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Carandini Nicolo' - 29 luglio 1958
I PERICOLI DELL'INAZIONE
di Nicolò Carandini

SOMMARIO: Condanna delle tentazioni, affioranti presso alcune forze democratiche italiane, di applaudire l'iniziativa con la quale Nasser ha unilateralmente disdetto gli accordi internazionali relativi alla gestione del canale di Suez. Dopo aver stigmatizzato "il fallimento della politica americana", contrappostasi ad Inghilterra e Francia nella speranza di poter avviare un dialogo con Nasser (caduto poi, invece, nelle braccia dell'URSS), l'a. ricorda che, mentre Inghilterra e Stati Uniti hanno dato avvio ad un vigoroso processo di decolonizzazione, in molti paesi del Medio Oriente si sono installate vere e proprie dittature che in ogni modo attaccano diritti e contratti stretti dall'occidente per l'estrazione e l'utilizzazione del petrolio. Giudicate come "naturali", ovvie, le posizioni "antidemocratiche" dei settori politici italiani di estrema sinistra e di estrema destra, deplora invece le sbandate e le incertezze manifestatesi in ambienti democratici: Nasser asserisce di parlare "in nome del popolo" ma

analoghe affermazioni facevano anche Mussolini, Hitler, Franco e Peron. Di fronte a queste realtà certe pretese italiane di offrire incaute "mediazioni" tra le parti diventano sospette e pericolose.

(IL MONDO, 29 luglio 1958)

Dai giorni della crisi di Suez abbiamo espresso il nostro pensiero su quel primo impunito affronto all'ordine internazionale, sulle tristi previsioni che se ne potevano dedurre di fronte ad una politica occidentale che non ha saputo manifestarsi se non nella abortita impresa franco-inglese, nell'impotenza dell'ONU, nel discredito dell'occidente e nell'assecondamento delle mire sovietiche.

Parve allora che la "dottrina di Eisenower" offrisse un rimedio a tanto smarrimento promettendo soccorsi economici e garanzie militari ai paesi minacciati che ne facessero richiesta, ma essa diventava del tutto inefficiente nel momento in cui Washington e l'ONU davano via libera ad dilagare dei disordini mediorientali consentendo a Nasser di perseguire coi complotti e la violenza una conquista panaraba in funzione antioccidentale e quindi, per forza di cose, filosovietica. Oggi il Senatore Mansfield avverte da Washington che ci troviamo di fronte a "una delle più serie crisi che abbiano minacciato gli S.U.A. ed il mondo libero". Siamo con lui pienamente d'accordo. L'anello degli eventi si è chiuso a Washington ed al Cairo col pieno fallimento della politica americana e col finale asservimento di Nasser alla tutela sovietica. Gli Stati Uniti, dopo avere arenato l'impresa franco-britanica di Suez, hanno visto crollare successivamente tutte le posizioni occidentali in medioriente fino al disfacimento dell'ultim

o baluardo costituito dal Patto di Baghdad, e sono oggi ricondotti, se pure con maggiore cautela, a quell'intervento militare diretto che avevano clamorosamente condannato nei loro migliori alleati. Nasser, dal canto suo, è chiuso esso pure nel cerchio della sua grossolana avventura. Condotto inizialmente per mano dal consiglio e dall'armamento sovietico, si è illuso di poter riacquistare, strada facendo e fortuna aiutando, la propria indipendenza dal grande protettore. Si è fatto prima accogliere a Mosca secondo il festoso trattamento riservato agli autentici satelliti ed ha giocato poi la carta del neutralismo pellegrinando a Dehli ed a Brioni. Ma nel bel mezzo del suo veleggiare i terroristi di Baghdad hanno chiuso la partita obbligandolo a riconsegnarsi a volo fra le braccia sovietiche.

Su queste constatazioni è oggi concorde, dai rispettivi punti di vista, tutta l'ondata di opinione e di commozione che da Mosca a Washington tocca di passaggio questa impotente e divisa Europa.

Ma non è a quanto il passato contiene di irrimediabile che noi rivolgiamo il pensiero in questi giorni di angosciosa aspettazione. Quello che ci interessa non è la spartizione delle ragioni e dei torti nell'apprezzamento degli errori scontati, quello che ci inquieta è la discordia che regna nel campo occidentale, insinuandosi nel vivo dello schieramento democratico italiano, in tema di rimedi a quanto sta avvenendo.

E' evidente e naturale che fra le posizioni antidemocratiche di estrema sinistra interessate allo sbrigliato dilagare della sovversione nasseriana e le posizioni antidemocratiche di estrema destra per opposte ragioni inclini ad una politica di mano forte, esista un divario inconciliabile. E in questi termini estremi è logico che i due antagonisti schieramenti in politica interna coincidano con due opposte visioni e speranze in politica estera. Ma altra e ben più innaturale divisione d'animi si manifesta oggi, malauguratamente, proprio in seno a quella posizione intermedia ove sta in crescente disagio la "democrazia". Appare ogni giorno più evidente che uomini di schietta fede democratica, di rigoroso passato antifascista, di forte avversione ad ogni manifestazione dittatoriale, valutano in modo opposto l'immenso intrigo che il dittatore Nasser ha steso su tutta la ribollente fascia continentale che fronteggia e sfida l'Europa dalle acque turche del Marocco. Noi apparteniamo all'ala democratica che mantiene i

l più severo giudizio sul metodo totalitario-hitleriano adottato in Egitto dal Colonnello Nasser, in Siria dal Colonnello Habdul Hamid Sarraj ed in Irak dal Generale Abdul Karim el Kassem per accendere un sanguinoso fanatismo nazionalistico che nulla ha a che fare con quella affermazione di indipendenza e di progresso che è nel pieno diritto di popoli sofferenti e che si accorda col più moderno corso della politica occidentale. E' innegabile che la ritirata del predominio politico europeo dal medioriente e dal Nordafrica è un fenomeno palese e fondamentale della storia contemporanea. I tristi fatti di Algeria sono la residua e fragile eccezione a quel gigantesco sgombero e non vi è uomo moderno che non auspichi la piena emancipazione delle popolazioni interessate. Questa verità sostanziale va analizzata brevemente per ricondurre ad una possibile conciliazione l'attuale divario irrazionale di valutazioni che divide la stessa sinistra democratica fra nasseriani ed antinasseriani.

Pare non negabile che, se in Nord Africa l'ingombro ormai parziale della presenza politica europea deve essere liquidato nel modo più rapido e generoso, in Medioriente la indipendenza politica è un fatto senza eccezioni. Iran, Irak, Siria, Libano, Giordania, Arabia Saudita, Egitto sono Stati pienamente sovrani nel pieno e violento esercizio della loro politica volontà. Se un attentato alle singole sovranità si verifica oggi, esso viene dall'interno e non dall'esterno del mondo arabo. Ma, si osserva, esiste una dipendenza economica sostanziale che praticamente fa rientrare dalla finestra le influenze europee uscite dalla porta; esiste una aspirazione panaraba che ha tutti i diritti di realizzarsi indisturbata dalle resistenze occidentali. Se vogliamo affinare questa rudimentale presentazione dei fatti, cerchiamo di semplificare. Incominciamo a lasciare da un canto il motivo, per altro verso dominante, della filtrazione sovietica, in un'area da cui dipende non solo la sicurezza strategica di tutto l'occidente

(l'ipotesi di una guerra atomica è fuori questione perché parliamo di un mondo destinato a vivere e non a disintegrarsi nel nulla), ma la possibilità di esistenza per tutto il sistema di trasporti e di industrie su cui si fonda la continuità del lavoro europeo. Vediamo in una più ristretta prospettiva che cosa gli emancipati arabi possono rimproverare alle nazioni occidentali. Tutti i paesi arabi traggono essenziale alimento dai commerci con l'Europa e dagli investimenti petroliferi che di quel commercio sono la essenziale ragione. A parte i piccoli sheikkati del Golfo Persico il cui reddito nazionale è unicamente costituito dai profitti sui petroli, l'Arabia Saudita trae più della metà e l'Irak un terzo dei propri redditi dall'industria petrolifera, così come la Persia e la Siria hanno in quel settore cospicue e insostituibili fonti di entrata. In seguito alle iniziative occidentali i redditi locali derivanti dal petrolio sono più che raddoppiati dal 1952 al 1955. E se, come è vero, le condizioni di sfrutta

mento delle risorse petrolifere locali risentono di una sperequata ripartizione di utili o del peso di concessioni in esclusiva a compagnie straniere, niente vieta a governi sovrani di trattare pacificamente una revisione. Revisioni nelle percentuali delle "royalties" si sono verificate. Pochi giorni prima dei massacri politici irakeni un nuovo accordo era stato avviato con la "Irak Petroleum Co" circa il diritto dell'Irak a sfruttare tutte le aree petrolifere non ancora utilizzate. Con tutte le dovute correzioni, la presenza di grandi imprese occidentali nella industria petrolifera rappresenta in mediorente quella corrente di investimenti esteri che ogni paese auspica e che per i paesi sottosviluppati rappresenta la condizione essenziale di ogni possibile sollevamento economico. Quello contro cui l'occidente resiste, qui sta il nocciolo vero della questione, è il metodo violento, unilaterale, autoritario con cui queste legittime richieste di miglior disciplina degli investimenti esteri vengono imposte e str

appate a fini che non sono chiaramente economici ma torbidamente politici. Fini di conquista e di supremazia di un regime in tutto antidemocratico e quindi inadatto a qualsiasi utile contatto col mondo della libertà.

Nessuno nega che l'Egitto avesse il diritto di chiedere e ottenere la revisione delle condizioni che gli erano fatte nel Canale di Suez e di rivendicarvi un maggior riconoscimento della sua sovranità. Ma in che modo ciò è stato fatto? Anche la Turchia ha voluto disimpegnarsi dalle limitazioni di sovranità sugli Stretti dei Dardanelli stabilite nel 1923 dal Trattato di Losanna. Ma lo ha fatto per via diplomatica e democratica, lo ha fatto in modo da riscuotere la simpatia di tutto il mondo. Il risultato è stato la Conferenza di Montreux che nel 1936 ha ristabilito la sovranità militare turca sugli Stretti ed ha portato i richiesti temperamenti alla indiscriminata libertà di transito in tempo di pace e di guerra. Quello contro cui si è protestato ai tempi della crisi di Suez è stato il modo unilaterale ed autocratico con cui l'Egitto ha spezzato un accordo internazionale che dal 1888 garantiva l'utilizzazione universale di una via d'acqua non donata dalla natura ma creata da una iniziativa e da un finanziament

o internazionale.

Ora, che gruppi di giovani ufficiali adoratori del metodo di Nasser e dediti ai più atroci sistemi del pronunciamento militare disconoscano l'influenza decisiva che l'occidente, sia pure nel proprio interesse, ha esercitato nel sollevamento economico del medioriente, che il fatto della raggiunta emancipazione politica sia da essi negato, è cosa comprensibile in un ambiente avvelenato dal fanatismo. Ma che analoghi temi commuovano il nostro campo democratico provocando nuove divisioni, nuove ragioni di dubbio e quindi di rassegnazione a fatti compiuti che sono la negazione stessa di ogni democratica garanzia, questo è l'aspetto veramente inquietante del dramma che pende sulla vita e sulla pace del mondo. Da mesi, da anni ci sentiamo ripetere che Nasser rappresenta il progresso perché ha rovesciato il corrotto regime di Faruk, che Nasser parla in nome del popolo e per la libertà e la giustizia sociale. Ma noi sappiamo che le sole forze che possono por fine e succedere per il meglio ad un regime di corruzione s

ono le forze della vera libertà manifestate nel rispetto della onestà democratica, ma noi sappiamo che anche Hitler e Mussolini e Franco e Peron e Salazar e tutta la schiera inestinguibile dei dittatori che hanno infestato il mondo si sono fatti banditori del colloquio col popolo e del riscatto sociale. E non dovremo essere quindi noi antifascisti, in qualunque partito democratico militanti, ad accreditare nuovi falsi profeti, a prendere per buono il progressismo autocratico dei Colonnelli e delle giunte militari. Tutta la fede e la coesione morale dell'accidente sono messe in gioco quando nomini liberi accusano di imperialismo gli Stati Uniti e l'Inghilterra, i due paesi che hanno l'uno provocato e l'altro attuato con ineguagliato coraggio il crollo delle posizioni colonialistiche sulla faccia della terra. Se si pone, come si deve, l'antimperialismo in termini di affermazione democratica, noi, almeno noi, dobbiamo ricordare che gli Stati Uniti e l'Inghilterra sono la democrazia stessa, sono quanto di meglio

la democrazia ha saputo dare nella vita moderna. Di fronte a quei modelli impallidisce la nostra giovane e svagata democrazia ancora tutta invescata nel fascino delle missioni speciali e delle mediazioni. Le quali, quando non riposano su una vera autorità e su una vera forza, rappresentano il più meschino pretesto per una espansione di influenza, essa si, di occulto ambizioso sapore. Democrazia interna ed internazionale non significano licenza e favoreggiamento per i focolai di disordine e di violenza, ma attiva partecipazione alla difesa di una legge superiore ovunque essa sia minacciata.

In questa visione noi facciamo credito agli Stati Uniti e all'Inghilterra, al loro intervento limitato nei fini e circoscritto, secondo l'articolo 51 della Carta, alla responsabilità delle Nazioni Unite. Non disconosciamo i rischi dell'azione ma più paventiamo quelli dell'inazione.

Ho creduto utile scrivere queste osservazioni di massima per dare avvio ad un chiarimento, in una materia di tanto momento fra uomini appartenenti a quella sinistra democratica a cui appartengo. Una sinistra con la testa sul collo ed i piedi in terra.

 
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