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Rossi Ernesto - 27 marzo 1956
SOMARI SUPERFLUI
di Ernesto Rossi

SOMMARIO: Riprende e e approfondisce le critiche già mosse al cd Consorzio Nazionale Canapa, realizzazione "corporativa" del regime ancor oggi in funzione, e cui si deve la crisi della canapa italiana. Solleva la questione della struttura del Consorzio, dove comandano non i produttori ma il Ministro o gli industriali coi loro specifici interessi, e giudica negativamente la sopravvivenza di istituti fascisti, come l'ammasso obbligatorio e il monopolio della commercializzazione, cui peraltro si reagisce con la "provvidenziale evasione". Si analizzano poi gli strumenti tecnici adottati dal consorzio (dai moduli necessari a "seguire" ogni movimento della canapa alle bardature burocratiche, ecc.) , i sistemi usati dagli industriali per penalizzare i produttori, ecc. Seguono un attacco all'on. Bonomi, presidente della "Coldiretti", e una messa a fuoco delle difficoltà cui vanno incontro l'industria canapiera e il relativo settore agricolo a causa del permanere, voluto da Bonomi, della disciplina corporativa nell'a

gricoltura; infine, si discute la validità delle proposte avanzate da Bonomi e le polemiche che ne sono nate, anche all'interno della DC.

(IL MONDO, 27 marzo 1956)

La canapa è moribonda e il suo male si chiama Consorzio canapa - affermano gli agricoltori; ma il prof. Albertario e l'on. Bonomi vogliono continuare a tutelarla, mantenendo in vita il Consorzio, l'ammasso obbligatorio e il monopolio dell'esportazione, ereditati dalla "economia programmata" del regime corporativo.

I due settori più malati della nostra agricoltura sono la canapa e il riso, sui quali - per merito specialmente del prof. Albertario, direttore generale della Tutela dei Prodotti Agricoli - anche dopo la soppressione degli enti economici dell'agricoltura (D.D.L. 25 aprile 1945, n. 367), è stato mantenuto il più rigido controllo della burocrazia ministeriale. Sul Consorzio Nazionale Canapa e sull'Ente Nazionale Risi (costituiti il secondo nel 1931 ed il primo nel 1936, quali realizzazioni "squisitamente" corporative del regime) ho già scritto sul Mondo nel 1949 e nel 1950; ma ora mi pare che metta il conto di riprendere il discorso, anche per fare la consolante constatazione che neppure in questo campo, negli ultimi cinque anni, niente è sostanzialmente cambiato.

Nel presente articolo parlerò soltanto del Consorzio Nazionale Canapa.

Dopo quasi nove anni di gestione commissariale e dopo ponderosissimi studi compiuti dagli "esperti" ministeriali con la collaborazione dei rappresentanti delle categorie interessate, il decreto 17 novembre 1953, n. 843, ha aggiunto una P alla sigla del Consorzio, sicché adesso si chiama C.N.P.C. (Consorzio Nazionale Produttori Canapa), invece di C.N.C., come l'aveva denominato il precedente decreto (17 settembre 1944, n. 213).

Questa è stata l'unica soddisfazione data ai canapicoltori, i quali chiedevano di amministrare il Consorzio per loro conto, senza la compagnia di industriali e commercianti, i cui interessi contrastano coi loro. E' stata una soddisfazione di pura forma: anche se i rappresentanti degli industriali e dei commercianti sono stati esclusi dal consiglio di amministrazione del Consorzio, al quale prima partecipavano, i dodici canapicoltori che ora compongono tale consiglio sono nominati, non già dai consorziati, ma dal ministro dell'agricoltura, e gli industriali, cacciati dalla porta, sono rientrati dalla finestra, come membri di una commissione, di cui il consiglio di amministrazione è costretto ad avvalersi "per i problemi concernenti specificamente la trasformazione e l'esportazione della canapa", cioè per tutti i problemi importanti: le deliberazioni di questa commissione devono essere approvate dai competenti ministeri, e quando i canapicoltori non riescono a mettersi d'accordo sui prezzi con gli industriali

e i commercianti, provvede il CIP. Inoltre nessuna deliberazione del consiglio di amministrazione diviene esecutiva se prima non è approvata dal Ministero dell'agricoltura, che esercita la vigilanza e il controllo sull'intiera attività del Consorzio.

"Il padrone in casa sono io. Chi comanda è mia moglie" - si legge sui boccali di Montelupo. I canapicoltori potrebbero dire: I padroni nel Consorzio siamo noi. Chi comanda è il professor Albertario".

Il citato decreto n. 842 del 1953 ha mantenuto inalterato l'obbligo dell'ammasso totalitario ed il monopolio assoluto della vendita della canapa all'interno e all'estero, che il Consorzio ha ereditato dalla "economia programmata" dell'Era Fascista. Gli agricoltori devono denunciare al Consorzio tutta la produzione di canapa. Ogni operazione di compravendita, consegna, spedizione e trasporto di canapa, allo stato greggio e semilavorato, può essere effettuata esclusivamente per disposizione del Consorzio. Nessun produttore può esportare per proprio conto la canapa. Il prof. Albertario, e gli altri funzionari dei ministeri competenti preposti alla vigilanza e al controllo, stabiliscono i prezzi da corrispondere ai canapicoltori; i prezzi da far pagare agli industriali; gli anticipi sul prodotto conferito all'ammasso, la quantità delle diverse qualità di canapa da riservare all'industria nazionale; la ripartizione di questa quantità fra gli stabilimenti; quale contingente della produzione può essere esportato ed

a quale prezzo; la somma che, dopo il realizzo, spetta ai canapicoltori a integrazione degli anticipi.

Dall'alto di questa piramide, il prof. Albertario segue col cannocchiale le schiere dei suoi prodi - ispettori, carabinieri, militi, guardie di finanza - che perlustrano le campagne, perquisiscono le case e i magazzini dei coltivatori, elevano contravvenzioni, sequestrano il prodotto, denunciano i contrabbandieri all'autorità giudiziaria, fanno chiudere i piccoli stabilimenti che hanno contravvenuto alle draconiane disposizioni della legge.

- Tutto bene. Tutto bene.

Intanto lunghe colonne di autocarri, a fanali accesi, portano agli opifici la canapa di quella che lo stesso prof. Perdisa ha chiamato "la provvidenziale evasione all'ammasso".

Per mettere gli uffici pianificatori in grado di seguire ogni movimento della canapa, dalla semina all'esportazione, devono essere compilati i 34 moduli che Vincenzo Melloni, canapicoltore e industriale canapiero, elenca nell'opuscolo: La politica economica e i problemi della canapa (Bologna-maggio 1955):

a) Per il conferimento e la produzione: 1) domanda licenza coltivazione; 2) licenza di coltivazione; 3) rilevamento merce campagna; 4) stima canapa in campagna; 5) bolletta di accompagnamento; 6) emissione bollettino di riscossione; 7) denuncia vendita verde; 8) contratto cessione verde; 9) buono accompagnamento verde; 10) contratto cessione manoni; 11) buono accompagnamento per lavorazione manoni; 12) bolletta conferimento manoni; 13) buono integrazione canapa e sottoprodotti.

b) Per l'acquisto da parte industriale: 14) richiesta visita prodotto; 15) buono visita prodotto; 16) contratto di acquisto prodotto; 17) formalità pagamento prodotto; 18) reversale avvenuto pagamento; 19) rilascio buono ritiro canapa; 20) emissione bolletta accompagnamento canapa; 21) distinta pesi; 22) fattura acquirente.

c) Per vendita esportazione: 23) modulo rilevamento giacenze; 24) comunicazione vendite esportazione; 25) comunicazione benestare vendite; 26) comunicazione e richiesta licenza; 27) fatture emissione da ditte a Consorzio per conto; 28) fatture Consorzio ditta estera; 29) emissione dichiarazione liberatoria; 30) comunicazione Consorzio alle banche inoltro documenti; 31) comunicazione della banca al Consorzio avvenuto utilizzo; 32) comunicazione del Consorzio alla banca per accredito ditta; 33) trattenuta quota esportazione Consorzio; 34) emissione buono accompagnamento lavorato.

Ognuno di questi moduli richiede una particolare operazione contabile o amministrativa. Le pesantissime bardature burocratiche, il numero eccessivo degli impiegati, e la finanza allegra del Consorzio hanno fatto salire le spese di gestione ad altezze astronomiche. Al Convegno della canapa, tenuto a Ferrara alla fine dell'anno scorso, il relatore, prof. Perdisa, dell'Università di Bologna, precisò che tale costo "da un minimo di £.6.000 al quintale, pari al 19% del prezzo realizzato dal Consorzio nel caso più favorevole (anno 1950-51) era passato ad un massimo di £. 10.000 circa per quintale, pari al 29% circa del prezzo realizzato dal Consorzio nel caso più sfavorevole (anno 1952-53)". Dopo la fine della gestione commissariale, la nuova amministrazione pare sia riuscita a fare delle serie economie, tanto che, nel rendiconto 1954-55, le spese di gestione sono registrate in sole £. 2.300 per quintale, corrispondente a circa il 7% del prezzo realizzato.

D'altra parte, per calcolare il costo totale dell'intervento dello Stato in questo settore, dovremmo, credo, aggiungere alla sopradetta spesa di gestione il costo, per gli agricoltori, i commercianti e gli industriali, delle registrazioni e delle perdite di tempo richieste dal Consorzio, e il costo per i contribuenti, dei carabinieri, delle guardie, dei funzionari ministeriali, incaricati della programmazione e della repressione del contrabbando.

Dal 1946 il Consorzio viene messo continuamente in stato di accusa dai tecnici agrari, dai canapicoltori, dai commercianti e dai piccoli e medi industriali.

Il prof. Perdisa, pur favorevole alla conservazione del Consorzio con le sue attuali attribuzioni corporative, nella sopracitata relazione dichiarò:

Dal 1954, anno in cui si verificò lo sbarco degli Alleati, fra un commissario e l'altro, fra il disinteresse e la noia dei ministeri, questo Ente si è trascinato fino a pochi mesi fa, per quasi dieci anni, solo apparentemente con funzioni di difesa, ma in realtà con risultati del tutto negativi sulla produzione e con enormi spese per la gestione, attuando una politica quasi sempre tentennante, incerta e brancolante fra il desiderio di accontentare i clienti esteri e il timore dei clienti interni.

I canapicoltori - oltre a protestare contro il Consorzio per i miliardi sperperati - accusano il Consorzio di aver rovinata la fibra, facendo dei monti canapa e adottando dei criteri di stima che puniscono i produttori delle migliori qualità; di classificare la canapa in modo non rispondente alle esigenze del mercato; di fare il "trucco delle marche", applicando stime differenti per la medesima canapa, per svalutarla al conferente e rivalutarla all'acquirente; di non avere sensibilità commerciale, per cui vende nei periodi più sfavorevoli, od a prezzi molto più bassi di quelli che potrebbe spuntare (nella prima fase post-coreana, giugno 1950-aprile 1951, mentre i prezzi del sisal aumentarono del 90%, quelli della juta del 100% e quelli del lino di più del 140%, i prezzi della canapa, di cui c'era allora larga disponibilità, furono aumentati salo del 10%); di nascondere i dati sui quali i conferenti all'ammasso potrebbero calcolare i loro crediti; di impiegare a sua discrezione gli utili, invece di distribuir

li alla chiusura di ogni esercizio a integrazione delle anticipazioni; di essere lo strumento di cui gli industriali si valgono per fare la loro politica contro i canapicoltori.

Tutte queste accuse - che troviamo negli Atti del convegno di Ferrara e sulla stampa, specialmente del Veneto, dell'Emilia e della Campania - sono molto gravi: ma l'ultima è certamente la più grave, e perciò merita un esame particolare.

Subito dopo la guerra, gli industriali riuscirono a liberare i loro manufatti di canapa da ogni vincolo e controllo corporativo, mentre facevano conservare i vincoli e i controlli sui canapicoltori, per scaricare su di loro buona parte dei costi, e per ottenere la materia prima a prezzi calmierati, anche dopo che avevano ripreso a vendere i manufatti a prezzi liberi.

Gli industriali sono riusciti a raggiungere il primo obiettivo facendo bloccare, a disposizione dell'industria nazionale, tutta la canapa di cui abbisognavano, senza impegnarsi a ritirarla: così essi hanno la possibilità di ottenere la canapa dal Consorzio al prezzo prefissato dal CIP, nel momento, nella qualità e nella quantità che desiderano, senza correre alcun rischio e risparmiando le spese di magazzinaggio. Con molta ragione, un canapicoltore, il marchese Tacoli, il 23 ottobre 1953, in una riunione a Bologna osservava:

Se l'industria canapiera nazionale vuole che le sia riservata una determinata qualità e quantità di canapa, sfusa o no, ben venga la richiesta e sia prontamente accolta, ma a condizione che l'intera partita prenotata venga immediatamente pagata, oppure, se il ritiro avviene poco alla volta, il pagamento della merce segua le quotazioni del mercato alla data, il pagamento della merce segua le quotazioni del mercato alla data di ogni singolo ritiro, senza impegno, da parte del Consorzio, di quantità e qualità. Perché è accaduto più di una volta che la nostra industria canapiera abbia prenotati forti quantitativi di canapa per rifiutare il ritiro dopo alcuni mesi, procurando in questo modo al Consorzio un doppio danno, causato dalla ritardata vendita all'interno e all'estero, e dal conseguente aumento del carico degli interessi passivi.

Gli industriali hanno potuto raggiungere il secondo obiettivo facendo adottare la politica del doppio prezzo: un prezzo basso per le vendite all'interno, e un prezzo molto più alto (anche doppio) per le vendite all'estero. Siccome, per alcuni manufatti, la fibra italiana trova difficilmente succedanei, i nostri industriali hanno ottenuto così, per diversi anni, un duplice vantaggio: alti utili all'interno e maggiori possibilità di battere i concorrenti sui mercati stranieri.

Si arrivò al punto - ha ricordato al convegno di Ferrara un esperto di Frattamaggiore, il comm. Pezzullo - che il filato italiano esportato all'estero costava lo stesso prezzo della canapa grezza, come fu rilevato da una delle più grandi case inglesi di fibre tessili.

Ma ogni ben gioco dura poco. La politica del doppio prezzo ha spinto gli industriali stranieri a cercare altri mercati di approvvigionamento ed a trasformare la loro produzione per utilizzare fibre succedanee, sicché le possibilità di sbocco all'estero della nostra canapa sono state sempre più ridotte.

A loro volta i commercianti accusano il Consorzio di ostacolare le esportazioni della canapa anche quando troverebbe all'estero compratori a condizioni molto più convenienti che all'interno; di non esser capace di seguire le variazioni della domanda sui mercati internazionali; di disgustare gli acquirenti, imponendo marche non gradite e ritardando oltre misura le consegne. E quando il CIP, per favorire gli industriali, stabilisce prezzi molto più bassi per il mercato interno di quelli che - nonostante i contingenti all'esportazione - sarebbero i prezzi di equilibrio, una buona parte del prodotto viene contrattata al di fuori del Consorzio, con le conseguenze inevitabili di tutti i "mercati neri": aumento dei costi a copertura dei maggiori rischi; formazione di una classe parassitaria di commercianti improvvisati; corruzione dei funzionari incaricati di reprimere il contrabbando; educazione dei cittadini alla inosservanza delle leggi.

Gli artigiani, i piccoli e i medi industriali, infine, sono contro il Consorzio perché li rifornisce irregolarmente, a prezzi arbitrariamente maggiorati in confronto a quelli stabiliti dal CIP; li obbliga a ritirare marche e corpi non confacenti alle loro particolari attrezzature e lavorazioni; favorisce nelle assegnazioni i più grossi industriali.

Sostenitori del Consorzio (oltre, ben s'intende, ai suoi funzionari e ai suoi consulenti tecnici) sono stati fin'ora i grandi industriali e sono ancora i coltivatori diretti, o meglio l'on. Bonomi, che, quale presidente della confederazione dei "coltivatori diretti" - costituita e sviluppata nel modo che tutti sanno - afferma di parlare in loro nome.

Il Consorzio favorisce i grandi industriali perché risparmia loro la fatica e la spesa di andare a contrattare partita per partita, morello per morello, presso molte piccole e piccolissime aziende; e perché - come ho detto - tiene a loro disposizione la canapa migliore, nei magazzini consortili, senza obbligarli a ritirarla, e gliela cede, scelta e preparata come desiderano, a prezzi più bassi dei prezzi internazionali.

L'industria canapiera è protetta in Italia da un dazio del 15-20% sui filati e del 23% sui tessuti; in più, dall'agosto del 1950, essa gode di un premio di esportazione (sotto forma di restituzione dell'IGE) del 2% sui filati e sugli spaghi e del 3% sui tessuti, e di un "diritto compensativo" corrispondente alla stessa percentuale, applicato all'importazione (che equivale ad un aumento del 2 e del 3% del dazio doganale). Ma è una delle industrie tecnicamente più arretrate. Un'inchiesta eseguita dal Ministero dell'industria, dopo un lungo periodo di vacche grasse, nel marzo del 1950 rilevò che l'età media dei telai nel settore canapiero era di 39,4 anni: la più alta di tutto il settore tessile, in cui la media generale era già elevatissima: di 36,4 anni. Per intendere la gravità di tale situazione basta pensare che, negli Stati Uniti, l'età media del macchinario tessile è di 10-15 anni, e che nei progetti di investimenti l'ammortamento di questi macchinari viene generalmente previsto, anche nel nostro Paese,

in circa 15 anni.

Nel settore canapiero la concentrazione industriale è stata spinta al massimo. Secondo quanto scrive il Melloni, nella sopracitata pubblicazione, tre soli complessi industriali assorbono i due terzi del fabbisogno nazionale, la metà del fabbisogno è costituita dalla domanda del Linificio e Canapificio Nazionale.

Questa società (capitale 3 miliardi e 400 milioni) che nei periodi di maggior lavoro ha avuto più di 6000 dipendenti, possiede la totalità delle azioni del Canapificio Veneto Antonini & Cerese e delle Industrie Canapiere Italiane: suo presidente è il dott. Felice Bellani Fossati (che è vice presidente del Banco Ambrosiano e vice presidente del Cotonificio Felice Fossati); suo vice presidente è il dott. Senatore Borletti (che è presidente della società meccanica F.lli Borletti, della maglieria Daniele Bellavista, ed è uno dei pezzi più grossi della Rinascente e delle Assicurazioni Generali).

Dopo un periodo di straordinaria prosperità, il Linificio e Canapificio Nazionale si trova oggi, come tutte le società del settore, in gravissima crisi: nell'esercizio 1954-55 ha licenziato 1056 operai, ed altri 500 nel trimestre successivo.

Il bilancio del Linificio e Canapificio Nazionale non ci fa neppur conoscere la cifra del fatturato, e - come quasi tutti i bilanci delle grandi società industriali - ci dà solo quattro cifre sulla gestione dell'esercizio: (utili lordi, spese generali, ammortamenti, imposte) da cui ricava per differenza gli utili e le perdite: al 30 settembre 1955 chiude con una perdita di cinque milioni. La relazione presentata l'8 febbraio scorso all'assemblea degli azionisti, non ci dice quanta canapa la società ha acquistato dal Consorzio, né a quali prezzi, né quali quantità di manufatti ha prodotto, né quanto ha ricavato dalle vendite all'estero e all'interno; ma ci dà una informazione interessante: per alleggerire la situazione finanziaria, la società ha venduto l'impianto idroelettrico di Concesa, "costruito a titolo di investimento patrimoniale, in momenti favorevoli di larga possibilità, per utilizzare una concessione di cui la stessa società era titolare". (La relazione non precisa a chi ed a quale prezzo: acquire

nte è stata una società che non sa più dove nascondere i propri utili, la Italcementi, la quale ha pagato l'impianto 5 miliardi e 100 milioni).

Per la prima volta, credo, da quando è stato istituito l'ammasso obbligatorio totalitario della canapa (1936), anche il Linificio e Canapificio Nazionale si è ora messo contro il Consorzio.

Noi siamo convinti - si legge nella citata sua relazione - che la sopravvivenza del Consorzio sia la causa forse precipua, ma certo non ultima, della crisi canapiera.

Come mai? Come si può spiegare questa ingratitudine da parte del maggior beneficiato del Consorzio? Si spiega con il fatto che anche il Linificio e Canapificio Nazionale non riesce più a trovare sul mercato interno sufficiente materia prima per soddisfare il proprio fabbisogno, e deve quindi tenere inoperosa buona parte dei suoi macchinari.

Profittando della loro influenza (chiamiamola così) nei ministeri dell'industria e dell'agricoltura, gli industriali hanno tirato troppo la corda, e... tira, tira, la corda, anche se di canapa, si strappa.

Con la forza si può portar via agli agricoltori anche tutti i loro prodotti, dopo che li hanno raccolti; ma con la forza non si riesce ad obbligare gli agricoltori a produrre quello che sanno verrà poi requisito a prezzi inferiori ai costi, se non si procede alla collettivizzazione della terra e alla istituzione del lavoro forzato.

Non sapendo come difendersi altrimenti, gli agricoltori hanno ridotto le semine, o addirittura hanno abbandonato la coltivazione della canapa, sostituendola con altre colture. Da una media annua di 1097 mila quintali di canapa, ottenuti su una superficie di 85.000 ettari nel quadriennio 1936-39, la produzione è passata a 677 mila quintali nel 1952, a 744 mila quintali nel 1953, a 419 mila quintali nel 1954, ed a 350 mila quintali (dato provvisorio) nel 1955, rispettivamente su 56 mila, 54 mila, 34 mila, e 38 mila ettari.

Dal rendiconto per il 1954-55 del C.N.P.C. risulta che l'anno scorso sono stati conferiti all'ammasso soltanto 296 mila quintali, sicché il Consorzio - nonostante le rimanenze disponibili del precedente esercizio (124 mila quintali) - "si è trovato nella necessità di respingere numerose richieste avanzategli dagli utilizzatori, particolarmente di quelli stranieri, proprio in un anno in cui l'estero ha dato inequivocabili segni di rinnovato interesse per la nostra canapa".

Alla diminuzione delle semine e della produzione si è accompagnato un grave peggioramento qualitativo del prodotto.

In Emilia, ad esempio - scrive l'Istituto Nazionale di Economia Agraria (in L'annata agraria 1955) - la qualità classificata buona costituiva nel 1949 il 19,7% della totale produzione, ma è diminuita al 9,4% nel 1950, al 7,1% nel 1952, e all'1,03% nel 1953.

Il peggioramento qualitativo del prodotto è indubbiamente una delle cause della diminuita esportazione negli ultimi anni, giacché in confronto alla fibre succedanee, che hanno invaso il mercato mondiale nel dopoguerra, solo le qualità fini di canapa possono reggere la concorrenza.

Nell'annata più favorevole del dopoguerra (1951), il Consorzio ha venduto 515 mila miliardi e 403 milioni ed esportato 309 mila quintali per 24 miliardi e 270 milioni. Queste cifre sono ora ridotte a neppure un terzo, ma la coltivazione della canapa fornisce sempre i mezzi per vivere a parecchie decine di migliaia di lavoratori (contadini, operai dell'industria, artigiani, cordai, ecc.).

La coltivazione della canapa interessa solo poche provincie (Ferrara, Rovigo, Modena, Bologna nel Nord, e Napoli, Caserta nel Sud), ma in queste provincie ad altissimo addensamento demografico costituisce uno dei fattori fondamentali per l'occupazione della mano d'opera, in quanto richiede molte più giornate di lavoro delle altre colture che possono sostituirla nelle rotazioni agrarie.

Non si tratta, quindi, di un problema di scarsa importanza per la economia nazionale.

Nella Campania, che oggi produce il 6% circa dell'intero raccolto nazionale, la indignazione popolare (più del 90% del raccolto è dovuto a piccoli affittuari coltivatori diretti) ha costretto gli organi responsabili alla Democrazia Cristiana a chiedere la liquidazione del Consorzio.

Il consiglio comunale di Frattamaggiore, uno dei maggiori centri del napoletano, la cui vita dipende principalmente dalla coltivazione, dalla lavorazione e dal commercio della canapa, l'11 gennaio 1954 ha approvato per acclamazione un ordine del giorno per inviare alla presidenza del consiglio del ministri, al ministro della agricoltura e a quello dell'industria una mozione perché venga al più presto presentato al Parlamento uno schema di legge per l'abolizione del Consorzio Nazionale Produttori Canapa, come non più rispondente ai suoi fini istitutivi, anzi lesivo alla produzione ed al commercio della canapa.

Il 12 settembre scorso il Comitato provinciale di Napoli della Democrazia cristiana, con la partecipazione dell'on. Leone, presidente della Camera, e di diversi altri parlamentari, ha approvato un ordine del giorno in cui

preso atto del totale fallimento dell'ente preposto alla disciplina della canapa; constatato che per colpa dell'attuale sistema vincolistico, che soffoca ogni libera attività e annulla il secolare lavoro di tutte le categorie interessate alla canapa, la crisi non accenna a miglioramenti e provoca la fame dei lavoratori; chiede che gli organi del partito intervengano presso il Governo per la messa in liquidazione dell'infausto Consorzio Nazionale Produttori Canapa.

Sono parole molto chiare. Ma questi voti cozzano contro la decisa opposizione dell'on. Bonomi, che, dopo il prof. Albertario, è in Italia il più deciso sostenitore della disciplina corporativa nell'agricoltura.

Ad iniziativa dell'on. Bonomi e dell'on.Rubinacci, il 22 settembre 1954, è stata presentata alla Camera, da ventidue deputati democristiani (quasi tutti di regioni non produttrici di canapa) la proposta di legge n. 1156 per costituire, con stanziamenti nei bilanci di tre esercizi, un fondo di sei miliardi a disposizione del Ministero dell'agricoltura, per dare premi di produzione ai canapicoltori.

Il sindaco democristiano di Frattamaggiore, comm. Capasso, nel comunicare, il 28 gennaio 1955, al convegno di Ferrara, il sopracitato ordine del giorno del suo consiglio comunale, prese posizione anche contro questa proposta, telegrafando:

"Provvidenze governative recentemente proposte fossilizzerebbero situazione attuale senza miglioramento alcuno. Produttori questa intera zona canapicola chiedono libertà azione dopo diciannove anni inutili deleterie costrizioni".

Nel convegno di Ferrara quasi tutti i canapicoltori, i commercianti e i piccoli industriali parlarono nello stesso senso.

"Non voglio gli aiuti di nessuno - dichiarò, ad esempio il dott.Preve, canapicoltore ferrarese - quando c'è da guadagnare voglio guadagnare, e quando c'è da perdere voglio perdere. La canapa è mia e me la voglio manovrare io".

Pregiudizi piccoli-borghesi, di un mondo ormai tramontato...

Su 24 Ore dell'8 ottobre scorso, il presidente dei "coltivatori diretti" ha illustrato l'ordine del giorno, che aveva fatto approvare, pochi giorni prima, da un convegno di dirigenti nella sua confederazione.

Per il potenziamento del C.N.P.C. e della relativa politica d'ammasso; per la fissazione di un prezzo che possa da una parte coprire i costi di produzione e dall'altra stimolare gli investimenti, notevolmente contrattisi in questi ultimi anni; per la determinazione di equi contingenti, che contemperino le esigenze della industria e quelle dell'esportazione.

Io non riesco a capire che cosa dovrebbero essere gli "equi contingenti" per contemperare gli interessi di chi vuol vendere al più alto prezzo possibile con gli interessi di chi vuol comprare al prezzo minimo possibile. Ma il verbo "contemperare", anche se non ha alcun contenuto concreto, suscita grati ricordi nei corporativisti, che l'hanno adoprato, o sentito adoprare, per tanti anni, in tutte le salse, durante l'Era Fascista.

Per l'on. Bonomi la causa della crisi canapiera è facilmente individuata nel basso livello dei prezzi. E il rimedio è ancor più facile della diagnosi: lo Stato deve fare aumentare i prezzi, in modo che la coltura della canapa torni ad essere remunerativa.

Quando una politica di prezzi - scrive l'on.Bonomi - porta alla riduzione della produzione (e quale riduzione!) non c'è argomento che possa in alcun modo giustificarla.

E' questa un'affermazione che, espressa in termini tanto generali, mi sembra piuttosto azzardata. Anche la produzione dei somari è da un pezzo in continuo declino; ma, in questo settore, una politica di sostegno dei prezzi forse non a tutti apparirebbe giustificata.

Se una tale politica fosse stata introdotta all'inizio della motorizzazione dei trasporti, potremmo aver oggi il medesimo numero di somari per ogni mille abitanti che avevamo alla fine del secolo scorso, ma non perciò risulterebbe accresciuto il benessere generale. Anche dopo aver seriamente riflettuto su quanto l'on. Bonomi scrive, non mi sembra sostenibile che nel nostro Paese ci sia una particolare scarsità di somari. L'ordine del giorno dei "coltivatori diretti" è stato poi ripreso dal gruppo dei deputati bonomiani, che il 20 ottobre lo hanno presentato e fatto approvare di sorpresa alla Camera. In aperto contrasto con le deliberazioni del Consiglio comunale di Frattamaggiore e del Comitato provinciale di Napoli della democrazia cristiana, questo ordine del giorno "riconosce nel C.N.P.C. lo strumento più idoneo per la difesa degli interessi della produzione", e invita il Governo

a potenziare con ogni mezzo il C.N.P.C., configurato dopo un decennio come legittima espressione dei canapicoltori, sia nel campo organizzativo, che in quello tecnico e economico; a perseverare nella politica di tutela economica nel prezzo della canapa, a mezzo dell'istituto dell'ammasso totalitario, al fine di assicurare ai coltivatori compensi remunerativi, sulla base degli aumentati costi di produzione, e stimolare così gli investimenti di coltivazione onde riportarli alle perdute posizioni; a predisporre con tempestività provvedimenti per la determinazione di equi contingenti, che, contemperando le esigenze dell'industria tessile nazionale con le possibilità delle esportazioni di canapa, non ledano gli interessi economici del settore produttivo.

Infine, come replica, si può dire, a questo voto, il 1 dicembre 1955, un gruppo di venti deputati democristiani, in maggioranza della provincia di Napoli, ha presentato alla Camera la proposta di legge n. 1969, per l'abolizione dell'obbligo dell'ammasso. Il Consorzio sarebbe conservato, ma soltanto con funzioni di magazzino fiduciario per la canapa che i coltivatori gli volessero affidare per la vendita, e lo Stato dovrebbe contribuire al pagamento degli interessi per le anticipazioni sulla canapa portata volontariamente al Consorzio. Lo Stato dovrebbe inoltre dare dei contributi ai canapicoltori per facilitare gli acquisti delle sementa e dei concimi. Solo in caso di eccezionale emergenza il ministro dell'agricoltura, d'accordo con quello dell'industria, potrebbe ristabilire l'ammasso obbligatorio; ma un ammasso per contingente, non mai un ammasso totalitario.

Sono proposte moderate; ma non credo abbiano la minima probabilità di andare in porto, perché "il Consorzio non si tocca" - ha detto l'on. Bonomi. E quel che dice l'on. Bonomi in materia di agricoltura è come quello che il Papa dice in materia di fede; perché l'on. Bonomi presiede la confederazione dei coltivatori diretti, validissimo strumento elettorale della Democrazia cristiana; perché dirige un gruppo di una cinquantina di deputati, che devono esclusivamente a lui il seggio alla Camera; e perché dispone degli ingentissimi mezzi della gestione degli ammassi e delle importazioni di grano, che la Federconsorzi fa per conto dello Stato.

Chi vuole mantenere il Consorzio così com'è, con i suoi compiti attuali, deve pur riconoscere la validità delle ragioni esposte dal prof. Perdisa nella citata relazione al convegno di Ferrara:

Sia chiaro - egli disse - che il Consorzio Nazionale Produttori Canapa non ha carattere cooperativo o mutualistico. E' un ente di Stato, e non una cooperativa o un consorzio, come il titolo potrebbe far pensare. E' un ente di stato, che lo Stato fa amministrare da persone scelte entro determinate categorie. Ed è per questo che lo Stato non può solo imporre obblighi ai produttori, ma verso di essi deve necessariamente assumere dei doveri, fra i quali, fondamentale, quello della formazione del prezzo.

Se, da una parte, lo Stato obbliga i produttori a conferire il loro prodotto, è evidente che non può, in cambio, non obbligarsi a sua volta a pagare questo prodotto con un prezzo rimunerativo. Altrimenti non sarebbe più un conferimento, ma una confisca, da parte di un organo dello Stato, e ciò in contrasto con le norme della Costituzione.

La contropartita alla obbligatorietà dell'ammasso potrebbe essere l'impiego obbligatorio della canapa nelle industrie jutiera e cotoniera (proposto dallo stesso prof. Perdisa), i premi di coltivazione con i contributi dello Stato (secondo la proposta di legge n. 1156), e tutti gli altri provvedimenti suggeriti dal Consorzio Nazionale Produttori Canapa nel volume Canapicoltura moderna, edito a Bologna nel 1955: l'incremento delle concessioni di mutui di favori; l'assorbimento dei manufatti di canapa da parte delle pubbliche amministrazioni; la esenzione totale dall'I.G.E. e dall'imposta di fabbricazione dei manufatti di canapa; la imposizione di dazi elevati e di contingenti per le importazioni di tutte le fibre concorrenti alla canapa e dei manufatti di lino.

Come si vede, i suggerimenti, per realizzare la politica dei prezzi auspicata dall'on. Bonomi, non mancano. E son tutti suggerimenti che hanno il pregio di essere stati mille volte collaudati dalla esperienza del mercantilismo, prima che quel rompiscatole di Adamo Smith scrivesse il suo stupidissimo libercolo su La ricchezza delle Nazioni.

 
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