di Angiolo BandinelliSOMMARIO: Ritrattino tra urbanistico e sociologico del caratteristiche, delle strutture, dei problemi presenti nel comprensorio residenziale costruito dall'INA-Casa al settimo chilometro della Via Tiburtina. Il comprensorio venne progettato come risposta urbanisticamente forte al degrado e allo squallore edilizio delle "vicine borgate": e se certamente il disegno architettonico è accurato e persino ricco di "espedienti" e "trovate", è anche evidente l'intento degli autori di contrapporsi polemicamente al freddo razionalismo imperante, sostituendo al linguaggio dei palazzoni senz'anima un frammento "comunitario" carico di "sottile vena polemica contro la storia liberale della città" con i suoi drammi e le sue contraddizioni. Col risultato che gli abitanti del quartiere sembrano gente "respinta ai margini della più vasta vita cittadina".
(IL MONDO, 15 luglio 1958)
Al settimo chilometro della Via Tiburtina, sulla destra di chi esce da Roma, si innalza il nucleo residenziale dell'INA-Casa; per certe sue ambizioni architettoniche ed urbanistiche esso è uno dei complessi più interessanti tra i tanti progettati sotto gli auspici di questo ente per l'edilizia popolare. Gli architetti che lo hanno realizzato hanno tratto, da questa esperienza, qualche incitamento ed ispirazione anche per analoghe opere successive. Questo suo carattere "esemplare" non ha impedito che il quartiere Tiburtino divenisse oggetto di feroci critiche, le quali hanno trovato facile appiglio in certe ingenuità stilistiche di cui - bisogna riconoscerlo - i progettisti largamente abusarono.
Il paesaggio circostante è tipico della periferia romana; un aggregato elementare di magazzini, piccoli depositi di rottami ed imprese industriali di piccola e media forza, casermoni intensivi e baracche: il tutto ad affiancare l'arteria congestionata che conduce a Tivoli. In un raggio di pochi chilometri all'intorno si contano altri complessi, diciamo, residenziali, borgate famose per la loro tristezza: Tiburtino III, Pietralata, l'unità residenziale S. Basilio (altra opera INA-Casa) e quella dell'UNRRA-Casas. A questo squallore il quartiere Tiburtino si oppone con vigore polemico; ad esempio, esso contrappone alla sciatta disgregazione delle vicine borgate una sua unità intorno alla sua planimetria, si isola in se stesso: e per scovarlo bisogna entrarci, è forza dirlo, per caso.
A prima vista, la sistemazione urbanistica sembra snodarsi in ordinata fantasia. A piccoli blocchi fluenti intorno a spazi liberi precisi ed arguti, succedono case a torre e a schiera, alcune delle quali sfruttano gli esistenti dislivelli altimetrici senza apparente violenza. Una grossa costruzione a torre, d'un rosso carico, è il perno ideale e visibile di questa planimetria, sulla quale si sviluppano i vari edifici. Essi sono di ineguale valore architettonico; in tutti è però riconoscibile la volontà (e forse lo sforzo) di superare la scarna qualità del materiale a disposizione col serrato gioco di una fantasia partecipe. In questo sforzo l'espediente, la trovata superano, qua e là, il limite della discrezione. Ma, a ben guardare, non si tratta - e questo ci premeva sottolineare - di semplici giochi e bizzarrie, di trompe l'oeil per scusare la sostanziale povertà del tema, quanto di precise sottolineature con le quali i progettisti hanno inteso mettere in vista la loro cosciente scoperta polemica contro le
intemperanze programmatiche e i formalismi dell'accademia razionalista (l'opera risale al 1950 all'incirca, ad un'epoca cioè piena di ambizioni, in questo senso); così per contrapposizione a quella nudità geometrica astratta, ecco che essi si sono rifatti, ad esempio, alla Roma barocca, o all'edilizia popolare e regionale. Quelle fantasie di cui si è detto sopra scoprono dunque la loro trama, fino a richiamare situazioni e forme note e magari usuali.
Ad un più maturo esame, finiamo però con l'avvertire - e questo è il lato più sgradevole della cosa - che questo piccolo comprensorio, invece di contrapporsi alla disorganica avventure delle borgate, si proietta in un tempo ideale in opposizione polemica piuttosto nei confronti della città, che pure è a sole poche centinaia di metri. Vuoti i negozi, nullo il traffico; la gente, donne e bambini e vecchi per lo più, si muovono in una sorta di ozio indifferente, curiosa dell'estraneo che piomba in mezzo a queste casette d'improvviso, direi per sbaglio, ed immediatamente vi si sente a disagio, come capita a chi mette piede nell'intimità altrui non invitato, e cerca un pretesto di andarsene precipitosamente e togliere il disturbo. E ci si rende conto, con una certa sorpresa, che questo è il risultato di una volontà precisa, volontà di ricreare una struttura "comunitaria" a misura d'uomo, nell'ambito della quale si rinnovi una vagheggiata perfezione di rapporti: l'uomo e il suo ambiente che si riconoscono nella si
mpatia e si comprendono, senza più reciprocamente eludersi. Una sottile vena polemica contro la storia liberale della città, respinta e negata in blocco come esperienza totalmente negativa, è qui scoperta ed evidente. Giocano in questa ambiziosa polemica, riconoscibili, suggestioni dell'esperienza di un Wright, dell'urbanistica anglosassone di remote origini utopistiche, dell'architettura scandinava, il tutto amalgamato sopra schemi di chiara impronta sociologica.
Le due direttrici polemiche, quella della verifica storica del linguaggio formale architettonico in contrapposizione all'astratto "furor" dell'avanguardia, e quella, antistorica a sua volta, dell'assimilazione di esperienze lontane, nel comune denominatore del rifiuto della città moderna con tutte le sue angosciose contraddizioni, coabitano a forza in questo piccolo spazio; ed il risultato non può non essere (prescindendo da possibili buone soluzioni tecniche di parziali problemi) negativo; così, almeno, sul piano pedagogico. E' un fatto, che la gente che vive in questi edifici sembra essere respinta ai margini della più vasta vita cittadina, verso la quale, tutto sommato, essa preferisce fuggire. E' pur vero che certi rigidi limiti istituzionali offrivano ai progettisti poche possibilità espressive a risolvere un tema di per sé arduo ed ingrato: il che vale a confermare se non altro quanto sia necessario, ancora una volta, ribadire la preminenza delle ragioni politiche su quelle meramente tecniche: e cioè o
ccorre domandarci quale sia l'incidenza effettiva di strumenti di emergenza, come appunto può essere l'INA-Casa, e quale debba essere il credito da attribuire, nel quadro complesso della situazione urbanistica italiana, ai risultati ottenuti su questo piano; poiché in mancanza di altri elementi in gioco ( e ci sembra che qua e là questo tentativo venga effettuato), sulla scorta di queste limitate e ingenue suggestioni, la faciloneria di chi vorrebbe affermare che in fin dei conti non tutto va male nel mondo dell'urbanistica italiana. Inoltre resta valida l'osservazione che qualche volta, come in questo caso ad esempio, grossi errori di prospettiva possono compromettere anche quel poco di buono che eventualmente si possa, da strumenti solo parzialmente sufficienti, in qualche modo ottenere.