaro: sta a voi r
ovesciare i termini della questione, e fare di questo partito transnazionale una bandiera o un'arma per le vostre battaglie "nazionali". E' per questo che il Partito radicale è non solo transnazionale ma anche transpartito! In queste ultime settimane, in Voivodina, una intera classe dirigente e politica si è iscritta. Mi auguro che questi nuovi amici sappiano condurre, issando la bandiera di Gandhi, numerose e forti battaglie per la Voivodina, utilizzando il sostegno del partito e dei suoi militanti italiani o francesi o di altra parte del mondo. Quello della Voivodina è un esempio da imitare e da moltiplicare, in termini attivi, non di mera, solo formale, presenza.
Se è questo uno dei maggiori nodi da sciogliere, è evidente che io non posso dare una risposta, non posso dare soluzioni. Posso solo pormi in attesa che maturi qualcosa che non è in mio potere. Ecco perché non ho altra indicazione da dare al congresso se non di consentire a tutto il partito una pausa, appunto, di riflessione e di ripensamento globale. Non chiusura, non simulazione, non minaccia, non appello alla buona volontà, o ai sensi di colpa di qualcuno.
Come questa "pausa" di riflessione debba essere articolata, attraverso quali strumenti e forme, non saprei, ora, dirlo. Tutto ciò deve formare oggetto del dibattito congressuale. E' però mia convinzione che una gestione straordinaria quale è quella che vi suggerisco richiederà strutture e forme straordinarie, da vero e proprio "commissariamento". Un commissariamento che sarebbe di "liquidazione" se fosse indirizzato fin da adesso, per mandato, verso una tale soluzione. Non di questo si tratta però, evidentemente: l'organismo straordinario di gestione, il "commissario" insomma, dovrebbe avere pieno e libero mandato di esplorare, sia pure in un tempo determinato, le strade possibili di rilancio, in forme nuove, del partito, come partito "vincente", proiettato verso il positivo, non rinchiuso in se stesso, non in stallo. Solo in estrema ipotesi, quando ogni verifica fosse stata fatta, ogni possibilità fosse stata esplorata, potrebbe configurarsi la necessità di una chiusura definitiva di questa nostra esperienz
a politica. Certo, questa è una grave responsabilità per una sola persona, ma anche un modo di affrontare il problema in linea con la nostra tradizione istituzionale, tendenzialmnente "monocratica", responsabilizzante. Si potrebbe peraltro pensare anche che il "commissario" si avvalga - liberamente e senza vincoli di sorta - dei pareri di un gruppo di iscritti da sentire nelle forme e nei tempi più acconci, e dunque scelti in modo da essere effettivamente consultati (dovrebbe essere un gruppo ristretto, non pletorico come l'attuale Consiglio generale, una cui riunione viene a costare al partito poco meno di un vero e proprio congresso).
Questo periodo, di straordinarietà, di sospensione, di commissariamento (o come vorremo chiamarlo) non dovà essere però un periodo di inerzia per nessuno dei compagni. Al contrario. Le domande che ho posto all'inizio restano, ed esigono risposte che non potranno essere trovate dal solo commissario o altro organo che pensiamo di nominare. Il compito investe tutti e ciascun iscritto, e sarà anche importante preordinare i canali attraverso i quali possa essere effettivamente svolto. E la sospensione investirà le associazioni, federate o comunque vicine, che saranno tenute a ripensare la loro attività, per capire come sia possibile rafforzarsi, divenire più autonome dal partito e anche meno gravanti su di esso.
Se noi osserviamo il lavoro svolto dalle associazioni possiamo dire di essere soddisfatti. Alcune hanno mostrato capacità di iniziativa ed anche una certa forza di organizzazione: non può esservi federazione se non tra soggetti veri, che nel federarsi mettono in comune una parte dei loro progetti e delle loro stesse strutture ma autonomamente possono esprimere altri lati della loro iniziativa. Altre, invece, non hanno raggiunto la "massa critica" necessaria per dar luogo alla loro autonomia e ad una vera federazione, come noi la intendiamo. A volte, anche nel recente passato, si sono avuti momenti di confronto critico, tra il partito e l'una o l'altra delle associazioni: rivendicando, questa, la sua compiuta e perfetta autonomia mentre non poteva non essere osservato che essa avrebbe potuto vivere solo se sostenuta dal partito e dai suoi strumenti finanziari ed operativi.
Questa dialettica si è ripetuta molte volte, nei più che trenta anni di vita del Partito radicale: dalla Lega Italiana del Divorzio in poi, c'è sempre stato aperto confronto tra i poli costitutivi dell'associazionismo radicale: ed esso non si è mai sciolto adottando una soluzione netta, automatica, alla problematica in gioco. Partito di associazioni, allora? Ma come negare che il partito ha sempre avuto una funzione prioritaria, trascinante, indispensabile anche sul piano organizzativo e della responsaqbilità finanziaria, rispetto alle associazioni? Dunque, nessuna soluzione netta e definitiva, ma soluzioni "politiche" nella consapevolezza che questa pluralità di presenze non debba dar luogo ad una frammentazione, ad una "specializzazione" tecnico-burocratica di compiti.
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Al momento in cui convocammo il congresso, pensammo che fosse necessario, o comunque opportuno, prevedere, o cominciare a pensare, a modifiche dello statuto. Avevamo sperimentato incongruenze, difficoltà, veri e propri errori nella forma statutaria che ci eravamo dati a Sofia. La tenuta biennale del congresso, ad esempio, così come la convocazione periodica del Consiglio generale sono elementi irrealistici, se consideriamo le nostre effettive possibilità finanziarie: pensammo quindi di proporre modifiche che rendessero più snello, efficace, il funzionamento delle strutture, magari grazie all'utilizzazione degli strumenti telematici - quelli che stanno già rivoluzionando i mercati, l'informazione, i metodi di organizzazione, e proprio in un senso trans-nazionale (con il trattino, però!); fino ad immaginare una ipotesi di vero e proprio partito "telematico" (che è cosa diversa da un partito che utilizzi la telematica....).
Quasi subito, però, ci siamo resi conto che il problema dello statuto diveniva ormai secondario, persino distraente. Dunque non dovremo passare, per realizzare le forme della nostra"sospensione", attraverso una riforma statutaria. Lo statuto, per ora, resti come è: ma resta anche il suo problema, e anzi dovrà essere uno dei primi affrontati nel periodo della sospensione.
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Quelli che vi ho sottoposto in questa terza parte della relazione sono solo suggerimenti, proposte: Ma, credetemi, valutate e ponderate con estrema attenzione. Sono suggerimenti e proposte che io vedo in positivo, proiettate verso una riconversione strutturale del partito per rilanciarlo, per farlo crescere. Per questo occorrerebbe che il congresso si assumesse coraggiosamente la responsabilità di "ratificarle" nella loro globalità, per potersi concentrare sui modi adeguati a "governare" la transizione, senza compiere fughe in avanti e senza ritirarsi nella conservazione statica e infruttuosa del passato, nelle sue forme morte, che rischiano di disperdere anche la sostanza, per puro amore di autoconservazione. Io mi auguro che questo senso di responsabilità prevalga, sia che si accolgano le mie proposte sia che altre ne vengano presentate.
E, se ciò (come io credo) può confortarci nella nostra scelta perché ci dice che non siamo soli a combattere queste battaglie transnazionali, vorrei ricordare due significativi, recenti eventi: da una parte il fatto che, nel loro primo congresso, i Riformatori della Lista Pannella hanno assunto quasi integralmente, nel documento conclusivo, i temi che sono al centro della nostra iniziativa; dall'altra il fatto che al Parlamento europeo si è costituito un gruppo, nel quale sono confluite forza di diversa provenienza ideale e nazionale, che ha una forte caratterizzazione federalista-europea e transnazionale e dunque potrà portare in quella sede iniziative nostre o nelle quali potremo riconoscerci senza residui. Non si tratta di contributi da poco: lo sappiamo bene per quanto riguarda i compagni Riformatori e della Lista Pannella, e ce lo auguriamo per quel che concerne il gruppo parlamentare di Strasburgo.
Care compagne e compagni, cari amici,
mi auguro anche che il vostro dibattito sia, pur nella stringatezza imposta dalla scarsità di tempo, attento e aperto agli scenari che abbiamo intorno e a quelli che già sono prevedibili. Nel mondo, in Europa, in Italia le cose stanno rapidamente cambiando, i problemi aperti sono diversi da quelli che avevamo a Budapest o anche a Sofia. Basti un significativo esempio. Alle sedi che abbiamo in vari paesi, abbiamo aggiunto quest'anno quella di New York. L'abbiamo aperta un po' casualmente, per poter seguire al meglio i lavori dell'Assemblea delle Nazioni Unite, il suo dibattito. Ma è stata una esperienza importantissima. Innanzitutto perché, appunto, ci ha messo in quotidiano contatto con la Comunità internazionale dei popoli, vale a dire con un nostro interlocutore non occasionale, e in particolare con Boutros Boutros-Ghali, al quale invio di qui un cordiale saluto ed augurio di buon lavoro. E importantissima anche perché ci ha rivelato, ci ha fatto toccare l'evidenza di un Paese come gli Stati Uniti: ma come
è possibile, ci siamo accorti, poter pensare ad una dimensione davvero transnazionale e "mondiale" del nostro impegno restando fuori, non confrontandoci con questo Paese? Ecco come, da un fatto occasionale, abbiamo tratto l'occasione per una riflessione problematica di grande rilievo circa le necessità, le urgenze, la dimensione cui deve far fronte un partito che voglia davvero operare come soggetto transnazionale nel tempo e nelle condizioni storiche e politiche che viviamo, e non voglia rinchiudersi in una dimensione comunque provinciale e insufficiente. Posso addirittura aggiungere che questo ulteriore passo verso la necessaria mondializzazione è stato causa non seconda delle decisioni gravi, risolutive, anche dolorose che vi ho chiesto di assumere nella vostra responsabilità di congressisti.
Una riflessione particolare voglio sottoporvi però per quel che riguarda l'Europa: e non solo per il fatto che nel prossimo quadriennio io sarà impegnata come commissario alla Ue per gli aiuti umanitari, la pesca e la difesa dei consumatori. Certo, in queste attività porterò tutta la forza delle mie convinzioni e la determinazione della mia militanza radicale, ancora una volta facendomi carico dell'impegno che assunsi quando arrivai al parlamento italiano: non farsi modificare dalle istituzioni, e invece cercare di modificarle, fosse solo di un millimetro o di un passo.
Ma penso che comunque l'Europa debba porsi al centro delle vostre attenzioni, senza che ciò significhi trascurare altri settori (e ricordo qui, solo per inciso, che ad esempio il sia pur minimo radicamento che avevamo in Africa si è dissolto, e mi pare che sia necessario ritentare in quella direzione, come nella direzione dei paesi mussulmani più "laici", quali sono - posso qui solo accennarvi - i paesi del Caucaso già parte dell'Impero sovietico). L'Europa si trova di fronte ad una scadenza difficilissima, la conferenza del 1996. Dall'appuntamento, l'Unione potrebbe anche uscire definitivamente in frantumi. Il disastro sarebbe incolmabile, per noi europei, per il mondo, per i paesi ell'est che ora aspirano ad entrarvi. E' dunque evidente che, se fino a ieri avevamo, quali interlocutori, l'Italia (a causa del nostro precedente radicamento) e le Nazioni Unite, a questi poli dobbiamo ora aggiungere l'Europa, in posizione se non privilegiata sicuramente prioritaria. Nelle nostre discussioni precongressuali abbi
amo anche pensato che, per segnare con forza il passaggio, sarebbe stato anche utile spostare il baricentro politico del partito più vicino alla sede del parlamento e delle istituzioni europee: dunque a Bruxelles, utilizzando le strutture a disposione degli europarlamentari radicali (oggi più cospicue che fino a ieri). Una risposta precisa in termini organizzativo/operativi non siamo stati capaci di fornirla, ma questo compito dovrebbe essere affidato al "commissario", al gruppo dei compagni che lo affiancheranno, o anche ai singoli compagni nelle loro diverse possibilità e opportunità.
Come vedete, il tempo di straordinarietà che abbiamo dinanzi non sarà un tempo vuoto. Se lavoreremo bene, esso sarà forse un tempo breve, anche se non credo che dobbiamo fissare da subito delle scadenze precise. Se lavoreremo bene: e cioè se saremo capaci di prevedere, in termini non vaghi ma strettamente operativi, un vero e proprio salto di qualità, se saremo insomma capaci di rispondere al quesito centrale: come dovrà - o dovrebbe - configurarsi il partito transnazionale e transpartito capace di superare le attuali difficoltà e anzi di farsene punti di forza per affrontare i problemi di domani?
Indicare vie, mezzi, tempi per arrivarci è compito vostro, compito del congresso. Al quale una cosa credo di dover perciò raccomandare, con estrema forza. Il tempo che avete a disposizione, gli stessi strumenti di lavoro, sono ridotti e forse insufficienti: bisogna non disperdere nemmeno un istante, non abbandonarci a guardare al passato, né per compiacerci delle cose fatte, né per recriminare fra noi. Non dobbiamo - come si dice - parlarci addosso: le prime due parti della mia relazione sono state concepite per fissare, cronologicamente e documentariamente, tutto questo che è ormai solo materiale di lavoro. Attardarvisi sopra sarebbe inutile.
E dunque, insieme al mio augurio di buon lavoro, non mi resta ora che rivolgere un ringraziamento, innanzitutto a quanti hanno prestato in questi anni il loro lavoro militante nella sede di Via di Torre Argentina; nella segreteria, ristretta o allargata che fosse, con le sue quotidiane, faticose riunioni, con le responsabilità assunte da ciascuno di quelli che ne hanno fatto parte; e non solo ai compagni della segreteria, ma a tutti coloro che, in questo o quell'ambito, hanno portato avanti con enorme disponibilità e responsabilità i loro essenziali compiti, non sempre, so bene, gratificanti; senza la loro quotidiana presenza nulla sarebbe stato possibile fare di tutto quello di cui ho fin qui parlato. Un mio particolare ringraziamento va a Marco Pannella, per la sua costante disponibilità e ricerca di dialogo, la sua offerta continua di idealità e di forza propulsiva; e quindi ai parlamentari italiani ed europei, ai militanti delle tante sedi in Italia, in Europa e nel mondo, avamposti militanti di una batt
aglia difficile ed essenziale. A tutti coloro che da semplici iscritti o da contributori hanno consentito al partito di vivere, fosse un giorno o un'ora.
Ringrazio anche quanti hanno lavorato e stanno lavorando perché il congresso si svolga nel massimo di efficacia, di serenità e di spirito di collaborazione. Sono condizioni senza le quali le prossime ore potrebbero andare perdute o sottoutilizzate. Se ciò non accadrà, lo dobbiamo a tutti coloro che per mesi hanno avuto pazienza dinanzi a quelle che erano in primo luogo mie responsabilità, mie ansie, miei problemi.
Con questo, è giunto il tempo del mio commiato da voi: commiato formale, non sostanziale: spero anzi che, dalla diversità dei nostri compiti e delle nostre responsabilità, possano nascere occasioni di stretto confronto, di iniziative congiunte o parallele, di lotte univoche e tese ad identici obiettivi, capaci di coinvolgere non solo noi ma quanti, in Europa e nel mondo, agiscono in nome di idealità e di progetti comuni. Per mia parte, cercherò di comunicare e di far capire questo messaggio a tutti gli interlocutori del mio lavoro, radicali o come vogliano chiamarsi; ma questo è anche vostro compito. E dunque, ancora una volta, viva il Partito radicale, transnazionale e transpartito, il partito del diritto alla vita e della vita del diritto, il partito della nonviolenza.