di Guido CalogeroSOMMARIO: Un dibattito sul Medio Oriente deve accettare il presupposto che, complessivamente, le ragioni del mondo libero siano più valide che le ragioni dell'URSS. Altrimenti si fa solo una disputa senza costrutto, astratta. Anzi, occorre anche avere chiaro che neanche i paesi dell'Europa possono oggi dare "in ogni campo della vita civica, politica, economica e sociale" un prodotto migliore di quello di cui sono capaci gli U.S.A. Non esiste oggi, né può esistere una "terza forza" che possa "mediare", rispetto ai problemi del Medio Oriente. Con queste premesse, ci si può però chiedere se non vi siano aspetti dell'iniziativa U.S.A. che possano essere criticati. Ma se qualcuno chiedesse, ad es., agli U.S.A. di arretrare le proprie posizioni da quelle regioni, dovrebbe assumersi la responsabilità di rafforzare di molto i nostri impegni di difesa e militari. Troppo spesso chiediamo molto ma siamo disposti a pagare molto poco di tasca nostra. In tal caso, è meglio che stiamo zitti. E poi, con quale competenza dar
emmo i nostri consigli? Piccardi lamenta "il vuoto d'idee dei dirigenti americani", ma come può affermare certe cose? In realtà, in Italia, siamo assai male informati delle vicende estere. La stessa conoscenza della lingua araba è da noi scarsissima... In definitiva, sarebbe pericoloso, e sopratutto per beghe di politica interna, "fare concessioni a tendenze politiche che desiderassero una minore presenza americana..."
(IL MONDO, 26 agosto 1958)
Guido Calogero interviene con questo articolo nel dibattito aperto da Nicolò Carandini sul n.30 del Mondo, al quale hanno finora partecipato Ugo La Malfa (n.32) e Leopoldo Piccardi (n.33)
Non sono un esperto di politica estera, e tanto meno di politica del cosiddetto Medio Oriente (che poi è più esattamente il Vicino Oriente). Ma credo che ci siano certe considerazioni, che possiamo e dobbiamo fare anche senza essere tecnici dell'argomento.
La prima è quella che non possiamo mai discutere di simili problemi particolari di politica estera, se non in un ambito in cui sia chiaro il quadro generale a cui ci riferiamo, e le finalità ultime che consideriamo auspicabili. Se infatti, poniamo, un comunista e un anticomunista discutono insieme circa il modo migliore di trattare con Nasser, è molto probabile che la loro discussione riesca fittizia e inconcludente, perchè essi crederanno di parlare della stessa cosa, ma in realtà presupporranno l'uno il suo desiderio che la Russia estenda il suo potere nel mondo, e l'altro il suo desiderio che non lo estenda. In altri termini, è inutile discutere accademicamente se i moti che si manifestano nei paesi del Medio Oriente siano nobili anche se primitive aspirazioni all'indipendenza o manovre di avventurieri che sobillano tali aspirazioni per i propri fini, qualora l'uno degli argomentanti consideri battaglia per la libertà ogni battaglia per l'Unione Sovietica e prezzolata avventura ogni battaglia opposta, e
l'altro argomentante parta dal presupposto contrario. Perchè in tal caso è delle ragioni per cui si sceglie l'uno o l'altro di tali presupposti che occorre discutere, prima che di ogni altra cosa.
Mi par quindi opportuno stabilire, anzitutto, che quanto qui dico vale nell'ambito di quelle persone le quali, avendo abbastanza veduto, coi propri occhi, come vanno le cose tanto negli Stati Uniti d'America quanto al di là della cortina di ferro, sono fermamente convinte che, tutto sommato, sia molto meglio che il resto del mondo diventi simile agli Stati Uniti, a paragone dell'ipotesi che invece diventi simile all'Unione Sovietica. Questo non esclude che, nel particolare, non possa esserci anche qualche singolo aspetto della vita nell'Unione Sovietica che sia meno peggiore di qualche singolo corrispondente aspetto della vita negli Stati Uniti. Ma questo vuol dire che, nell'insieme e alla lunga, si ritiene che i modi di civiltà e di organizzazione politica sviluppantisi negli Stati Uniti sono adatti a fornire agli uomini una maggior quota di libertà individuale e di giustizia sociale e di benessere generale, di quella che possa esser fornita dai sistemi civili e organizzativi dell'Unione Sovietica. E a chi
non è d'accordo, quelli che condividono questo parere non possono se non consigliare un congruo periodo di soggiorno tanto negli Stati Uniti, o in altro paese anglosassone, quanto nell'Unione Sovietica, o in altro paese al di là della cortina di ferro. Senza di che, è assai difficile che qualunque discussione con loro possa riuscire concludente, perchè essi continueranno sempre a collocare i loro sogni in quello che non conoscono, sia immaginandoselo come paradiso, sia immaginandoselo come inferno.
Ma per ciò stesso è anche difficile discutere in modo concludente con coloro che, possedendo bastante fiuto per comprendere la scarsa desiderabilità civile del sistema di vita sovietico, ma non avendo mai avuto diretta esperienza di vita in un paese anglosassone, e magari giudicando gli Stati Uniti d'America soltanto attraverso qualche particolare sciocchezza compiuta da qualche suo cittadino o uomo politico o rappresentante all'estero, s'immaginano che l'Europa, possibilmente unita, sarebbe capace di dire, trai due grossi e grevi giganti in conflitto, una sua parola di superiore mediazione. Io sono un federalista europeo convinto, nel senso che ritengo ridicole le superstiti ambizioni di prestigio e di potenza delle nazioncine del Continente, e grette le ragioni che ancora si oppongono, nell'animo di tanti rappresentanti delle classi dirigenti di tali nazioncine, alla realizzazione di tutti quei vantaggi che, in termini di prosperità e di miglioramento del costume civile, sarebbero prodotti dal loro unirsi
in una federazione analoga a quella nordamericana. Ma ritengo altrettanto ridicolo il credere che la media della civiltà delle nazioni giacenti a sud della Manica e del Mare del Nord, e per la maggior parte oscillanti, nel passato e purtroppo anche nel presente, fra regimi di libertà e regimi autoritari, possa dare, in termini di serietà organizzativa in ogni campo della vita civica, politica, economica e sociale, un prodotto migliore di quello della media degli Stati Uniti nella federazione americana.
Non dimentichiamo che la ragione per cui l'Inghilterra ha sempre reluttato di fronte all'idea di entrare in una federazione europea non è già stato il pretesto dei legami col Commonwealth (che da un lato esiste ogni giorno di meno e dall'altro avrebbe potuto mantener lo stesso quei legami), bensì il profondo e non ingiustificato e naturalmente non confessato timore di troppo abbassare la media della propria civiltà politica interna, mettendola insieme con la media delle civiltà politiche dell'Europa continentale. Gli Inglesi non hanno molta simpatia per i loro cugini d'oltr'Atlantico: ma domandate loro se, messi di fronte al dilemma di federarsi o con l'Europa o con gli Stati Uniti d'America, avrebbero dubbi nella scelta. Questo non significa, ripeto, che non ci si debba continuare a battere per la federazione europea con tutta l'anima, e anzi reagire a quello sconforto da innamorati che è lo stato d'animo di chi, deluso di quel pochissimo di unità europea che si è raggiunto nel presente, non spera più nell
'Europa del futuro. Anche nei riguardi dell'Africa, è verosimile che un'Europa unita farebbe meno errori di quanti probabilmente abbia fatto la Francia, e di quanti certamente fece l'Italia al tempo delle sue avventure etiopiche.
Ma questo implica che è ingenuo concepire una politica dell'Occidente rappresentato dall'Europa (sia pure incluso in essa, in questo caso, un certo aspetto della Gran Bretagna) come diversa e superiore non solo rispetto a quella dell'Unione Sovietica, ma anche rispetto a quella dell'Occidente rappresentato dall'America. Non esiste in questo senso (lo dicevo perfino ai vecchi tempi del Partito d'Azione) una "terza forza" in sede di politica estera, anche se possiamo benissimo parlare di "terza via" per indicare ogni politica interna che tenga insieme alla libertà politica e alla eguaglianza economica, e di "terza forza" per indicare chiunque possa sostenerla contro il liberalismo conservatore e contro il socialismo autoritario. L'unico augurio che possa farsi in questo campo è quindi non già quello di "mediare", con un'Europa unita, fra la Russia e l'America nella sua azione rispetto alla Russia, bensì che una Europa unita sviluppi il più possibile la sua civiltà politica e sociale nel senso di quella civiltà
anglosassone, di cui gli Stati Uniti sono oggi, se non la formulazione più perfetta, certo il baluardo più efficiente, anzi indispensabile.
Avendo così delimitato l'ambito dei partecipanti alla discussione, ci si può allora domandare: - Nell'azione occidentale di fronteggiamento della Russia nel Medio Oriente, condotta sotto la prevalente direzione degli Stati Uniti, ci sono degli aspetti per cui si debbano formulare delle critiche, o per cui si debba consentire ad altrui critiche, nei riguardi di questa direzione?
E qui si può senza dubbio prospettare p. es. il problema lucidamente enunciato dall'on. La Malfa, quando ha osservato come basti la diretta occupazione sovietica, o l'esercizio autoritario del potere tenuto dai partiti comunisti con l'appoggio sovietico, per distruggere a poco a poco ogni ulteriore attrattiva dell'ideale comunista in tali ambienti: mentre il prestigio di quella ideologia continua invece a diffondersi là dove la Russia non è presente o coi suoi eserciti o coi suoi regimi comunisti, e quali detentori di un potere o di una influenza esterna appaiono invece, più o meno chiaramente, gli Occidentali. Questa è, senza dubbio, un'osservazione interessante. Ma che politica dovrebbe derivarne? (sia che la chiamiamo modificazione della presente politica occidentale, sia che la chiamiamo "una politica" in luogo della denunciata "assenza di una politica").
Se si tratta di qualche modificazione tattica della presente politica, nel senso, poniamo, di impegnarsi di più negli aiuti diretti al miglioramento del tenore di vita dei paesi in questione, qualcosa è venuta fuori già con le serie proposte di Eisenhower durante il dibattito alle Nazioni Unite. Ma se si trattasse, viceversa, di un cambiamento piuttosto radicale di tattica o di strategia, simboleggiabile p. es. nello slogan "Via le mani degli Occidentali dal libero Oriente mussulmano!", e diretta a far sì che questi bravi Orientali, una volta liberati dagli Occidentali e quindi sottomessi a dittature più o meno sovietizzanti, imparassero sulla propria pelle a non entusiasmarsi più per quegli ideali, allora io mi domando se chi esorta a dare simili consigli si rende anche conto del fatto che proporre agli Occidentali un simile arretramento della linea di influenza esige anche un impegno a contribuire, sulla nuova linea arretrata, molto di più della comune difesa.
Riteniamo, o no, (per tutto quello che abbiamo detto prima) che l'Occidente debba contrastare ogni ulteriore aumento dell'influenza sovietica? Riteniamo, o no, che è poco serio e dignitoso (qui davvero, se mai, dovremmo parlare di dignità nazionale!) costringere continuamente l'America a venire in Europa a liberarci, non solo con dollari ma con vite di suoi cittadini, da quei fascismi e nazismi che prima ci mettiamo addosso e poi siamo incapaci di scrollarci da soli di dosso e, adesso, pretendere che essa sola, o quasi, si sobbarchi alla difesa di quei "valori di civiltà dell'Occidente", che a noi stessi stanno tanto a cuore? Ma se siamo d'accordo su questo, allora dobbiamo ben comprendere che qualunque nostra ipotetica esortazione agli Americani perché si ritirino dal Levante dovrebbe accompagnarsi, non dico alla cessazione di ogni protesta per l'eventuale installazione in Italia di rampe per missili, ma addirittura alla richiesta che ne fossero installate il più possibile. Oppure alla proposta, al Parlamen
to, di accrescere sia la durata del servizio militare sia il bilancio del Ministero della Difesa, in modo da poter fornire alla NATO un maggior numero di divisioni.
Viceversa, noi spesso vogliamo la botte piena e la moglie ubriaca, come per esempio essere neutrali come gli Svizzeri ma non fare il servizio militare tutte le estati come lo fanno gli Svizzeri, essere neutrali come gli Svedesi ma non pagarsi un robusto esercito come se lo pagano gli Svedesi, essere i campioni della libertà ma poi lasciare agli altri la principale fatica della difesa quando c'è pericolo sia di diventare schiavi sia di ricevere bombe in testa, offrire soldi per lo sviluppo economico del Levante mediterraneo ma poi non pagare tasse nemmeno per lo sviluppo economico del Mezzogiorno nostrano, o per un'adeguata attuazione del piano decennale per la scuola, ecc. ecc. In tutti questi casi, la cosa più semplice da fare è scegliere quel che si vuol fare, e non pretendere di fare insieme cose incompatibili l'una con l'altra. Se, come parrebbe più ragionevole, i limitati mezzi a nostra disposizione per rendere un po' meno indegne della "civiltà della persona umana" le condizioni di casa nostra non ci p
ermettono di fare più di quel poco che facciamo per contribuire alla politica di difesa dell'Occidente, abbiamo almeno il buon gusto di stare zitti, e di non pretendere di far bella figura dando consigli, a chi ci difende, circa il modo in cui deve difenderci.
Perché, poi, con quale mai competenza daremmo questi consigli? L'amico Piccardi lamenta "il vuoto di idee dei dirigenti americani". Sta bene che egli è un uomo intelligente, e in Italia potrebbe essere un ottimo ministro, e io sono un suo sincero ammiratore: ma è proprio sicuro di avere più idee, in fatto di politica estera, di tutti i dirigenti americani presi insieme? E di essere informato in modo più esatto del modo in cui realmente stanno le cose? Di che servizi di informazione dispone? Ha un suo personale sistema di spionaggio? E' assistito da una privata équipe di pubblicisti e di studiosi dei problemi della politica estera, interna, economica e sociale degli Stati del Medio Oriente, pari a quella di cui i cittadini e quindi anche i dirigenti americani dispongono, mentre gli Italiani poco ne dispongono, tanto è vero che è rarissimo il caso che un qualsiasi libro italiano di politica estera sia considerato di utile lettura fuori del nostro paese e quindi tradotto in una lingua straniera?
Ma ingiustamente io mi sto rivolgendo a Piccardi, perché questo è un difetto generale di tutti noi. Pigliate i migliori giornali italiani, e confrontateli col Times, col Manchester Guardian, con l'Observer, col New York Times, con la Neue Zürcher Zeitung, col Monde, o con qualunque altro giornale americano o europeo di simile livello. Vi accorgerete subito che, in confronto a noi, essi si occupano assai più delle cose del resto del mondo a paragone di quanto si occupino delle cose di casa loro. Noi, si capisce, siamo il centro dell'Universo, a Roma c'è il Papa che non c'è in nessun altro posto, il Campidoglio è l'ombelico del mondo in quanto tutte le strade cominciano a contare i chilometri da lì; e quindi è naturale che le ultime chiacchiere circa lo sviluppo di una nostra crisi ministeriale debbano occupare colonne e colonne dei giornali in modo da non lasciare più spazio per sapere, che so io, che cosa sta realmente succedendo nel Ghana o nella Liberia o nel Sud Africa. Ma tutto si paga, a questo mondo: e
per la gloria di essere Romani e Italiani noi dobbiamo ben rassegnarci a essere male informati di tutte le cose che succedono nel resto del globo.
Vero è che stiamo dentro il Mediterraneo, e quindi siamo più vicini agli Arabi, coi quali possiamo meglio intenderci...Ma in che lingua? In italiano, che essi non sanno? Noi abbiamo, certo, alcuni insigni arabisti nelle nostre università, a cominciare da Giorgio Levi della Vida e da Francesco Gabrieli: ma quanti sono i nostri diplomatici, i nostri funzionari, i nostri generali, i nostri informatori segreti, che invece di giocare a carte imparano a parlare l'arabo? L'unica cosa che possiamo fare, è andare a parlar con gli Arabi in inglese, la quale è l'unica lingua che ormai funzioni internazionalmente in quei posti. Ma allora è meglio lasciarla parlare a chi la parla meno scorrettamente di noi, in quanto la parla sin da piccolo, non solo a casa propria ma anche nel Medio Oriente!
Infine, mi permetterei di ricordare a chiunque si occupa di questi problemi di politica estera che è del tutto naturale tener presenti, nelle proposte di solo soluzione, anche i problemi della politica interna, ma che è insieme doveroso rendersi chiaramente conto della percentuale d'importanza che, in questi casi di considerazione combinata, si attribuisce rispettivamente agli uni e agli altri.
Un federalista conseguente, per esempio, potrà considerare talmente soverchiante l'importanza da attribuire allo sforzo per l'unificazione europea, da rifiutare ogni interessamento per le elezioni politiche della propria nazione, e magari da boicottarle come manifestazione di un nazionalismo costituzionale ormai condannato. Niente di male, purché valuti bene quello che fa. Inversamente, è comprensibile che forze politiche, le quali si trovino in posizioni prossime o convergenti per quanto riguarda il loro atteggiamento di fronte a certi importanti problemi di politica interna, possano preoccuparsi di attenuare o palliare le loro divergenze in fatto di politica estera, per non pregiudicare la possibile confluenza di azione su quel primo piano. Ma anche qui è necessario che si veda e si dica ciò che si vuole.
Pericoloso, ad esempio, sarebbe il fare perciò concessioni a tendenze politiche che desiderassero una minore presenza americana in una qualunque parte del mondo, quando non fosse insieme chiarito che ciò dovrebbe sempre avere una giustificazione soltanto strumentale e non mai finale, e che quindi, una volta arretrata la linea di difesa della civiltà occidentale, il nostro impegno nel difenderla dovrebbe perciò diventare automaticamente maggiore, così come ci si dovette impegnare di più sul Piave di quanto ci si fosse impegnati sull'Isonzo. Richieste di questo tipo sono un test necessario, se si vuol chiarire realmente il significato finale di una politica, e non lasciar sussistere equivoci pericolosi, che prima o poi verrebbero come nodi al pettine. S'intende che, a questo modo, l'essere chiari in fatto di politica estera può procrastinare o rendere più difficili le necessarie convergenze in tema di politica interna. Ma, più il tempo passa più, credo, ci stiamo accorgendo tutti che di fronte ai grandi proble
mi della politica estera, e alle prospettive liete o tragiche di avvenire che l'una o l'altra loro soluzione comporterà, le nostre battaglie di politica interna, per importanti che siano, restano comunque di valore secondario. Il che non toglie che l'occuparsi seriamente di esse non sia cosa più consigliabile, per noi, che l'atteggiarsi a consiglieri dei Grandi nella direzione della politica mondiale.