di Guido CalogeroSOMMARIO: Il documento del Prof. Guido Calogero, relatore del Cap. X· della parte prima dello "schema generale del volume" per un programma politico-economico del partito:
Premessa.
A. Il problema costituzionale: 1. L'insegnamento della religione; 2. Scuola pubblica e scuola privata; 3. L'esame di Stato.
B. Il problema strutturale: 1. Criteri educativi generali; 2. Educazione di base e preparazione professionale; 3. Alcune singole riforme di struttura.
C. Il problema finanziario.
Premessa - Per indicare, in un limitato numero di pagine, gli auspicabili orientamenti di una politica scolastica italiana, è ovviamente necessario restringersi ai problemi fondamentalissimi. Ciascuno di essi, di fatto, si specifica in una serie di altre questioni, ognuna delle quali esigerebbe, - per essere trattata adeguatamente, con concrete indicazioni per l'attività legislativa e amministrativa, - almeno tanto spazio quanto qui è a disposizione per l'insieme del presente capitolo. E' d'altronde essenziale convenire, intanto, sulle linee essenziali di quel che va fatto, anche perché, più si scende verso il particolare, più la concreta determinazione dei provvedimenti può e deve restare aperta ad ulteriore discussione.
Nell'insieme, la politica scolastica in Italia presenta tre grandi ordini di problemi. Il primo è quello che può dirsi politico, ma che preferiamo chiamare costituzionale, perché una politica della scuola non può mai essere, in questo senso, altro che una difesa della natura e della funzione costituzionale della scuola stessa, quali sono definite nella Carta fondamentale della Repubblica. Il secondo è quello che chiameremo strutturale: vi sono comprese tutte le questioni a cui si pensa quando si parla di "riforma della scuola", cioè tutti i problemi di riorganizzazione e di ammodernamento di uno strumento senza dubbio invecchiato, qual è il nostro sistema educativo. Il terzo è quello finanziario, cioè il problema del reperimento dei fondi necessari sia per le riforme di struttura considerate nel punto precedente, sia per il generale ampliamento dell'organismo scolastico, chiamato a diventare uno strumento di civiltà per tutti e non a restare un privilegio di pochi: in altri termini, il problema della quota d
el reddito nazionale da investire annualmente nel processo educativo.
A. - IL PROBLEMA COSTITUZIONALE.
Gli articoli della Costituzione concernenti la scuola non lasciano dubbi sul punto che anche in Italia, come nelle altre nazioni più moderne e civili, lo Stato si assume la responsabilità di garantire a tutti un certo livello di educazione, e di garantirlo a prescindere, soggettivamente e oggettivamente, da ogni differenza di razza, di condizione sociale e di orientamento politico o religioso. Contro questo chiaro impegno costituzionale stanno, notoriamente, certe norme dei Patti Lateranensi, a cominciare da quella che assegna alla religione cattolica la qualità privilegiata di religione dello Stato, e al suo insegnamento il carattere di "fondamento e coronamento" di tutta l'istruzione. La coerenza avrebbe voluto che, una volta entrate in vigore le nuove norme costituzionali, fosse stata senz'altro riconosciuta la decadenza di quanto vi contraddiceva nei precedenti Patti, stipulati del resto fra un regime autoritario, quale il fascismo, e una Potenza che non ha ancora smentito il Sillabo, quale la Chiesa Cat
tolica. Disgraziatamente, e nonostante le precise dichiarazioni dei più autorevoli esponenti democristiani prima della votazione dell'articolo 7 della Costituzione, ciò non è accaduto.
Di conseguenza, per questo aspetto più generale, la politica non solo di ogni partito laico, ma di ogni cittadino italiano geloso della sua carta costituzionale e dei diritti fondamentali che essa garantisce a lui e ad ogni altro, deve restar quella d'insistere perché abbia luogo tale solenne dichiarazione di decadenza; o perché, più radicalmente, siano dichiarati decaduti gli stessi Patti Lateranensi, in quanto implicanti, non solo nel concordato ma anche nel Trattato, prescrizioni incompatibili con la Costituzione italiana e con la inderogabile parità di diritti da essa garantita a tutti i cittadini.
Finché, tuttavia, ciò non sia accaduto, è chiaro che i responsabili della politica scolastica italiana debbono valersi, per la difesa di questi diritti, non solo della rigorosa interpretazione del testo costituzionale ma anche di quella degli stessi Patti Lateranensi. Qui i problemi principali sono tre: quello dell'insegnamento della religione, quello delle scuole private, e quello dell'esame di Stato.
1. - L'insegnamento della religione - Una larga messe di studi e di documentazioni ha dimostrato, in questi ultimi anni, come l'insegnamento della religione, di cui lo Stato italiano ha coi Patti Lateranensi concesso il monopolio, nelle sue scuole, alla Chiesa cattolica, non possa ormai più dirsi neppure un insegnamento, essendosi ridotto a un mero indottrinamento catechistico, e a una preordinata coartazione emotiva degli animi dei giovani mercè manifestazioni rituali ed atti di culto. Tipici, a questo proposito, i programmi per le scuole elementari, pure emanati dalla stessa autorità scolastica dello Stato italiano. Si aggiungono a ciò tutte le altre pressione pratiche, tendenti a mettere in situazioni di inferiorità, e ad intimidire col ricatto dell'affetto filiale, le famiglie desiderose di evitare ai loro ragazzi un simile indottrinamento autoritario e di garantir loro libertà di una seria scelta religiosa.
Una politica di difesa contro i simili procedimenti non può peraltro limitarsi a richiedere che dall'insegnamento religioso vengano eliminati le manifestazioni rituali e gli atti di culto (canti religiosi, preghiere collettive, ecc.). Essa deve pretendere l'applicazione rigorosa dell'art.36 del Concordato, che statuisce le condizioni di questo insegnamento. Tale articolo infatti, se da un lato riserva all'autorità diocesana la designazione o l'approvazione di coloro che debbono impartire l'insegnamento, dall'altro stabilisce che la determinazione dei programmi deve avvenire di concerto con l'autorità scolastica dello Stato italiano.
Basterebbe quindi che quest'ultima si rendesse conto che nessun serio insegnamento di religione può prescindere da un'analisi storica dei suoi documenti e da una discussione filosofica dei suoi presupposti, né svolgersi senza una continua ed obiettiva comparazione delle sue credenze con quelle di altre religioni, per essere autorizzata ad esigere nell'organizzazione del programma d'insegnamento, il rispetto di tali criteri. E' facile vedere quali conseguenze ciò comporterebbe. Potrebbe nascere persino la sospensione di ogni insegnamento religioso, qualora la Chiesa non ritenesse di poter accettare tale interpretazione laica della sua struttura. D'altronde, tutto questo non costituirebbe che l'interpretazione dell'art. 36 del Concordato alla luce di quei principi di libertà critica e di rispetto obiettivo per ogni punto di vista esaminabile nella discussione, i quali informano la nostra carta costituzionale per tutto quanto vi riguarda la vita della scienza, della ricerca, della cultura e della scuola.
2. - Scuola pubblica e scuola privata. - Anche in relazione a questo problema resta fondamentale il sopra ricordato principio costituzionale, secondo cui la scuola di Stato, chiamata ad essere la scuola di tutti, deve porre a suo fondamento non una singola dottrina (per quanto grande possa essere il numero di coloro che nella nazione dichiarano di accettarla), bensì lo spirito di comprensione di ogni possibile dottrina, e di tolleranza e anzi di interessamento per la discussione critica di ciascuna di esse. Di qui la priorità intrinseca della stessa scuola di Stato, la quale, non appartenendo a singoli, o ad enti comunque particolari nell'ambito della nazione, offre con probabilità massima il modo di adempiervi a quel compito, ed insieme di controllare se esso venga effettivamente adempiuto.
Ciò implica la conseguenza che, pur restando ad enti e a privati la libertà di organizzare altre scuole, e ai giovani di frequentarle a preferenza della scuola di Stato, solo a quest'ultima deve andare, senza eccezione, tutta quella quota del reddito nazionale, che il Parlamento di volta in volta decida di investire nell'educazione. Tale (come è ormai stato chiarito con molteplici e incontrovertibili argomenti) è il palese significato di quella preclusione costituzionale, che fu espressa nella nota formula del "senza oneri per lo Stato".
Per questo aspetto, una seria politica scolastica non può quindi evitare di tener fermo a quella precisa interpretazione del divieto, e di opporsi a qualunque espediente venisse escogitato per aggirarlo. I cittadini italiani non devono pagar tasse che per la loro scuola pubblica: e non già, insieme, per la scuola pubblica e per la scuola privata. Né si ripeta il vieto argomento, che con ciò si vengono a porre in situazione di inferiorità i cittadini i quali preferiscono inviare i loro figli alla scuola privata, risultando essi soli costretti a pagarsi due scuole, quella pubblica attraverso le imposte e quella privata sul bilancio familiare. Nel caso, infatti, che anche questa scuola privata fosse finanziata dal denaro pubblico, chi per caso si trovasse a non gradire né la scuola statale né questa scuola privata finanziata, e ne preferisce un'altra privata non finanziata, di scuole verrebbe a pagarsene addirittura tre. Ogni deroga al principio, insomma, non viene che ad accrescere l'ingiustizia, oltre che ad
infirmare una regola la cui osservanza è invece d'interesse vitale, se si vuole che i giovani siano educati ad essere cittadini di un mondo libero e non soltanto a servire a una chiesa o a un'ideologia o a un partito.
Con la stessa intransigenza di principio dev'essere infine considerato anche il problema delle forme di autorizzazione e di riconoscimento delle scuole private da parte dello Stato. Senza entrare in discussioni particolari circa le varie forme e regolamentazioni della cosiddetta parità, basti qui riaffermare il criterio che qualsiasi riconoscimento, che lo Stato conferisca a una scuola non statale, deve significare che quest'ultima risponde, in misura maggiore o minore, non solo ai necessari requisiti di efficienza organizzativa e tecnico-didattica, ma atresì a quelle esigenze di laicità e di non confessionalità, la cui tutela è appunto supremo compito dell'azione statale nel campo educativo.
Una scuola, poniamo, il cui corpo insegnante fosse tutto composto di cattolici professanti, o di marxisti ortodossi, non dovrebbe mai, per principio, avere una qualsiasi riconoscimento di parità. Per dare un altro esempio (forse particolarmente indicativo nonostante che appartenga all'ambito universitario, mentre quanto qui si dice riguarda primariamente la scuola secondaria), all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano dovrebbe esser sospeso il riconoscimento della validità dei suoi titoli accademici fino al momento in cui si assodasse che almeno qualcuno dei suoi docenti non è cattolico, o almeno fino al momento in cui essa rinunciasse a imporre ai suoi studenti, come condizione necessaria per il conseguimento della laurea, il cosiddetto giuramento antimodernista. Infatti un insegnante, o un ricercatore, il quale giuri di non abbandonare mai certi convincimenti teorici, quali che siano le critiche a cui in seguito possano risultare esposti nella sua riflessione, si pone per ciò stesso al di fuori di
quella regola di costante sincerità rispetto alla propria coscienza, e alla possibilità che essa muti atteggiamento attraverso le vicende dell'esperienza e il dialogo con le coscienze altrui, che è il laico e liberale fondamento di ogni civiltà, e che informa anche la nostra concezione costituzionale dell'educazione.
3. - L'esame di Stato. - Fino al momento in cui lo sviluppo della civiltà e della responsabilità civica non renda possibile anche in Italia l'attuazione dell'ideale einaudiano, di togliere valore legale ai titoli accademici e professionali e di lasciare agli individui, e alle singole scuole, ogni possibilità di affermarsi nella gara delle competenze, il principale strumento pubblico, per controllare il livello dell'organizzazione educativa nazionale, deve per forza continuare ad essere l'esame di Stato.
Questo non significa affatto che, strutturalmente, esso debba anche continuare ad essere quella cosa largamente incongrua e inefficiente che è stata fino ad ora. Proprio la necessità di farlo diventare uno strumento che funzioni esigerà che esso venga profondamente modificato. Ma sia ben chiaro, intanto, che ogni critica e ironizzazione della sua presente struttura, diretta a far vedere quanto ridicolo sia nella maggior parte dei casi il suo funzionamento, non dovrà mai essere sfruttata come argomento per proporne l'abolizione. Non si può d'altra parte rinunciare a denunciare le insufficienze per il solo timore che queste denunce facciano il giuoco di coloro che vorrebbero abolito l'esame di stato, con la speranza che nessun altro serio strumento fosse sostituito ad esso per controllarli. Dopo tutto, il maggior pericolo per la stessa sopravvivenza dell'esame di Stato è proprio costituito dal fatto che esso funziona così male, da non apparire soddisfacente ad alcuna persona ragionevole.
Il problema della riforma degli esami di Stato vien con ciò a riconnettersi con quello della riforma strutturale della scuola stessa. Come quest'ultima è uno strumento didattico ormai invecchiato senza rimedio, così è antiquato il tipo di esame che pretende di controllarne i risultati. Ciò vale largamente anche per gli esami di Stato di abilitazione professionale, ma è particolarmente clamoroso per l'esame di maturità, il quale è tanto poco quel che promette il suo nome, che alla sua stregua non c'è adulto colto il quale non possa esser giudicato immaturo. In luogo di accertare le capacità acquisite dal candidato mettendolo di fronte a cose da fare, che egli deve dimostrare di saper fare anche se si trova in quella situazione per la prima volta, si controlla semplicemente se è capace di ripetere parole e formule, imparate a memoria per quella occasione. E magari si ha il coraggio di chiamarlo un esame di "cultura generale".
A questo problema è infine connesso anche quello della costituzione delle commissioni esaminatrici. Si ha ragione di lamentare tanto che spesso vengano formate con criteri di parzialità ideologica e politica, quanto che i migliori professori per lo più non amino di farne parte. Tutto ciò è giusto, così com'è giusto insistere affinché la richiesta estraneità degli esaminatori all'ambiente da esaminare non si riduca a una commedia, e affinché un serio traguardo di concorsi resti essenziale per l'ingresso nei ruoli dell'insegnamento. Ma è erroneo ritenere che i problemi siano esauriti con questo, come si fa quando si ripete che tutti i problemi della scuola si riducono ai problemi del personale insegnante, e che solo un serio espletamento del presente sistema di concorsi basterebbe alla lunga a sanare tutti i mali. Sta di fatto che molti valenti professori universitari non amano, poniamo, di andare a presiedere commissioni di maturità, proprio perché non se la sentono di esser coinvolti in una tragicommedia ped
agogica di quel genere: allo stesso modo che tutti i migliori giovani studiosi considerano una iattura l'andare ad insegnare nelle scuole medie, cosa che molto probabilmente non farebbero, o farebbero assai meno, il giorno che quell'insegnamento fosse liberato da tutte le assurdità antipedagogiche, che continuano a renderlo spiacevole tanto ai docenti quanto agli scolari. Il che mostra come anche i problemi cosiddetti di personale, sia riguardo agli insegnanti sia riguardo agli esaminatori, siano di necessità collegati coi problemi di riforma delle strutture, tanto nel campo dell'insegnamento quanto in quello delle prove d'accertamento delle capacità. Senza dubbio, una buona scuola non può aversi senza buoni insegnanti: ma pochi buoni insegnanti entrano in una scuola cattiva.
B. - IL PROBLEMA STRUTTURALE
1 - Criteri educativi generali - Con quanto si è detto in ciò che precede si è già richiamata l'attenzione sul punto, che il problema della scuola in Italia non si risolve soltanto con l'ampliamento delle sue odierne strutture. Certo, ciascuno dei nostri tipi di scuola è insufficiente, per numero di istituti, al fabbisogno nazionale, e ciascuno dei nostri tipi di scuola degli istituti è insufficiente al numero di individui che dovrebbe frequentarlo cosicché l'estensione di questo apparato educativo, tale da renderlo sempre meno inadeguato, è, come vedremo, il problema numero uno della scuola italiana, dal punto di vista finanziario. Ma supporre che tutto si risolva semplicemente aprendo nuove scuole e facoltà e producendo nuovi insegnanti, secondo le strutture finora vigenti e giusta i metodi fin qui seguiti, sarebbe come credere che per motorizzare più adeguatamente l'Italia l'unica cosa da fare sia quella di produrre in serie milioni di quelle Fiat 501, che usavano trentacinque anni fa.
Di fatto, il nostro sistema scolastico è vecchio di trentacinque anni: e sono trentacinque anni che contano per qualche cosa, perché in essi c'è stata (o avrebbe dovuto esserci stata) la transizione dalla vecchia Italia, prefascista e fascista, all'Italia democratica. Il nostro sistema scolastico è ancora caratterizzato da quel misto di conservatorismo e di liberalismo, che è la riforma Gentile, più il fascismo e il corporativismo che vi si aggiunse fino alla riforma Bottai. Il Gentile (precorso del resto, in ciò, dallo stesso Croce) introdusse una certa spinta liberale nella scuola, sostituendo, dove poté, classici a manuali, e favorendo un certo ambito di discussione critica, un certo distacco da rigidi schemi di indottrinamento. Ma la sua concezione generale restava aristocratico-conservatrice. Come la scuola di stato doveva essere una scuola modello, destinata a servire di esempio e traguardo per la più vasta schiera delle scuole private, così l'educazione superiore, e con essa la preparazione all'ingres
so nella classe dirigente della nazione, doveva restar privilegio di pochi, sia pure non chiamati a ciò dal solo vantaggio di partenza della miglior condizione sociale. E ad essi doveva subordinarsi il più vasto esercito dei tecnici, dei produttori, dei commercianti, sequestrati dall'autentico mondo della cultura perché soltanto "numero", soltanto fruges consumere nati, secondo la stessa poco pietosa citazione poetica dal Gentile prescelta.
Oggi, una concezione di questo genere è irrevocabilmente invecchiata, ancora più che la Fiat 501. Anzitutto, la stessa Costituzione, prevedendo nell'art. 34 che l'istruzione "obbligatoria e gratuita" venga "impartita per almeno otto anni", fa di questa istruzione (anche se poco opportunamente detta "inferiore") l'educazione di base del giovane italiano, chiamato in quegli otto anni a formarsi come uomo e come cittadino indipendentemente da qualsiasi ulteriore specializzazione professionale. Ma, se quegli "otto anni" sono tassativi, l'"almeno" (che può perciò farsi legittimamente rientrare in quelle indicazioni programmatiche di orientamento, di cui è ricca la nostra Costituzione) segnala, con autorità statutaria, la già altrimenti ovvia necessità di non escludere che anche l'Italia possa, in un periodo di tempo non troppo lungo, raggiungere quella situazione di civiltà, ormai presente in molti altri paesi, nella quale la richiesta ed obbligatoria educazione comune di base si spinge non solo fino al quattordi
cesimo ma fino al diciottesimo anno di età, venendo cioè a coprire l'intera estensione di quella che noi chiamiamo scuola secondaria (negli Stati Uniti d'America, dove questo livello è stato ormai praticamente raggiunto, si prevede già il tempo in cui l'educazione di base comprenderà anche la college education, cioè si estenderà fino a tutto il primo biennio di ciò che noi chiamiamo università). Di fatto, un paese civile non è quello in cui ci sono gli operai, i contadini e gli intellettuali, ma quello in cui ci sono intellettuali tutti, si specializzino poi produttivamente nell'agraria, nella meccanica, nella matematica o nella poesia. Una scuola moderna non solo non deve esser condizionata da distinzioni di classe: essa non deve, nemmeno, produrre distinzioni di classe. Questo è il cardine strutturale di ogni scuola non retriva.
2. - Educazione di base e preparazione professionale. Tutto ciò implica la necessità di una revisione radicale del mondo in cui è tuttora concepito e impostato, nella nostra scuola, il rapporto fra comune educazione di base e preparazione professionale per le diverse attività. In Italia, questo rapporto è in genere scambiato, per un verso, con quello fra cosiddetta educazione umanistica e cosiddetta istruzione tecnica, e, per altro verso, con quello fra cosiddetta cultura generale e cosiddetta specializzazione. Tutte queste cose sono "cosiddette", perché nessuna di esse è in realtà quella che dice di essere.
Ci sono dilemmi ai quali non si sfugge. Come potrebbe un'educazione umanistica essere veramente umanistica, se fosse richiesta per formare l'uomo nel dentista e non per formarlo nell'odontotecnico? O l'addestramento all'usare i fondamentali beni della cultura è necessario anche per formare un buon operaio, o è inutile anche per formare un buon professore di università. Parallelamente, o la "cultura generale" consiste nell'avere un certo numero di idee approssimative sulle cose più varie in modo da non fare brutta figura presso persone che abbiano le stesse idee approssimative all'incirca sulle medesime cose; e allora può darsi che sia "generale", ma certo non è "cultura", bensì mera capacità di cavarsela in una società più interessata ad esibizioni mnemoniche che ad autentiche esperienze intellettuali. Oppure è effettiva attitudine ad accrescere la gioia della vita con l'uso dei beni inconsumabili dell'arte e della conoscenza, così come col civico costume del convivere e del comprendersi civilmente; e allora
essa è il risultato di un addestramento non meno concreto, non meno specifico e quindi non meno specializzato di quello che occorre per diventare radiotecnici o anestesisti.
Ogni addestramento specifico, d'altronde, è nello stesso tempo "generico" potenzialmente: bisogna culturalmente addestrarsi a saper usare qualunque opera d'arte e a saper affrontare qualunque situazione umana, così come l'anestesista deve professionalmente addestrarsi a saper fronteggiare ogni nuova difficoltà che gli si presenti nel suo campo. Si spiega così, anche, come sia venuto fuori il mito della "cultura generale": esso è infatti il prodotto di uno scambio, per il quale la doverosa universalità dell'educazione all'uso dei beni culturali e civili è stata considerata come il carattere intrinseco di certe nozioni da conoscere, e quindi di certe materie d'insegnamento. L'educazione al saper vivere godendo della bellezza e al saper convivere godendo della gioia altrui è senza dubbio "più generale" che l'addestramento al saper produrre singole cose e svolgere singole attività, perché queste ultime possono esser scelte dall'uno in modo diverso che dall'altro, mentre quella prima educazione debbono acquisirla
tutti, se vogliono vivere e convivere in modo civile. Ma non è già più "generale" nel senso che sia un diverso insieme di nozioni da ripetere, a paragone di quelle che si debbono ripetere se si è interrogati su una "materia speciale"! Di fatto, in luogo del dialogo civile, la vecchia scuola ha ancora come ideale la conversazione da salotto. La sua struttura deve quindi essere trasformata radicalmente, se si vuol renderla adeguata non a una società di parrucche e di chieriche, ma a una democrazia moderna.
Questo non significa, s'intende, che le vecchie strutture debbano tutte trasformarsi di punto in bianco nelle nuove. Non lo potrebbero, anche perché le scuole sono fatte in primo luogo dagli insegnanti, e le abitudini e le teste non si cambiano dalla mattina alla sera. Le nuove strutture debbono bensì sorgere accanto alle vecchie, nel senso che ogni nuovo ampliamento del sistema, che i mezzi finanziari permettano, andrà compiuto producendo modelli aggiornati e non soltanto ricopiando quelli di trentacinque anni fa. Il nuovo poi, di per se stesso, contribuirà a trasformare il vecchio, anche in tutti i casi in cui questo non avrà potuto esser sostituito rapidamente. E questo lascierà anche più larga possibilità di miglioramenti e correzioni, in tutti i casi in cui l'esperienza ne mostrerà il bisogno. Di fatto, nessuna riforma della scuola può pretendere di essere moderna, se non prevede una notevole elasticità di sperimentazione, solo rimedio capace di impedirle di cominciare a invecchiare fino dal primo giorn
o in cui sia stata messa in opera.
3. - Alcune singole riforme di struttura. - Le molte riforme di strutture scolastiche, che saranno richieste dall'applicazione dei sopraddetti criteri, non possono naturalmente essere elencate qui una per una. Se ne può indicare solo qualcuna, a puro scopo esemplificativo.
La scuola media cosiddetta dell'obbligo (in quanto già oggi la Costituzione prescrive che ogni ragazzo italiano debba frequentarla, fra gli undici e i quattordici anni) dovrà essere trasformata in modo che qualsiasi preparazione specifica, che i giovani possono acquisirvi, non sia né condizionata né condizionante rispetto al fatto che alcuni di essi siano destinati a proseguire gli sudi e gli altri passino invece senz'altro ad esercitare attività professionali. In altri termini, la scuola dovrà essere rigidamente unica per tutti, non nel senso che i suoi programmi debbano esser dappertutto identici, ma bensì nel senso che quel qualsiasi "avviamento professionale", che nelle varie località e nelle varie singole istituzioni si consideri da prescegliere in base alle richieste del mercato del lavoro, dovrà essere egualmente acquisito sia da coloro che dopo tale scuola cominceranno subito a lavorare, sia da coloro che invece proseguiranno negli studi. Agli uni servirà per metterlo senz'altro in pratica, agli altr
i come elemento integrante della loro educazione civica ed umana, non potendosi lavorare adeguatamente nei gradi superiori di una comunità se non si è lavorato in qualche modo anche nei gradi più bassi. Scuola media, scuola postelementare e scuola di avviamento professionale verranno così a fondersi in una scuola unica, la quale potrà e dovrà, d'altronde, essere insieme tecnica ed umanistica, perché il dilemma fra il tecnico e l'umanistico non ha più ragion d'essere, quando i suoi programmi siano sfrondati da tutto il nozionismo inutile che oggi la opprime.
Gli stessi criteri dovranno esser seguiti, per quanto è possibile, nella riorganizzazione della scuola media superiore. Particolarmente sarà da abolire, qui, il disgraziato Istituto magistrale. Anche i futuri maestri elementari dovranno fare il Liceo, e non diventeranno maestri se non dopo un biennio di specializzazione psico-pedagogica nella Facoltà di Magistero, la quale a sua volta potrà in tal modo cessare di essere un inutile e disgraziato doppione della Facoltà di Lettere, e diventare invece (dopo, s'intende, una adeguata trasformazione della sua struttura) lo specifico strumento di preparazione degli insegnanti delle scuole materne ed elementari e dei direttori didattici. Questa elevazione del livello di preparazione dei maestri si riconnetterà d'altronde anche a quell'accorciamento delle distanze fra i compensi dei vari insegnanti che è strettamente necessario in un paese come l'Italia, in cui certi professori universitari sono pagati a livello quasi americano e certi loro assistenti, così come molti
maestri elementari, lavorano dieci volte di più e sono pagati dieci volte di meno. Nel mondo contemporaneo non può infatti chiamarsi civile un paese in cui gli stipendi dei funzionari massimi siano, una volta pagate le imposte dirette, più del triplo di quelli dei funzionari minimi.
Tutto ciò è poi direttamente connesso con due fondamentali esigenze, la cui soddisfazione interessa l'intera struttura della scuola italiana. La prima è quella della liberalizzazione dei programmi, cioè dell'eliminazione di tutto ciò che tarpa l'iniziativa e il reale interesse sia dei docenti sia degli studenti. I programmi non dovranno mai avere altro che un valore indicativo, e il professore di scuole medie dovrà avere quella stessa libertà nella scelta delle parti da approfondire, che ha già il professore universitario non ossessionato dall'idea dei "corsi istituzionali". Parallelamente, nelle università gli studenti dovranno avere quella stessa libertà di scelta e di approfondimento specializzato dei loro corsi di studi, che già godono da generazioni in tutte le migliori università straniere. Radicalmente ammodernato, di conseguenza, dovrà essere anche il sistema degli esami, il quale dovrà tendere sempre più ad accertare la presenza di stabili capacità funzionali, indipendenti dal particolare contenuto
dei corsi d'insegnamento, invece che il precario apprendimento mnemonico di questi ultimi. L'urgenza di queste riforme, che in un primo tempo poteva sembrare avvertita soltanto nell'ambito degli studi storico-umanistici, è di fatto ora sempre più segnalata dappertutto, anche nel campo degli insegnamenti scientifici e tecnici. Il vecchio dottrinarismo enciclopedico, sorretto dalla falsa distinzione fra preparazione generale e preparazione specializzata, si manifesta dannoso in ogni campo, e dovrà essere eliminato ovunque.
L'altra esigenza fondamentale è quella del collegamento fra preparazione dei giovani e richieste del mercato del lavoro. Uno dei paradossi più tipici della situazione italiana è infatti, notoriamente, quello della sussistenza di un enorme numero di disoccupati, da un lato, e di datori di lavoro, dall'altro, che cercano mano d'opera qualificata e non la trovano. In quella scuola media unificata, di cui abbiamo parlato sopra, l'aspetto dell'avviamento professionale dovrà sempre essere predisposto in modo elastico, in funzione sia delle situazioni contingenti dello sviluppo economico locale, sia delle più larghe esigenze della nazione. Solo tenendo presente fin da principio questa necessità di continua rispondenza fra l'opera preparatoria della scuola e la necessità tecnico-produttive del paese, si potrà avviare il risanamento progressivo dell'assurda situazione presente, in cui la caccia universale non è alla preparazione ma al pezzo di carta, e, per non dire altro, ogni anno escono dalle università italiane m
igliaia di dottori in legge, destinati poi a svolgere attività per le quali quegli studi malamente compiuti sarebbero largamente inutili persino nel caso che li avessero compiuti in modo decente. Tutto questo, d'altronde, conduce naturalmente il discorso verso l'ultimo dei tre grandi problemi della scuola italiana, quello finanziario: giacché è chiaro che non si può pretendere che i cittadini di una nazione dedichino una sostanziale quota del proprio reddito alle loro istituzioni scolastiche, se non le sentono organicamente produttive tanto per il progresso civico quanto per quello tecnico-economico della collettività.
C. - IL PROBLEMA FINANZIARIO
All'ingrosso, si può dire che il massiccio aumento della quota del reddito nazionale da investire nel processo educativo, necessario affinché l'Italia non resti troppo indietro alle altre nazioni civili, è derivabile soltanto da tre fonti.
L'una è quella dello stesso ambiente produttivo e industriale, il quale, nelle situazioni di livello civile in cui arriva a comprendere quanto gli importi di avere buoni tecnici che siano insieme anche buoni dirigenti e amministratori, e quindi in conclusione anzitutto buoni cittadini e uomini educati a sentirsi a casa propria nella vita, s'interessa spontaneamente ai problemi della scuola, fonda società di alumni per sovvenzionare la propria alma mater, o addirittura crea nuovi istituti di educazione. E il fatto che in Italia lo sviluppo dell'istruzione privata accanto a quella pubblica presenti i peculiari problemi costituzionali, di cui si è parlato nella prima sezione di questo scritto, non deve assolutamente far giungere al punto da scoraggiare investimenti privati di capitale in questo campo. Magari se i grandi industriali italiani, in luogo di spendere complessivamente miliardi per sovvenzionare squadre di calcio, spendessero i miliardi per sovvenzionare scuole e università! Il problema non è quello d
i diffidare di questi interventi, ma di cercare di indirizzarli nel modo più opportuno, anche in relazione ai problemi costituzionali di cui si è detto.
La seconda fonte potrebbe essere costituita dal risparmio di altre spese che lo Stato fa, e che secondo ogni costituzione moderna (compresa, naturalmente, la nostra) esso dovrebbe invece lasciare alla libera scelta dei cittadini. Perché, per esempio, si spendono in Italia tanti miliardi per costruire chiese, quando mancano centinaia di migliaia di aule già soltanto per rendere possibile l'adempimento dell'obbligo scolastico costituzionale? Forse perché Dio ha bisogno di alloggio, o perché lo spirito religioso necessita di speciali mura per raccogliersi? Se qualcuno pensa così, padronissimo di pensarlo, e di comportarsi in conseguenza: ma, appunto per ciò, si paghi le chiese che desidera, come accade in ogni stato che sia laico sul serio e non per finta. Sappiamo benissimo che, nella presente situazione italiana, questa è una possibilità politica piuttosto remota. Ma anche l'integrazione scolastica dei negri in tutti gli Stati Uniti del Sud è una prospettiva piuttosto remota, e nessuno considera ciò come una
buona ragione per non parlarne.
La terza e più importante fonte di finanziamento resta, comunque, il bilancio della Pubblica Istruzione, cioè la quota di tasse che il cittadino è disposto a pagare per la scuola. E qui la bassezza del nostro livello civile è quella stessa che si manifesta se si considera il problema dal punto di vista della politica fiscale. Un popolo ancora refrattario a pagare le imposte dirette agli alti livelli degli inglesi e degli americani, e in compenso acquiscente a far gravare il maggior peso fiscale sulle classi meno abbienti attraverso l'imposizione indiretta, è evidentemente ancora troppo barbaro per sapere quanto una nazione civile deve spendere per la sua educazione. Man mano che lo capirà, e che accrescerà la quota del reddito investito in questo campo, l'adeguamento dell'apparato scolastico diverrà possibile. Per il momento, maestri e insegnanti di scuole medie meditano scioperi per la miseria dei loro emolumenti, gli assistenti universitari sono spesso pagati meno dei bidelli, gli incaricati minacciano di
non esserlo affatto, la scuola materna statale ancora quasi non esiste, le scuole elementari e le scuole medie inferiori provvedono soltanto a una parte di quella che dovrebbe essere per costituzione l'istruzione obbligatoria per tutti, e l'analfabetismo è ancora di casa tra milioni e milioni di italiani. Inutile dar cifre esatte: tutti sanno dove andare a trovarle, se vogliono (cfr., p. es., la relazione di Lamberto Borghi in "Dibattito sulla Scuola"). O, più esattamente, tutti sanno dove andare a trovare le cifre grossolanamente indicative, di cui disponiamo in campo statistico: perché poi non sappiamo neppure trovare i soldi per compiere le inchieste indispensabili al fine di avere i dati più aggiornati circa il fabbisogno educativo (circa, poniamo, le qualificazioni professionali più richieste), nonostante che le prime riforme necessarie siano appunto quelle della statistica e dell'inchiesta sociale, le quali permettano di capire quel che non c'è e quel che occorre.
Parallelamente, siamo ancora stati incapaci di risolvere l'altro grande problema finanziario, che è quello di dare realmente ad ogni giovane possibilità di compiere l'intero corso di studi rispondente alle sue capacità, senza che, da un lato, egli risulti posto in situazione di inferiorità dalle sue disagiate condizioni di partenza, e senza che, dall'altro, le distanze sociali fra le varie forme di attività facciano ritenere fallito chiunque non arrivi in cima alla piramide. E qui il problema non è neppure soltanto di quota del bilancio statale da assegnare a questo compito, perché esso potrebbe anche essere in parte risolto col sistema delle borse di studio restituibili dopo l'inizio dell'attività professionale, con un calcolo di probabilità non diverso da quello di molti altri rischi assicurativi.
Comunque, per tutto questo aspetto finanziario la politica scolastica non può, ovviamente, essere autarchica. Essa dipende, di necessità, da quanto volta per volta viene compiuto in sede di politica fiscale, e in sede di politica di bilancio generale dello Stato. Ogni programma concreto può essere formulato solo in base ai precisi aumenti del bilancio della Pubblica Istruzione, che possono essere presupposti; e solo in riferimento ad essi potranno essere anche stabilite le priorità delle urgenze, circa i singoli capitoli di spesa, e predisposti piani pluriennali. Quel che solo si può dire, in generale, è che nessun partito laico e democratico dovrebbe mai assumersi la responsabilità di attuare o di condividere o comunque di appoggiare un programma di governo e di legislazione, il quale non considerasse il problema della scuola come uno dei primissimi della vita italiana, ed affrontasse perciò il conseguente sforzo finanziario. Ci sono infatti, senza dubbio, moltissime riforme scolastiche che si possono fare
senza spese, ed è ingenuo credere che non ci siano. Ma, detto questo, bisogna subito aggiungere che la prova del fuoco, per l'Italia, è nella misura delle somme che nei prossimi anni e decenni essa saprà spendere per l'ammodernamento e lo sviluppo del suo apparato educativo, tale proporzione di spesa restando sempre il più tipico indice del livello di civiltà di un paese.