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Mancini Federico, Santucci Antonio - 1 giugno 1956
I laici dopo le elezioni
di Federico Mancini e Antonio Santucci

SOMMARIO: Analizza le posizioni dei partiti dopo le elezioni amministrative del 27 maggio. Il PCI ha sofferto "il processo a Stalin"; l'autonomismo del PSI ha ottenuto un "grosso successo"; il PSDI ha "sfruttato" il "cataclisma moscovita"; la DC ha fatto balenare "la minaccia delle gestioni commissariali"; i liberali si sono confermati come "comitato elettorale della destra economica"; le "destre eversive" sono "sempre più isolate". Il paese ha espresso una volontà "conservatrice e progressista". Si prendono in esame quindi le posizioni e i risultati conseguiti dei laici. Essi non sono "soddisfacenti". Non sarà questo un sintomo che la sola "idea del laicismo" non può bastare a gpovernare? Il PRI rivendica giustamente l'eredità di custode dei valori repubblicani. Ma UP e i radicali? Questi hanno voluto organizzarsi come vero e proprio partito, ma alla prima prova elettorale sono usciti "severamente sconfitti". I radicali "hanno successo" quando fanno pubblicistica, trovano l'insuccesso quando si presentano c

ome partito. Di qui la necessità di "riflettere sulle sorti del laicismo in Italia", per le quali l'esperienza di Unità Popolare può essere interessante. I valori laici devono essere visti come fine "cui informare una coerente e pratica azione politica", e non essere esibiti "come idoli": il laicismo non può "fare da freno ad aperture" là dove siano date prove di "buona volontà democratica". Questi temi devono interessare la "borghesia socialmente più avanzata" che non deve cercare la sua rivalsa pensando al "partito degli intellettuali": che è l'errore commesso dai radicali.

(IL MULINO, n. 56, Bologna - Giugno 1956)

Le elezioni comunali e provinciali del 27 maggio scorso hanno portato se non ad una semplificazione, di certo ad una chiarificazione della vita politica italiana: i partiti si sono venuti definendo nei termini dei valori che sono ad essi specifici e, in qualche misura, tradizionali. Esemplifichiamo brevemente le loro posizioni. Il PCI, pur contenendo grazie alla sua macchina poderosa le perdite che il processo a Stalin doveva necessariamente produrre nelle sue file, ha indubbiamente sofferto la congiuntura politica: dieci anni di politica succube agli interessi dello Stato-guida lo hanno lasciato impreparato, dubbioso nella base come tra i dirigenti, gli hanno trasmesso in eredità una serie di problemi cui non sarà facile dar soluzione, come testimoniano le prime, titubanti risposte di Togliatti al questionario di "Nuovi Argomenti". Il PSI ha ottenuto per contro un grosso successo, fondato su un innegabile tentativo autonomistico prodottosi fin dal Congresso di Torino e di recente avvalorato anche sul piano

ideologico-teorico, da una dura critica al sistema sovietico, alla dittatura del proletariato degenerata in dittatura del partito comunista; non deve peraltro andar trascurato in questa breve analisi il fatto che sulla base socialista hanno ancora presa i motivi del vecchio frontismo e che il patto d'unità d'azione si configura per essa, anziché nel significato storicamente flessibile attribuitogli da Nenni, come alleanza inamovibile e dogmatica. Il PSDI ha anch'esso conseguito un notevole successo sfruttando con un'abilità non scevra di faziosità demagogica il cataclisma moscovita. La DC ha tenuto a differenziarsi, a presentarsi da sola, pur rispolverando per l'occasione il vecchio manicheismo centrista e, dietro un eventuale fallimento di questa formula, facendo balenare la minaccia delle gestioni commissariali. I liberali hanno dissipato, con la diarchia Malagodi-Orsello, ogni equivoco sulla loro funzione, atteggiandosi a comitato elettorale della destra economica e affermando al contempo il rispetto per

le strutture previste dalla Costituzione. Le destre eversive, i due gruppi monarchici e il MSI, sono sempre più isolate e, nonostante il successo municipale della "camorra" laurina, le loro posizioni elettorali si stanno dappertutto disgregando. Complessivamente si può dire che il Paese ha espresso insieme una volontà conservatrice e progressista. La sconfitta delle estreme indica nell'elettorato la decisione di difendere lo Stato nei suoi istituti giuridici, un atteggiamento che vorremmo definire legalitario. D'altra parte, il grosso appoggio dato ai due gruppi socialisti è la testimonianza di una volontà di sinistra, di un'esigenza di rinnovamento sociale ed economico.

E i laici? Nelle elezioni del 27 maggio i laici si sono schierati o in raggruppamenti autonomi (le liste di "Rinnovamento democratico" a Milano, Torino, Napoli) o si sono divisi presentandosi i repubblicani e i radicali in liste congiunte ed Unità popolare sotto il simbolo del PSI (Bologna, Firenze, Venezia, ecc.). Queste, naturalmente, sono indicazioni tipiche. Quel che si può senz'altro affermare è che le liste di "Rinnovamento democratico" e i radicali isolati a Roma hanno dovuto registrare gravi sconfitte, mentre più difficile, a tutt'oggi, è misurare l'apporto effettivo dei voti di UP alle formazioni di "Alleanza socialista", salvo forse a Firenze dove l'accordo tra i due gruppi ha funzionato in modo efficace ed ha una sua storia particolare, legata alle origini dell'azionismo e, più generalmente, dell'antifascismo fiorentino. Quanto al PRI, l'osservatore si è trovato dinanzi a un fenomeno singolare: ulteriormente depauperato a livello nazionale, il vecchio partito ha dimostrato una insospettata vitalit

à nelle sue zone d'influenza tradizionale (Romagna, Marche settentrionali, Apuania) e in taluni distretti siciliani, migliorando di non poco le posizioni raggiunte nel 1953.

A parte tali eccezioni, dunque, e stando ai primi rilievi che ci sono offerti, il quadro elettorale del mondo laico non si rivela soddisfacente. Ne emerge ovviamente una domanda, un problema naturale per chi abbia a cuore le sorti di questi gruppi e nel loro spazio bene o male si muova: in che misura sono in crisi i valori laici o fino a che punto, invece, non appare astratta la pretesa laica di inserirsi con rappresentanze politiche nella vita del Paese? Per rispondere convenientemente a questa domanda è necessario, ci sembra, delineare, sia pure in modo schematico, alcuni dei fondamentali significati che i termini "laico", "laicismo" ed equivalenti sono venuti assumendo nel dopoguerra italiano. Prescindendo dalle matrici culturali e storiche della parola, procederemo dunque per esclusione: laici sono coloro che non si riconoscono tout court nel marxismo o che rispetto ad esso si situano in posizione revisionistica e problematica, coloro che nei confronti dei cattolici fanno valere i tratti peculiari dello

Stato moderno e della tolleranza, coloro, infine, che del liberalismo tradizionale promuovono una critica nel senso di un'aspirazione più viva ad una libertà concreta e non solo formale. Orbene, è sufficiente l'idea del laicismo, per matura che ne sia stata la riflessione teorica e vigorosa la sollecitazione morale, a garantire il successo di un movimento politico che su di essa si fondi? Su questa domanda si è cimentata una generazione di intellettuali dal sorgere del secondo Partito d'azione ai giorni nostri, e su di essa intendiamo avviare un discorso che nella rivista sarà ripreso in forme sempre più organiche nei fascicoli a venire.

I valori del laicismo, così come ci è parso di poterli delineare, sono titoli tradizionali del Partito repubblicano. La sua storia, dal 1860 in avanti, è la storia sempre diversa, ma sostanzialmente coerente, della difesa di questi valori e, in tale senso, il PRI ha, più di ogni altro movimento del nostro Paese, il diritto di esser definito partito risorgimentale. Per questo motivo e per l'esistenza di radici limitate, ma profonde che i repubblicani conservano nel nostro Paese, qualsiasi discussione sulla loro politica, sulle loro vicende elettorali, non mette in forse le ragioni della loro presenza, presenza che si salda alla storia, che si alimenta di un'adesione popolare e che si esprime in miti e in simboli sociologicamente configurabili. Resta, sì, da vedere se quella politica sia giusta, ma ciò indurrebbe ad altro discorso, eterogeneo a quello che andiamo conducendo sul rapporto tra i valori del laicismo e le sue rappresentanze politiche, nonché sui riflessi e le conseguenze che tale rapporto ha determ

inato nell'ultima competizione elettorale.

Tale problema, invece, diviene cruciale in relazione alle due formazioni "laiche" più recenti: Unità popolare e Partito radicale. La storia di queste formazioni, come si sa, è diversa per molteplici aspetti. UP nacque da una dissidenza socialdemocratica e repubblicana provocata dall'adesione dei due partiti al progetto di una legge elettorale maggioritaria, si sviluppò e trovò consensi tanto ampi da divenire determinanti nella competizione del 1953, visse in seguito come movimento d'opinione intorno al settimanale fiorentino "Nuova Repubblica". UP, tuttavia, pur non limitandosi ad essere un mero club elettorale, non intese mai erigersi a partito con l'insieme di attribuzioni che quest'ultimo è venuto acquisendo nell'età del suffragio universale: vale a dire, ridusse al minimo, o quanto meno rese più elastici gli organismi istituzionali, al tesserato sostituì l'aderente, al patriottismo e alla fedeltà dei membri preferì il consenso leale e problematico su talune idee fondamentali.

I radicali, per contro, usciti dal Partito liberale all'indomani del Congresso dell'EUR, vollero, dopo le perplessità connaturali in chi ha operato una sortita politica, darsi veste e dignità di partito. Aprirono, dunque, sezioni, cominciarono a darsi un'organizzazione, dichiararono di non sentirsi un "partito minore" e di voler fuggire il tono intellettualistico, il pedagogismo di cattedra e le formule universali che caratterizzano le minoranze ristrette. Alla prima prova elettorale - una prova, aggiungiamo, che per essere municipale è più difficile per un partito recente di ogni altra competizione in quanto risente di specifici interessi clientelari, di situazioni più vischiose e per ciò più resistenti alle idee nuove - i radicali si gettarono nella lotta con la gracile struttura che avevano potuto creare e ne sono usciti severamente sconfitti: dodicimila voti a Roma nonostante le benemerenze di Cattani e la coraggiosa campagna che l'"Espresso" aveva condotto contro quella corrotta amministrazione, insucce

ssi ancora più gravi nelle altre città dove l'apporto del partito non è neppure riuscito a compensare le perdite dei repubblicani.

Se ora misuriamo l'entità di questa sconfitta con il successo incontrato dalle iniziative editoriali ispirate al liberalismo di sinistra e, ancor più, con il consenso che i radicali hanno raccolto nel Paese in occasione della loro attività non immediatamente politica, ma volta ad individuare le contraddizioni della nostra società economica e politica (i monopoli, la scuola tarata e succube all'ingerenza clericale), si può, in ordine alla domanda che per noi valeva come ipotesi, trarre qualche utile indicazione. Per crudo e sillogistico che possa apparire il nostro discorso, diremo così che i radicali hanno successo quando elevano i valori laici a princìpi d'interpretazione e di correzione della realtà, hanno insuccesso quando pretendono di competere con gli altri partiti nella rappresentanza politica dell'elettorato. In altre parole, il consenso che gli ambienti più illuminati del Paese portano ai cahiers de doléance radicali non si ritrova nelle urne: segno probabile che sul piano dell'immediata scelta poli

tica l'elettore, stimolato ad un certo livello della vita pubblica dalle idee più spregiudicate e moderne dei radicali, finisce poi col trasferire la sua esigenza di rinnovamento a quei gruppi che per la loro organizzazione gli danno maggior fiducia di tradurre quelle idee in realtà effettive sia pure ad una scadenza più remota.

Di qui la necessità di riflettere praticamente sulle sorti del laicismo in Italia. La sconfitta radicale induce a pensare che i valori laici non si difendono creando un partito: un partito che proprio per la sua recente formazione e peri i suoi inevitabili caratteri di rappresentanza aristocratica (e la formula post-elettorale del Benedetti per cui i radicali costituiscono oggi "la minuscola Italia dei galantuomini" ne è una dolorosa testimonianza) non offre lo spazio sufficiente ad una diffusione che si espanda oltre le zone più sensibili dell'opinione pubblica. D'altra parte, l'esperienza di Unità popolare consente un'ulteriore determinazione di questo giudizio: è innegabile, infatti, che da quando UP, la quale non ha mai inteso essere un partito, ha posto come suo fine politico un più stretto rapporto col PSI per favorirne l'autonomia e allargarne la base democratica, all'interno del partito di Nenni o almeno ai suoi vertici, si sono dati segni di una maggiore vitalità ideologica, di una volontà più consa

pevole nel porsi i problemi della cultura e della società moderna.

Questo di Unità popolare ci sembra pertanto uno dei possibili itinerari politici su cui dovrebbe avviarsi l'iniziativa laica in Italia. I valori del laicismo - questi valori che per noi costituiscono una preziosa esperienza nella storia delle democrazie occidentali e che valgono al contempo come scelta morale - sono tali solo nella misura in cui, lungi dal costituire la prerogativa di minoranze ristrette, sono rimessi costantemente in giuoco, partecipati a nuove forze e prospettive sociali, e per ciò stesso arricchiti. La loro trascendenza rispetto alla storia non è mai assoluta anche se non si consuma in un relativismo opaco e dissolvitore. Se dunque essi non sono riusciti ad attivare l'elettorato italiano, ciò dipende - ci sembra - dall'impiego avaro che ne è stato fatto: anzichè esser mostrati nei loro raccordi con la realtà concreta, come fini cui informare una coerente e pratica azione politica, i valori laici sono stati tesaurizzati gelosamente, esibiti come idoli polemici o norme che per la loro stess

a assolutezza non potevano essere trasgredite.

Occorre, in altre parole, inserire questi volori in un più ampio circolo democratico, saldarli alle conquiste e alle aspirazioni delle forze sociali che in questi anni vengono assolvendo ad una funzione sempre più rilevante nella vita dello Stato. Per chi si pone il problema di una sinistra democratica nel nostro Paese tale compito è essenziale: compito che, per essere sotto certi aspetti demagogico, non deve ignorare le procedure con cui rendere effettiva la partecipazione di cui si diceva. Tali rapporti si producono di certo a molteplici livelli; e tuttavia non possono escludere neppure quello politico (quale, ad es., si dà in una competizione elettorale) se si vogliono evitare da un lato l'atteggiamento precettistico proprio del radicalismo culturale e, dall'altro, quel tanto di mitologia che permane nella figura romantica dell'intellettuale "organico".

L'iniziativa laica non può egualmente ignorare la presenza dei cattolici. Ai cattolici, certo, non possono oggi venir opposte una faziosità immobile, le pregiudiziali giustificate al tempo del massimo attrito tra la Chiesa e lo Stato. La "tolleranza" laica non può fermarsi ai confini del mondo cattolico, adducendo a pretesto l'intolleranza che scaturisce dai nuclei dogmatici del cattolicesimo. Dietro la forza apparente di tale argomento si cela in realtà l'incapacità di reagire attivamente ai problemi posti da una presenza religiosa: un laicismo codesto che finirebbe, in altre parole, con l'esser non meno inerte di quello di chi è disposto, nei confronti del mondo cattolico, ad ogni transazione, ad ogni scommessa politica fine a se stessa. In concreto, di fronte ai fermenti innovatori del mondo cattolico - e il ritorno di Dossetti, con tutte le sue ambiguità e le sue incognite, potrebbe esserne un esempio - i laici non possono limitarsi ad opporre una resistenza che finirebbe col tramutarsi in mera passività

; la chiarezza ideologica non deve in nessun caso incorrere in compromessi, ma non può fare da freno ad aperture là dove la controparte dia buona prova di volontà democratica, di adesione agli istituti e allo spirito dello Stato di diritto.

Tali problemi non toccano tutti i contrasti obiettivi della situazione italiana. Sono nondimeno problemi nella cui soluzione s'impegna l'onestà e la consapevolezza della nostra borghesia socialmente più avanzata e a cui non può restare estraneo neppure il concorso del proletariato più aperto alla complessità della lotta politica. Se essi non si inseriranno nella vita politica, se non si legheranno alla dialettica dei grandi partiti, potranno solo dar luogo a soluzioni effimere, inoperanti. Tornando alle ragioni dell'insuccesso cui è andata incontro l'iniziativa laica, si tratta di saper distinguere tra il compito dell'intellettuale e l'attività politica. Fanno al nostro caso le parole del Bobbio (in "Politica e cultura", Torino, 1955, p.137): "Questo scambio, questa confusione sono il prodotto naturale e inevitabile dell'isolamento in cui si vengono a trovare gli intellettuali in una società disorganica e della conseguente impossibilità e incapacità di trovare un inserimento politico nei partiti ch'essi degr

adano a fazioni o condannano come chiese. Essi, respinti ormai su posizioni di contorno, pur continuando a coltivare la convinzione di esser guide spirituali, non trovano altra via d'uscita politica che quella di costituire, come tutte le altre forze sociali, un partito il quale rispecchi la loro superideologia e sia perciò inconfondibile con gli altri partiti ideologici o di meri interessi". Uno scambio siffatto porta al fenomeno "mostruoso" del partito degli intellettuali, intellettuali costretti a rinunciare al loro compito peculiare, che è quello della ricerca obiettiva e rigorosamente controllata, per calarsi nella lotta politica donde escono il più delle volte malconci e sconfitti. Con in più quest'altro risultato negativo: di non aver fatto neppure della buona cultura e di aver viziato e compromesso quanto di utile la comunità da loro si attendeva. Senza cadere nelle contrapposizioni ermetiche o metafisiche tra politica e cultura da cui non andava esente neppure il Croce, noi pensiamo che sull'unità e

sulla confusione abbia a prevalere la distinzione e la chiarezza.

Nella campagna precedente il 27 di maggio, Unità popolare, ci sembra, ha cominciato a comprendere come non possa darsi politica efficiente senza efficienti strumenti e come la cultura debba ordinarsi in un altro piano. I radicali sono caduti nell'illusione di poter saldare le due dimensioni. Produttivi quando hanno saputo distinguerle, non hanno evitato la sconfitta quando hanno preteso di attuare un ideale politico con la purezza disarmata della loro professione di intellettuali. Per tutti noi laici, v'è sufficiente materia su cui meditare nel prossimo futuro.

 
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