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Il Mulino - 1 aprile 1956
Laicismo aperto e laicismo dogmatico.

SOMMARIO: Nella esperienza del "Mulino" si sono incontrati laici e cattolici decisi a superare i vecchi "schemi e formule". Tutto questo ha prodotto un certo "sfasamento" tra i temi della rivista e quelli correnti in Italia. Comunque, se sul piano politico la colpa della separatezza tra cattolici e laici va attribuita alla DC, sul piano culturale essa ricade sui laici che non hanno voluto approfondire "la realtà così complessa del mondo cattolico". Sulla stampa radicale, ad es., si condanna in blocco il "mondo cattolico" per salvarne alcune figure solo perché "potenzialmente eretiche", proprio nel momento in cui il mondo cattolico è in pieno fermento. Più volte sul "Mulino" si è cercato di dimostrare quanto fosse pericoloso il "mito" dell'unità dei laici, non meno del "mito" dell'unità dei cattolici. L'unità dei laici è richiesta in nome della filosofia idealistica, che non riconosce il ruolo della religione: il problema di oggi è invece come promuovere "modelli illuministici, ove la ragione convive con la f

ede": una sorta di "laicismo aperto", non abbassato a "instrumentum regni". I laici sbagliano quando contrappongono una "fede moderna" a una "fede antica", l'una razionalistica l'altra dogmatica, anche se il partito democristiano "troppo spesso non ha rispetto né dello Stato né del diritto", e se comportamenti come quelli di Dossetti o di Fanfani possono ingenerare sfiducia. Occorre insomma non dimenticare "la ragione scientifica" e "i dettami della coscienza morale".

(IL MULINO, n. 54, Bologna - Aprile 1956)

L'approfondimento, svolto dalla nostra rivista, dei rapporti fra cattolici e laici, più che riflettere passivamente la discussione condotta dalla classe politica italiana in questo dopoguerra, è nato sopra tutto dall'esigenza di una collaborazione redazionale fra laici e cattolici; collaborazione che, sorta solo dall'occasione di una amicizia, in seguito venne cercando di enucleare quelle ragioni ideali che potessero dare un significato culturale, un valore non occasionale alla presenza del "Mulino". Guardando più ai nostri personali rapporti che alla scena politica italiana, preoccupati maggiormente di comprendere le nostre rispettive idee che di sostenere quelle degli altri, ne è derivato, lo confessiamo, un certo sfasamento fra i temi sviluppati della nostra rivista e quelli ricorrenti nella pubblicistica italiana: cattolici o laici, noi finivamo per non poterci più interamente riconoscere nelle rispettive parrocchie da cui provenivamo, e sentire un'insofferenza sempre maggiore verso antichi schemi e vecc

hie formule con cui le opposte parti continuavano a giudicarsi e a condannarsi. Schemi e formule: dovute al fatto che né i cattolici, né i laici italiani hanno cercato veramente di comprendere, sino in fondo, le esigenze, le storie e gli ideali dell'altra parte, di realizzare un'apertura verso quello che restava sempre il proprio avversario: e il Sillabo era sempre il comodo pretesto per rinchiudersi nelle proprie ragioni. Così, sul piano politico, quell'alleanza fra cattolici e laici, che è stata alla base dell'esperienza quadripartitica, si è trascinata attraverso sterili compromessi e pericolosi equivoci, dove hanno contato solo le ragioni della forza; e non poteva che succedere questo, dato che non esisteva la forza delle comuni ragioni ideali. Le aperture si sono date con Malagodi e con Saragat, con la conservazione e col rinnovamento sociale.

Pensando al fallimento di questa alleanza, se sul piano dell'uso e dell'abuso della forza la colpa ricade in massima parte sul partito democristiano che non ha tralasciato un'occasione per mostrare e imporre il massiccio gruppo dei suoi deputati, sul piano delle idee si potrebbe invece muovere un'accusa ai laici i quali, mai stanchi di dire e di ripetere di essere gli eredi e gli interpreti del pensiero moderno, non hanno poi fatto il minimo sforzo per approfondire la realtà così complessa ed eterogenea del mondo cattolico in una sua genuina dimensione politica e religiosa insieme (cfr. "L'opposizione cattolica e la religiosità italiana", n.36 e "Il posto della Chiesa", nn. 51-52), oltre quelle vecchie interpretazioni, che potevano forse andare bene cinquant'anni fa, ma che sono insufficienti a spiegare la "democrazia cattolica".

Si è rimasti così fermi a un certo anticlericalismo gustoso, raffinato e composto, un po' longanesiano, del "Mondo" che tuttavia, nello stesso tempo, metteva in luce i pericoli di una rottura col movimento politico dei cattolici; o a interpretazioni brillanti, come l'ultima de "l'Espresso" che ha visto in Vanoni (per le sue idee economiche così vicine a quelle dei radicali) un'anima 'calvinistica': questa boutade è assai sintomatica della leggerezza e della superficialità con cui i responsabili della 'politica culturale laica' guardano al mondo cattolico: condannato in blocco, quasi aprioristicamente in nome di una visione manichea, vengono salvate alcune figure solo perché potenzialmente eretiche: il cattolico-liberale De Gaspari o il calvinista Vanoni. E questo, proprio in un periodo in cui il mondo cattolico italiano, sentendo l'enorme responsabilità che gli grava sulle spalle, è in pieno fermento; in cui i giovani, ossequienti al Magistero della Chiesa e insieme persuasi assertori della libertà politica,

cercano a fatica nuove strade e nuove tradizioni, disponibili forse a diverse suggestioni; proprio in questo periodo i laici troppo spesso hanno risposto dall'alto mostrando ai cattolici un laicismo integralista e dogmatico inconciliabile con la loro fede, un calvinismo di maniera a cui essi per primi non credono, un cattolicesimo liberale che troppo spesso è il sintomo di un'evasione dal problema reale. Così si è rischiato ogni giorno di convincerli che, per essere veramente cattolici, è necessario ritornare al Medioevo, non andare né più avanti né più indietro di S. Tommaso perché, più indietro, c'è il protestantesimo col ritorno ai Sacri Testi, più avanti il pensiero moderno inconciliabile con la fede.

Alcuni mesi or sono, su queste stesse pagine ("L'unità dei laici e l'unità dei cattolici", n. 45; "Cosa significa l'unità dei cattolici", nn. 46-47) si è cercato di mostrare quanto ambigua ed equivoca sia la parola laicismo e quanti pericoli corresse una politica che si volesse ispirare solo a questa formula. L'unità dei laici non solo era inattuale perché, sul piano delle scelte economiche, i laici volevano cose assai diverse, ma era anche un mito politico dannoso per lo sviluppo democratico del nostro paese. Infatti questa bandiera era utile soltanto per una guerra di religione: da un lato i cattolici, dall'altro i laici, ciascuna forza con il suo Dio, animata dalla volontà di distruggere l'altra per far trionfare il suo supremo valore. L'unica realistica soluzione politica sarebbe stato un fronte dei laici, che andasse dai liberali ai comunisti: ma, dato che i primi avevano un senso della persona umana e una concezione della democrazia politica assai più vicini a quelli dei cattolici che a quelli dei comu

nisti, finivano per restare prigionieri del mito che avevano evocato senza perseguire né il laicismo coi comunisti né la democrazia con i cattolici.

Il mito dell'unità dei laici era, in altre parole, un mito pericoloso in misura uguale a quello dell'unità dei cattolici al quale veniva contrapposto: pericoloso in quanto introduceva nella lotta democratica un elemento fideistico-ideologico inutile per razionali scelte politiche. Per vincere e superare l'unità politica dei cattolici non bisogna tanto creare una forza che esprima l'unità degli anticattolici, quanto realizzare una concreta politica alla quale possano aderire i molti "osservanti" che, oggi, in Italia non votano, o votano con molte riserve, per la Democrazia Cristiana. Un partito moderno non deve fare posto alle questioni teologiche, ma solo garantire uno spazio alla fede, una possibilità di presenza anche a valori religiosi e morali: i concreti problemi politici vanno affrontati, discussi e risolti con uno spirito scientifico all'interno di quella struttura giuridica dello Stato che le parti insieme hanno convenuto.

Ma i laici sono incapaci di questo sforzo critico e revisionistico per gli stessi limiti della loro cultura, ancorata alle tesi dell'idealismo il quale, o vede nella religiosità un momento inferiore dello spirito che può avere il suo inveramento solo nella filosofia, o, addirittura, la dissolve quale inesistente attività spirituale. E con questo la filosofia idealistica - l'erede del pensiero moderno - finisce per prendere il posto della religione, quale ultima soluzione di tutti i problemi dell'uomo; non per nulla si è parlato, a proposito di Hegel e di Vico, di Croce e di Gentile di una nuova teologia che, introducendo Dio nel mondo, finiva per dissolvere scienza e religione in una filosofia intesa come autocoscienza assoluta. L'integralismo laico impediva così di fatto ogni possibilità di dialogo. Ai modelli romantici che confondono assoluto, ragione e storia, che rappresentano non il pensiero moderno, scientifico, ma una nuova teologia, bisognava contrapporre dei modelli illuministici, ove la ragione con

vive con la fede, mirando l'una a risolvere con strumenti tecnico-scientifici i particolari e concreti problemi che la società nel suo sviluppo offre, restando l'altra la soluzione di un personale problema interiore che trascende la sfera del finito. Ma fra la religione e la scienza, fra il fine ultimo e le tecniche particolari, non esiste quel rapporto immediato e meccanico che molti laici idealisti e molti cattolici pongono, soffocando la scienza nelle rispettive teologie. Per la soluzione dei concreti problemi politici e sociali questa continua verifica dei personali fini ultimi porta inevitabilmente a una mistificazione della realtà, a una politica basata solo sul proselitismo e sul fanatismo che sono inconciliabili con la democrazia, la quale è possibile solo nella tolleranza e nella discussione scientifica. Non si può impunemente barattare gli strumenti con i fini, rinunciare alle tecniche in vista dei valori, elevare i metodi a religioni, se si vuole contribuire allo sviluppo civile del nostro paese.

In questo laicismo aperto, come "metodo e non come religione" (tolgo questa definizione da SERAFINI, Laicismo e non laicismo, "Comunità", 1955), che affida all'intelligenza scientifica quel mondo umano e quelle dimensioni mondane e sociali che le competono, ci deve essere lo spazio per una espressione positiva della vita religiosa nella misura in cui questa sia, e nel popolo e nelle classi dirigenti, un fermento di vita morale, un sentimento di coerenza e di fratellanza, una purificazione dei costumi; e non venga abbassata a mero instrumentum regni, ausilio di un potere temporale che, con anticristiano spirito machiavellico, bene conosce tutte le risorse del dispotismo sulle coscienze. Molte religioni e diverse fedi dovrebbero condurre, nel libero confronto reciproco, alla elevazione del tono morale della vita di tutto il popolo; e, come si sa, senza 'virtù' non può esistere alcuna repubblica.

I laici, sul piano culturale, sbagliano quando vogliono contrapporre una fede 'moderna' a una fede 'antica', una confessione razionalistica a una confessione dogmatica: la storia ci insegna che, in questi casi, le armi restano l'unica e sola forma di persuasione possibile. Ma, a questo punto, bisogna pur riconoscere che a tali ultime posizioni, a questo moralismo destinato solo a una sconfitta, i laici erano e sono portati dalla politica del partito democristiano, il quale, forte del numero dei suoi deputati e perseguendo fini particolaristici, troppo spesso non ha rispetto né dello Stato né del diritto; non che questi abbiano un intrinseco valore, ma pensiamo che accettare una costituzione sia un impegno morale e non un'astuzia tattica, che la legalità sia, anche per un cattolico, superiore alla violazione delle leggi. Le piccole poliziesche persecuzioni ai protestanti, il disordine in cui viene mantenuta la scuola, la corruzione amministrativa visibile nel sottogoverno, il clientelismo così sfacciato dei v

ari enti di riforma e di sviluppo economico, la religione immiserita, non solo nell'imminenza delle elezioni, a puro strumento di propaganda di partito: questi fatti quotidiani turbano, prima che una sensibilità politica, la coscienza morale dei laici, e li portano a una condanna integrale del cattolicesimo, della sua incapacità a inserirsi come seria forza di rinnovamento della società contemporanea e a risolvere sul piano dello Stato, dell'uguaglianza e della certezza della legge, il problema della convivenza umana. Noi pensiamo, invece, che questi siano sopra tutto limiti ed errori politici commessi dal partito democristiano che offendono sì i valori del liberalismo, ma anche un sentimento cattolico veramente autentico; errori e limiti cioè che dimostrano uno scarso senso di religiosità.

E un esempio lampante lo potremmo trovare proprio in quella campagna elettorale per il Comune di Roma, impostata sul principio che la capitale della Cristianità non dovesse cadere in mano di forze anti-cristiane: oggi ci si ripresenta alle elezioni con una città corrotta caduta, si direbbe, sotto l'influsso del Maligno. Posti così in gioco, con leggerezza e cinismo, tutti i valori del Cattolicesimo, si è finito per perderli o per profanarli: da questo non ha tratto vantaggio né la Cristianità né lo Stato italiano. Pensiamo, quindi, che, per combattere il sottogoverno democristiano, non si debba colpire la religiosità dei cattolici, ma piuttosto denunciare l'assenza di questa; non proclamare la religione laica, ma chiedere ai cattolici una coerenza alla loro fede e alla loro morale.

I laici, sovente, restano preoccupati e perplessi di fronte a un Dossetti che porta tutta e solo la sua vocazione religiosa di apostolato in un problema quale l'amministrazione di una città; ma vengono anche respinti dalla spregiudicatezza realistica di un Fanfani che, accettata l'autonomia della politica, per i suoi fini ultimi non pone alcun limite morale ai mezzi impiegati, ed è disposto sul piano politico a tutto, perché la politica non è un fatto cristiano. E per trovare un senso al nostro discorso dovremmo dire: noi aspettiamo i cattolici italiani su posizioni che non siano quelle di Dossetti, né quelle di Fanfani: né la politica semplice espressione di apostolato, né la politica del fine che giustifica i mezzi. Nella prima posizione par mancare la consapevolezza dell'autonomia della indagine scientifica e della azione politica dalla prospettiva religiosa; nella seconda, la persuasione che anche la coerenza e le virtù morali a fondare lo Stato. E' forse contraddittoria questa affermazione? E' contraddi

ttorio chiedere una convivenza che, attraverso la ragione e nel rispetto del diritto, si fondi sul compromesso e, insieme, chiedere una più aperta testimonianza della propria fede? In altre parole, essere coerenti significa necessariamente essere intolleranti?

A queste domande si possono dare risposte di tipo teorico: per quanto utili e forse necessarie, le risposte "teoretiche" non sono tuttavia sufficienti; occorre anche una risposta pratica, che fondi nella attività di ogni giorno l'equilibrio tra la ragione e la fede, per cui le persone e i gruppi sociali si servano di quanto suggerisce la ragione scientifica e insieme restino fedeli ai dettami della coscienza morale. A produrre questa risposta, a calarla nel costume e nelle istituzioni, i cattolici e i laici, gli uomini di tutte le culture e di tutte le fedi, sono insieme chiamati.

 
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