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Rossi Ernesto - 6 gennaio 1959
PER L'INDIPENDENZA DELLA R.A.I. - L'ALTA VIGILANZA
"La radio - disse Pietro Calamandrei nel 1954 - è quasi una continuazione nell'etere dell'istituto parlamentare. Nelle questioni politiche, attraverso la radio, ogni partito deve poter dire la sua parola in maniera eguale, in maniera paritaria".

di ERNESTO ROSSI

SOMMARIO: Lungo articolo in cui, a partire dalla vigente Convenzione (del 26 gennaio 1952) vengono esaminati i problemi connessi con la struttura gestionale della RaiTV, in quanto non adeguata a garantire l'obiettività e la completezza dell'informazione, che solo possono giustificare il monopolio. Questa convenzione, oltre a consentire che parte del capitale azionario resti in mano private, rende "ancora più gravi i pericoli del monopolio". La Rai è infatti "alle dirette dipendenze del governo" e trasmette solo notizie favorevoli al governo, ai clericali, ecc. Il Comitato di vigilanza e la Commissione parlamentare non funzionano, in particolare quest'ultima, che riflette sempre "la maggioranza governativa". Lo richiede anche la relazione presentata dal democristiano on. Tozzi Condivi (della quale si fa un dettagliato esame, mostrandone tutte le nefandezze...). Le tesi contrapposte dall'opposizione comunista, pur interessanti, sono inficiate di scarsa credibilità: quando il PCI era al governo, anch'esso volev

a una "Commissione di vigilanza fasulla".

(IL MONDO, 6 gennaio 1959)

La convenzione del 26 gennaio 1952 (approvato con decreto presidenziale n. 180) ha rinnovato per venti anni alla RAI la concessione in esclusiva del servizio della radioaudizioni e le ha concesso anche, per lo stesso periodo, il monopolio del servizio di televisione, che prima le era affidato senza esclusiva.

La convenzione del 1952 ha dato un carattere più accentuatamente pubblicistico alla RAI, ma le ha confermato la forma di società anonima a partecipazione mista; ha solo disposto che la maggioranza assoluta delle azioni RAI, prima tenuta dalla società elettrica SIP, controllata dall'IRI, venisse passata direttamente dall'IRI. Così non soltanto la RAI è sottratta, come tutte le società anonime, ai controlli contabili della Ragioneria Generale, della Corte dei Conti e del Parlamento, ai quali sono soggetti gli enti pubblici, ma una parte delle azioni della RAI è ancora in proprietà di privati. Dal verbale dell'assemblea straordinaria della RAI del 21 dicembre 1956 risulta che degli 11 milioni di azioni in cui è diviso il suo capitale sociale di 5 miliardi e 500 milioni, 8.280.159 erano dell'IRI; 2.519.241 azioni erano della SIP (società di cui l'IRI ha il controllo con una partecipazione del 31, 52%); 89,485 azioni erano del rag. Camillo Trotto, e 1.179 azioni del comm. Giordano Bruno Verdesi. Non risulta a chi

appartenessero le rimanenti 109.936 azioni. Gli azionisti privati, proprietari della maggioranza delle azioni SIP, e gli azionisti diretti della RAI vengono in questo modo a trarre indebiti profitti dalla posizione di monopolio, dai contributi statali e dai privilegi fiscali concessi dallo Stato alla RAI perchè gestisce un pubblico esercizio. Specialmente preoccupante, dal punto di vista dell'interesse generale, è la partecipazione di 89.485 azioni (corrispondenti a circa 50 milioni di lire al prezzo di L. 649, al quale ogni azione della RAI è iscritta nel bilancio dell'IRI per il 1957) del rag. Trotto, che - nella sua qualità di presidente della FATME e della SIELTE - dirige le società italiane del gruppo svedese Ericson, fornitore di impianti elettrici e telefonici.

Come mai, prima di rinnovare la concessione alla RAI, il governo non ha pensato a riscattare i pacchetti azionari dei privati?

Ma in questo articolo, e nel successivo che mi pongono di scrivere sulla RAI, desidero trattare gli aspetti politici, non gli aspetti economici dei suoi problemi.

Alla fine del 1957 la RAI aveva 6 milioni e 682 mila abbonati, di cui 673 mila abbonati alla televisione. La percentuale delle famiglie abbonate alla RAI sul totale delle famiglie italiane risultava del 52,1% (nel Nord del 62%). Una inchiesta eseguita nel giugno del 1957 nelle regioni del Mezzogiorno incluse nella rete televisiva solo al principio di tale anno (Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna), ha rilevato che il 42% della popolazione adulta complessiva seguiva già le trasmissioni televisive (2 milioni come spettatori assidui e 1,2 milioni come pubblico occasionale). In confronto alla RAI, il cinema e la stampa sono dei mezzi di informazione e di propaganda molto meno efficienti.

Parlando ad un convegno tenuto dall'ARA, a Firenze il 16 maggio 1954, Piero Calamandrei mise in rilievo l'importanza politica dei servizi radiotelevisivi e disse che l'art. 21 della Costituzione ("tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e con ogni altro mezzo di diffusione"), secondo alcuni costituzionalisti, non consentirebbe la loro attribuzione in esclusiva ad alcun concessionario: per attuare la disposizione dell'art. 21 si dovrebbe, invece, dare la possibilità di più stazioni trasmittenti, sia pure con limitazioni e sotto il controllo dello Stato. Ma se, per ragioni di carattere pratico, si vuole ammettere il monopolio, dobbiamo trovare un modo per conciliarlo con le esigenze della nostra Costituzione.

"Chi legge un giornale di destra - osservò Calamandrei - trova un contravveleno in un giornale di sinistra, come chi ha l'opinione contraria trova il contravveleno in un giornale di destra. Questo vale per i giornali; non per la radio, non è possibile. Quando il concessionario è unico, l'unica opinione politica che si diffonde attraverso la radio è quella del concessionario; e se il concessionario è controllato dal governo l'unica opinione che si diffonde è quella del governo; e se il governo è un governo di partito, l'unica opinione che si diffonde è quella del partito che è al governo. Il monopolio di concessione, il monopolio di esercizio, si trasforma in un monopolio d'opinione: una sola opinione, un solo partito occupa l'etere. La radio diventa così il più pericoloso e potente strumento di totalitarismo".

Dal 1947 una commissione parlamentare dovrebbe assicurare "la indipendenza politica e l'obbiettività informativa della radiodiffusione".

"Ma che vuol dire indipendenza politica? - si domandò Calamandrei - Forse la RAI può avere una sua opinione politica, che ha diritto di difendere e di diffondere senza lasciarsi limitare in questa sua opinione dal governo?".

Ed a questa domanda rispose:

"No. In realtà, quando si è parlato d'indipendenza politica si è voluto proprio garantire che il governo non esplicasse, attraverso la radio, una politica che fosse una politica di partito. Quando si parla di indipendenza politica si vuol dire imparzialità politica, ossia possibilità, per tutti i partiti, di esprimere, attraverso la radio, le loro ideologie politiche. La radio non dev'essere l'espressione del partito che è al governo. Ci sono casi in cui il capo del governo parla alla radio, ma allora si sa che chi parla è il capo del governo, e che quel che dice lo dice non come uomo di partito, ma come capo del governo. La radio, anche quando è a disposizione di uomini, che espongono, attraverso di essa, la idee del loro partito, dev'essere come la tribuna parlamentare: essere, cioè, a disposizione dei vari partiti perchè continuino, per suo mezzo, quel colloquio con l'opinione pubblica che è una delle funzioni fondamentali del Parlamento. La radio è quasi una continuazione nell'etere dell'istituto parlame

ntare. Nelle questioni politiche, attraverso la radio, ogni partito deve poter dire la sua parola in maniera eguale, in maniera paritaria".

La convenzione del 1952 ha reso ancora più gravi i pericoli del monopolio, e quindi più urgente la necessità di un nuovo ordinamento dei servizi della radiotelevisione per soddisfare le esigenze esposte da Calamandrei. Essa, infatti, contiene le seguenti disposizioni, che - conformando e aggravando quelle contenute nella legge del 1947 - tolgono alla RAI ogni possibilità di vita indipendente:

1·) la nomina del presidente, del consigliere delegato e del direttore generale della RAI devono essere approvate con decreto del Ministro delle poste e telecomunicazioni, sentito il Consiglio dei ministri;

2·) del consiglio di amministrazione della RAI fanno parte sei membri, designati rispettivamente dalla Presidenza del Consiglio, dal Ministero degli esteri, dal Ministero dell'interno, da quello delle finanze e da quello delle poste e telecomunicazioni;

3·) il collegio sindacale è presieduto da un funzionario della ragioneria dello Stato, designato dal ministro competente;

4·) i piani trimestrali dei programmi devono essere tutti (anche quelli delle trasmissioni pubblicitarie) preventivamente approvati dal ministro delle poste e telecomunicazioni;

5·) la RAI, quando ne venga richiesta dal governo, deve mettere gratuitamente a sua disposizione, fino a due ore al giorno, le stazioni di radiotrasmissione per i comunicati governativi, e prestare la propria opera "per manifestazioni di interesse generale o collettivo";

6·) per gravi motivi di ordine pubblico o "per grave necessità pubblica", il governo può modificare il piano di massima dei programmi e degli orari, può sospendere o limitare l'esercizio ed anche prendere possesso degli impianti, degli uffici e dei materiali della RAI, assumendone la gestione.

Il consiglio di amministrazione della RAI è composto, oltre che dei sopraddetti sei delegati del governo, di dieci membri eletti dall'assemblea generale; ma questa assemblea è formata di uomini scelti, attraverso la RAI, dal Governo.

Nonostante al RAI conservi - come ho detto - la forma di società anonima, e nonostante l'assurda disposizione dell'art. 6 della convenzione (secondo la quale l'approvazione del presidente, del consigliere delegato, del direttore generale, e la partecipazione dei sei consiglieri e del sindaco di nomina governativa "non implicano alcuna responsabilità da parte dello Stato") la RAI è perciò alle dirette dipendenze del governo, così come lo è il monopolio dei sali e tabacchi; solo che non serve a riscuotere una imposta sui consumi; serve ad imbottire i crani e a condizionare i cervelli.

La distribuzione del tempo destinato alle trasmissioni, dando il maggior spazio possibile, nelle ore migliori, alle parole, ai sorrisi, alla presenza del capo del governo, dei ministri, dei sottosegretari, degli esponenti della democrazia cristiana, del pontefice, dei cardinali, dei vescovi; l'omissione, se non l'alterazione, delle notizie poco gradite al governo e l'informazione data quasi sempre in una forma che implica un giudizio favorevole al partito al potere e contrario all'opposizione; il commento degli avvenimenti politici affidato a clericali di stretta osservanza e a "pennaroli" al servizio dei padroni del vapore; la enunciazione dogmatica delle tesi ufficiali, senza alcun accenno alle tesi contrarie, e la eliminazione di ogni vero dibattito su problemi politici del giorno; la intonazione ironica od eroica delle voci con le quali sono trasmessi i vari comunicati ed il diverso modo con cui vengono presentati gli oratori delle diverse tendenze; la tendenziosità con la quale vengono scelti i brani de

i giornali per la rassegna della stampa; le trasmissioni per la educazione civica, i programmi per i ragazzi, le spiritosaggini e le cretinerie negli spettacoli di varietà, informati al più pretto spirito qualunquistico; le funzioni religiose, le prediche, i sermoni, ed i preti in continuazione - preti serviti su tutti i piatti e in tutte le salse, che pregano, che benedicono, che, con le loro opere acquistano benemerenze in terra e in paradiso - tutto concorre a fare della radio in Italia una potente macchina per il rimbecillimento e il conformismo delle masse e per spingere il nostro paese verso un regime fascistico-papalino.

E' vero che l'art. 25 della convenzione del 1952 ha confermato la vigilanza e il controllo sulla RAI disposti dal decreto 3 aprile 1947, n. 428, che istituì un comitato per la determinazione delle direttive artistiche e culturali dei programmi, ed una commissione parlamentare per l'"alta vigilanza" sulla indipendenza politica e l'obiettività informativa della radiodiffusione. Ma il comitato (presieduto da una persona nominata dal Consiglio dei ministri) ha soltanto una funzione consultiva, e la commissione parlamentare non ha, in pratica, mai funzionato, perchè così come è costituita e con i poteri che le sono attribuiti non poteva funzionare.

Mi soffermo un poco su questo ultimo punto, perchè l'"alta vigilanza" della commissione parlamentare è il prototipo di tutta una vasta categoria di controlli fasulli, che riducono le responsabilità del potere esecutivo e della pubblica amministrazione, ma li lasciano liberi di fare quello che vogliono.

La commissione parlamentare è costituita da trenta membri: quindici designati dal presidente della Camera e quindici dal presidente del Senato fra i rappresentanti di tutti i gruppi, in numero proporzionale alla consistenza dei gruppi. La maggioranza governativa viene così a riflettersi nella commissione, rendendo impossibile ogni decisione che suoni critica alla RAI e al governo.

"Nella pratica - scrive Liliana Treves in un ottimo studio, comparso sul n. 3 del 1958 della rivista Il Politico - a causa della congenita disfunzionalità della commissione, non accadde mai che la RAI venisse posta in stato d'accusa per faziosità politica, nè che il governo prendesse provvedimenti a suo carico, nonostante le ripetute proteste dell'opposizione, particolarmente violente nella più recente campagna elettorale".

La disfunzionalità della commissione è la conseguenza naturale del modo in cui essa è composta. I membri dell'opposizione non possono, in essa, far altro che esporre le loro critiche e le loro proteste in relazioni di minoranza, di cui sanno che il governo non terrà alcun conto.

D'altra parte, quali poteri dà la legge del 1947 alla commissione parlamentare?

L'art. 12 di tale legge dispone che la commissione "trasmette le sue deliberazioni alla Presidenza del consiglio dei ministri, che deve impartire al presidente dell'ente concessionario le disposizioni necessarie per curarne l'esecuzione e deve informare il Ministero delle poste e le telecomunicazioni"; ma l'art. 18 dispone che anche "per la trasmissione di carattere politico-militare o di notizie attuali di carattere finanziario o economico, capaci di pregiudicare i rapporti internazionali, il credito dello Stato, o interessi di carattere generale, l'ente concessionario può interpellare la Presidenza del consiglio ed in tale caso deve osservarne le istruzioni".

Come il gruppo democristiano interpreta queste due posizioni contraddittorie, e che cosa intende per indipendenza della RAI, è spiegato molto chiaramente nella relazione che un membro della commissione, l'on. Tozzi Condivi, presentò il 13 giugno 1955:

"L'Ente concessionario - egli scrisse - non può dimenticare, non deve dimenticare che esercita una funzione per conto dello Stato, il quale, in democrazia, è retto da un potere esecutivo, il quale è strumento della maggioranza per la realizzazione di un programma accettato dalla maggioranza della Nazione. Pertanto la funzione della nostra Commissione, secondo l'evidente spirito del legislatore (è bene non dimenticare che eravamo nell'aprile 1947!), è e rimane questa: controllare che le direttive date siano rispettate dall'Ente, riferendone, in caso di violazione, proprio alla Presidenza dei Ministri! Non dice neppure, il decreto, che si debba riferire al Parlamento; stabilisce che si deve riferire alla presidenza del Consiglio dei ministri, la quale, a sua volta, risponde di fronte al Parlamento ed alla Nazione".

Sapendo che le sue trasmissioni entrano nella case di tutti, la RAI - aggiunge l'onorevole democristiano - per non offendere alcuno, deve "nella materie libere, cercare di corrispondere proporzionalmente ai desideri di tutti, deve usare dei criteri di obbiettività ed imparzialità".

"Ma chi può essere giudice spassionato? Quando si parla di obbiettività, umanamente, non può prescindersi dalla soggettività, ed è indubbio che l'obbiettività della RAI sarà naturalmente, direi più inconsciamente, influenzata dalla soggettività della maggioranza. Questa realtà precisa di uno Stato democratico, nel quale la direzione e la responsabilità della cosa pubblica sono attribuite alla maggioranza, non può non influenzare l'obbiettività e l'indipendenza politica della RAI, la quale esercita un servizio per conto dello Stato. Se questa non fosse stata la volontà del legislatore, allora, così come per il Comitato che formula le direttive artistiche, si sarebbe dovuto creare un organo indipendente dal Parlamento, il quale avrebbe dovuto operare in spazi astrali, là dove sussiste l'obbiettività pura per eccellenza... Ma rientrerebbe nell'atmosfera del reale una tale Commissione?! Non si formerebbe una nuova maggioranza o un'identica maggioranza in seno ad essa?".

Perchè tutti potessero avere piena libertà di esprimere le loro opinioni - secondo l'on Tozzi Condivi - bisognerebbe lasciare libero l'esercizio della radio a diverse società private, così come avviene in altri Stati, ed analogamente a quanto è disposto anche in Italia per la stampa. Ogni corrente politica potrebbe allora avere la sua radio, o noleggiare certe rubriche, od acquistare certe ore di trasmissione, per dare la propria versione degli avvenimenti e per fare la propria propaganda, e lo Stato potrebbe limitare il suo intervento a un controllo generico per tutelare l'ordine e la morale.

"Fino a tanto che questo non sarà, non sarà neppure possibile fare diversamente, e l'obbiettività sarà sempre relativa o, per meglio dire, dovrà sempre tenere come criterio dominante l'interesse dello Stato, rappresentato di volta in volta da maggioranze che possono mutare e le quali non potranno mai permettere - come in nessun Stato libero permettono - che un loro servizio eserciti della propaganda, segua delle direttive, in contrasto con le direttive della politica della maggioranza, la quale è, per costituzione, l'espressione parlamentare dell'intera Nazione".

Sulla base di questi principi "democratici", l'onorevole Tozzi Condivi concluse l'esame delle veline delle trasmissioni effettuate dalla RAI affermando che "la RAI si è sforzata al massimo di attuare quella 'inumana' clausola di obbiettività e d'imparzialità che le è stata imposta, dopo avere premesso che, però, non può discostarsi dalle direttive della presidenza del Consiglio dei ministri!!".

La parola "inumana" è fra virgolette nel testo della relazione e sono nella stessa relazione anche i due punti esclamativi: esprimono lo stesso concetto che le persone meno educate manifestano battendo la mano sinistra sulla metà del braccio destro.

All'on. Tozzi Condivi replicò il commissario on. Carlo Farini, in una lunga relazione, presentata il 22 febbraio 1956, in cui espose numerosi casi che provavano la parzialità della RAI in favore del governo ed a danno del PCI e dell'Unione Sovietica.

"Se dovessimo trarre delle logiche conclusioni dalla tesi dell'on. Tozzi Condivi - fece giustamente osservare l'onorevole comunista - dovremmo fatalmente giungere alla soppressione della commissione parlamentare, le cui prerogative e funzioni verrebbero ad essere assorbite dal governo, all'indirizzo politico e funzionale del quale la RAI dovrebbe strettamente uniformarsi".

Dalla esegesi dell'art. 12 fatta dall'on. Farini risulta dimostrato che le decisioni sull'indipendenza e sull'obbiettività informativa della RAI dovrebbero spettare alla commissione di vigilanza, mentre compito della presidenza del Consiglio dovrebbe essere solo quello di dare le disposizioni necessarie per fare eseguire tali decisioni. Molto meno convincente è, invece, la sua interpretazione dell'art. 16, là dove sostiene che esso va riferito esclusivamente "a notizie di notevole rilievo, a fatti verificatisi in momenti e situazioni d'eccezione".

"Si legga attentamente anche questo art. 16 e se ne rileverà la volontà esplicita del legislatore di mettere un limite alla piena libertà dell'informazione solo per ciò che riguarda notizie militari come per es. quella sul potenziale tecnico, strutturale e strategico del nostro esercito, o attinenti a condizioni di speciale gravità della situazione mondiale, quale ad es. il maturarsi di una minaccia di conflitto armato, oppure di grave crisi economico-finanziaria, od anche notizie che possono (in una situazione di tensione dei rapporti internazionali), pregiudicare la politica estera dello Stato, ecc..; quando, cioè, una notizia propalata in un modo piuttosto che in un altro potrebbe veramente pregiudicare l'interesse nazionale e le pacifiche relazioni dell'Italia con gli altri paesi".

Questi concetti sono più elastici della trippa: possono essere tirati come e quanto si vuole. Né l'on. Farini ci ha spiegato come una commissione parlamentare, nella quale la maggioranza è la medesima che dà il voto di fiducia al governo, potrebbe mai prendere una decisione contraria alla volontà del governo.

"Si tratta innanzitutto - scrisse non senza efficacia il deputato comunista - di un problema di diritto giuridico, di costume morale e politico, che non possiamo lasciar decadere senza grave pregiudizio, per il carattere che noi tutti insieme abbiamo voluto dare alla Stato repubblicano, alla democrazia repubblicana e alla sua costituzione, e che dobbiamo difendere contro tutti i tentativi revisionisti, palesi ed occulti, in senso conservatore e reazionario.

Altrimenti si ritorna al vecchio, che noi abbiamo voluto debellare, si torna allo "Stato forte", al potere esecutivo, che, poggiando sopra una maggioranza coatta o prefabbricata, decide arbitrariamente di tutto e su tutto, al potere esecutivo che si arroga tutti i diritti fino a quello, nel caso specifico, di poter liberamente falsare i fatti, la storia e la cronaca di essa, allo scopo di forgiare l'opinione pubblica, a propria immagine e utilizzarla poi ai propri fini.

Questo in sostanza è: totalitarismo!".

Benissimo ma.. da che pulpito viene la predica!

La verità è che la legge istitutiva della Commissione parlamentare fu emanata - come maliziosamente ricordò, nella sua relazione, l'on Tozzi Condivi - il 3 aprile 1947, cioè quando i comunisti erano ancora al governo, e credevano di poterci rimanere per molto tempo, o almeno fino alla rivoluzione sociale. Vollero, perciò, anche loro, una commissione di vigilanza fasulla: una commissione che non rompesse le scatole a nessuno.

Da quando i comunisti sono stati estromessi dal governo protestano contro la faziosità della RAI, come protestano contro il "governo nero", dopo aver approvato l'art. 7 della Costituzione, che riconosce i Patti Lateranensi firmati da Mussolini. Ma la battaglia per l'indipendenza e l'obbiettività della RAI - come quella per la laicità dello Stato - non può essere combattuta sul serio da chi, sostenendo i regimi totalitari, reclama la libertà solo come un espediente tattico: dev'essere una nostra battaglia.

Ernesto Rossi

 
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