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Piccardi Leopoldo - 19 agosto 1958
RAGIONI DI UN DISSENSO
di Leopoldo Piccardi

Con questo articolo di Leopoldo Piccardi continua il dibattito sulla politica del Medio Oriente iniziato da Nicolò Carandini (n.30) e da Ugo La Malfa (n.31)

SOMMARIO: L'avv. Piccardi interviene in un dibattito (sulla questione del conflitto tra Israele e il Libano) che vede da tempo il gruppo del "Mondo" e il partito radicale diviso su fronti contrapposti. "La posizione di Carandini e di quanti pensano come lui è chiara", dice Piccardi. Carandini e gli altri denunciano l'arretratezza culturale e politica di paesi che dimostrano carenza di "sviluppo democratico e di progresso civile". Chi invece dissente, lo fa perché convinto che le azioni di forza hanno un solo risultato, "una perdita per il mondo occidentale". Una politica "costantemente al margine di una fatale rottura" porta con sé "tremendi pericoli". Il problema non è nell'uso o meno della forza, quanto nella "capacità espansiva delle due civiltà che si contendono il dominio del mondo" (e certo, fin quì, i russi si sono dimostrati più dinamici). I paesi occidentali invece, restano legati "a posizioni, a gruppi sociali ormai superati e decaduti". Tale politica consentiva ai paesi colonialisti di sfruttare i

l paese con pochi rischi e senza avviare alcuno sviluppo. "Tutto questo è finito", emergono nuove classi dirigenti che debbono appoggiarsi o al nazionalismo o al comunismo. Se l'occidente non vuole perdere la partita, deve saper gareggiare col comunismo nella "funzione di guida"; cosa che sembra oggi non accada, per il "vuoto di idee dei dirigenti americani".

(IL MONDO, 19 Agosto 1958)

L'invito a un dibattito sul problema del Medio Oriente che viene da Nicolò Carandini non può essere lasciato cadere. E tanto più è doverosa una risposta da parte di chi recisamente dissente dalle opinioni che egli ha espresso in proposito, nonostante il comune sentire su altri, fondamentali aspetti della vita politica.

Come ricorda Carandini (Il pericolo dell'inazione, "Il Mondo", 29 luglio 1958), la questione del Libano ha riaperto una discussione che già si era accesa in occasione della spedizione di Suez: e ora come allora il dissenso non è soltanto tra persone e gruppi che obbediscono a diverse ispirazioni, ma anche in seno a quel settore che, per la sua fedeltà agli ideali democratici e per la sua avversione a qualsiasi dittatura, suole presentarsi unito nei cimenti della lotta politica. Perchè gli uni appaiono sempre pronti a prestare un'incondizionata solidarietà alle azioni intraprese dalle potenze occidentali - si tratti di Suez o del Libano e della Giordania - mentre gli altri tendono ad assumere, di fronte a queste iniziative, un atteggiamento critico e riservato, se non di aperta condanna? Perchè i primi non esitano a giudicare severamente i gesti ostili compiuti dall'uno o dall'altro governo arabo contro l'occidente e i moti sanguinosi che sconvolgono di tanto in tanto uno dei paesi del Medio Oriente, me

ntre i secondi appaiono sempre disposti, se non all'approvazione, a una pacata parola di giustificazione?

In questa divisione degli animi, l'amico Carandini si trova in un campo; chi scrive queste righe sta nel campo opposto. Ecco l'interesse del discorso.

La posizione di Carandini e di quanti pensano come lui è chiara. Gli atti di ostilità compiuti da governi contro le potenze occidentali e le brutali sommosse che, nei paesi arabi, sostituiscono nel potere una fazione a un'altra, sono manifestazioni delle tendenze guerresche e risorse proprie di popoli ancora arretrati sulla via della civiltà: tendenze aggravate e inasprite dalla predicazione, fatta da piccoli gruppi di sobillatori, di dottrine di violenza apprese alla scuola, ora del comunismo, ora del fascismo o del nazismo. Si tratta dunque di un movimento in contrasto con ogni ideale di sviluppo democratico e di progresso civile, per il quale chiunque persegua questi ideali può manifestare soltanto ripugnanza e avversione. Quando poi, nel quadro del grande conflitto che oggi divide l'umanità, l'inquietudine del mondo arabo minaccia posizioni vitali per la difesa dell'occidente o quando - come nel suo caso del canale di Suez o dei petroli medio orientali - compromette rilevanti interessi dei paesi eur

opei e degli Stati Uniti, una reazione si rende inevitabile. In questo contrasto tra popoli arretrati e pervertiti da false dottrine e i paesi che rappresentano le più avanzate esperienze della democrazia e della civiltà moderna, chi ha caro l'ideale della libertà e il patrimonio culturale di cui vive il mondo occidentale non può non sapere da che parte debba schierarsi.

Di fronte a questa impostazione del problema, le ragioni del dissenso vengono piuttosto dalle premesse che dalle conclusioni. Approvare o non approvare la spedizione anglo-francese di Suez, essere o non essere favorevoli agli sbarchi nel Libano e in Giordania, sono divergenze su punti non essenziali. Per parte mia, ho giudicato l'azione degli inglesi e dei francesi contro l'Egitto una follia; e penso che l'invio di corpi di spedizione nel Libano e in Siria possa dare agli Stati Uniti e all'Inghilterra il solo frutto di una ulteriore perdita di prestigio e di una sempre maggiore impopolarità nel mondo arabo. Ma anche se ci trovassimo d'accordo nel ritenere che l'azione militare delle potenze occidentali, nell'uno e nell'altro caso, era inevitabile, la ragione profonda del dissenso non verrebbe meno. L'atteggiamento critico di una parte dell'opinione pubblica democratica verso le potenze occidentali è determinato, non tanto da queste valutazioni, in fin dei conti episodiche, ma dalla convinzione che negli

errori della loro politica o nella mancanza di una loro politica si debba ravvisare appunto la causa di quella situazione che periodicamente ci pone di fronte a problemi per sè stessi insolubili, quali l'opportunità o inopportunità di un intervento militare. Diciamo problemi insolubili perchè la loro soluzione può limitare la perdita o il pericolo, ma non rafforzare le posizioni dell'occidente e creare condizioni più favorevoli per lo sviluppo della sua civiltà.

Ciascuna di queste crisi ha un solo sicuro risultato: una perdita per il mondo occidentale. La crisi di Suez è costata il controllo del canale. Quella odierna, non sappiamo ancora quanto costerà: ma un costo lo avrà certamente. Mi dirà Carandini che queste sono appunto le conseguenze delle divisioni e delle esitazioni dell'Occidente; che un'azione risoluta e solidale avrebbe dato ben altri risultati. Ma non dimentichiamo che questo della guerra fredda è un tragico gioco: siamo d'accordo che chi è costretto a parteciparvi non può lasciare all'avversario tutti i vantaggi di un'azione spregiudicata e irresponsabile, ma non potremmo mai approvare una politica condotta costantemente al margine di una fatale rottura. E' una politica facile, che richiede scarsa immaginazione, ma che porta con sè tremendi pericoli e pesanti responsabilità: il governo di Eisenhower e di Dulles ne ha già troppo abusato. La sola politica veramente creativa è oggi, come sempre, quella che sa ottenere i maggiori risultati con il min

ore rischio. E da questo punto di vista è difficile negare che i russi si sono dimostrati più dinamici e inventivi degli occidentali.

Ma se anche una più ampia azione militare fosse stata possibile senza irreparabili conseguenze, essa non sarebbe stata risolutiva. Il problema non è di forza, ma di capacità espansiva delle due civiltà che si contendono il dominio del mondo. E qui veniamo veramente al nocciolo del problema.

Quali torti hanno le potenze occidentali verso i paesi arabi, chiede Carandini? Non sono forse esse che, con i loro commerci e li loro industrie, portano a quei paesi la maggior parte dei loro redditi? Il torto dell'Occidente verso i paesi arretrati, rispondiamo, è quello di rimanere legato a sistemi, a posizioni, a gruppi sociali ormai superati e decaduti.

Le colonie sono state per l'Europa soprattutto un mercato di approvvigionamenti di materie prime; successivamente e accessoriamente un mercato di sbocco di prodotti. Perchè i paesi coloniali potessero adempire nel miglior modo a questa loro funzione, occorreva non mutare le condizioni del loro equilibrio economico: non elevare il livello di vita delle masse, perchè ciò avrebbe reso più costose le materie prime; non favorire lo sviluppo delle industrie perchè queste avrebbero fatto concorrenza alle industrie metropolitane. La politica delle potenze coloniali non poteva quindi non essere conservatrice, non poteva non tendere a mantenere e rafforzare i regimi dispotici o feudali dai quali i paesi coloniali erano stati nei secoli governati. E l'interesse economico coincideva con l'interesse politico e militare. In paesi retti da governi assoluti o dominati da ristrette oligarchie, è meno costoso comprare un sovrano o la cricca che detiene il potere, piuttosto che impegnarsi in un conflitto armato o sostener

e lo sforzo di una pesante occupazione militare. Naturalmente, questo è uno schema, generico e astratto come tutti gli schemi: ma è abbastanza indicativo di una linea di sviluppo che trova nell'esperienza storica una conferma.

Tutto questo oggi è finito. Le masse si sono messe in moto in tutto il mondo, non soltanto nei paesi più avanzati, ma anche in quelli che sono stati o sono tuttora considerati coloniali. Cinesi e vietnamiti, indonesiani, arabi e negri hanno imparato a maneggiare una arma moderna e una macchina, sono sensibili all'appello della radio e della televisione, sono venuti a contatto con popoli che godono di un livello di via superiore, e, in questo contatto, hanno perduto la loro atavica rassegnazione a una vita primordiale: consci della loro forza, sono decisi a battersi per il loro diritto a vivere come uomini. Questo movimento, nel quale naturalmente giocano i conflitti tra le grandi potenze, ma che sarebbe puerili ridurre a un'azione di sobillatori interessanti, ha incrinato i vecchi regimi dispotici e feudali, spesso li ha fatti crollare, ha fatto comparire una nuova classe politica. Questa si differenzia da quella che l'ha preceduta perchè, pur essendo una minoranza, comprende ceti più vasti di quelli ch

e prima partecipavano ai benefici del potere, ma soprattutto perchè ha bisogno delle masse popolari. Di qui la necessità dei nuovi capi di appoggiarsi su una tradizione autoctona di civiltà e di cultura, e, di conseguenza, il loro nazionalismo. Di qui la necessità di dire alle masse una parola di speranza: e non è da stupire che spesso la trovino nel comunismo. Quando Nasser, in un momento di sincerità, si rivolse agli occidentali chiedendo come mai si rifiutassero di capire che in paesi come l'Egitto o si governa con il nazionalismo, o si governa con il comunismo, egli diceva qualcosa che merita di essere meditato.

Di fronte a questa situazione, che cosa può fare l'Occidente? Innanzi tutto, smetterla di giocar sul cavallo perdente, smetterla di dare il proprio appoggio a gruppi, a uomini, a sistemi ormai definitivamente superati. Se gli occidentali continueranno ad apparire i difensori del passato, l'abisso che già si sta scavando tra l'occidente e i popoli in mezzo ai quali esso svolge la propria opera colonizzatrice diventerà incolmabile: e nel conflitto che oggi divide l'umanità, quei popoli saranno sempre più attirati nell'orbita della Russia sovietica, che ha saputo dimostrare maggiore comprensione verso le loro aspirazioni. Ciò che significa, per le potenze occidentali, non soltanto perdere la guerra fredda, ma perdere la partita, perchè a che cosa valgono le armi quando si è stati sconfitti nella pacifica competizione tra due civiltà?

Ma se l'occidente non vuole perdere la partita, non basta che esso si astenga da una sterile difesa del passato: occorre che esso sappia gareggiare efficacemente con il comunismo nell'esercito di una funzione di guida del movimento in cui è oggi impegnato tutto il mondo già coloniale. Chi crede ancora nella civiltà europea non può rassegnarsi a pensare che essa non abbia nulla da dire a popoli che si stanno risvegliando da un sonno secolare. Sappiamo che gli ideali di libertà e di democrazia trovano una strada difficile per penetrare fra popolazioni ancora arretrati. Il dollaro può essere più rivoluzionario dei miti politici, se è usato, non per comprare capi o gruppi dominanti, ma per alterare una situazione di equilibrio economico stagnante, per risvegliare in popolazioni abbrutite aspirazioni a un più elevato tenore di vita, per scardinare così sistemi di governo superati.

A queste ispirazioni era parso che obbedisse la "dottrina di Eisenhower". Ma presto si è capito che essa non tendeva tanto a colmare il "vuoto di potere" del Medio Oriente, quanto a coprire il vuoto di idee dei dirigenti americani.

Cose amare, ma che vanno dette, senza che ciò significhi prender parte per Nasser, contro l'Occidente, L'Italia, se si guarda alla sua forza militare, ha ben scarso titolo per fare sentire la sua voce nel dibattito e il dovere di collaborare alla formazione dell'opinione pubblica di quel mondo occidentale di cui fa parte e di cui condivide le sorti: è il solo modo di esserne membri attivi e consapevoli.

 
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