Possiamo consentire al monopolio della RAI, ma ad una condizione: che i servizi radiofonici e televisivi vengano gestiti dalla RAI come servizi pubblici, per la diffusione della cultura e per dare anche ai partiti d'opposizione ed alle correnti non conformiste la possibilità di far conoscere, attraverso l'etere, i loro punti di vista su tutte le questioni importantidi Ernesto Rossi
SOMMARIO: Analisi comparata dei diversi sistemi televisivi. Al liberismo americano, Rossi muove parecchie critiche, in particolare il suo asservimento agli interessi capitalistici, che condizionano pesantemente anche i valori culturali e la libertà politica; più interessante l'esperienza inglese, che però non è esportabile in Italia per la diversa sensibilità civile presente nei due paesi. Rossi prende in esame quindi i due progetti di legge precedentemente presentati in Parlamento (Farini-Schiavetti, 1954, e Schiavetti, 1958). Discute, infine, progetti avanzati dal partito liberale, che avanza critiche all'informazione politica della Rai ("propaganda e polemica di parte" filogovernativa, anzi, filoDC), e da parlamentari socialisti. Difende quindi il monopolio RaiTV purché sia funzionale ad una effettiva libertà e completezza di informazione. Perché questo sia possibile, occorre una oculata scelta della dirigenza Rai, sottratta alla influenza governativa. Tratteggia infine le caratteristiche della riforma ch
e verrà presentata al prossimo Convegno degli Amici del Mondo: la rai Ente di diritto pubblico, un Comitato di garanti con forti poteri di effettiva direzione, ecc.
(IL MONDO, 20 gennaio 1959)
Nel mio ultimo articolo ho spiegato per quali ragioni il sistema americano non può essere adottato nel nostro paese: le convenzioni internazionali hanno assegnato all'Italia troppo scarse lunghezze d'onda per consentirci di installare parecchie stazioni trasmittenti private, in concorrenza fra loro, e disponiamo di capitali troppo insufficienti per poterci permettere di investirli nei costosissimi impianti di tali stazioni. I patrocinatori della "libera concorrenza" in Italia in realtà non si propongono di rendere più libera l'espressione delle diverse opinioni attraverso l'etere: vorrebbero, invece, dare ai vari nostri Lauro, Angiolillo, Guglielmone, la possibilità di aggiungere, alla stampa reazionaria al loro servizio, qualche stazione-radio capace di diffondere la voce dei "padroni del vapore" nel raggio limitato di alcune regioni intensamente popolate, per strappare più facilmente ai governi altri privilegi e per spingere, con maggiore energia, la nostra repubblica tisicuzza sulla china del regime total
itario.
D'altra parte, il sistema americano presenta tali inconvenienti che non mi pare meriti di esser preso a modello. Lo stimolo del guadagno tiene basso il livello delle trasmissioni, inducendo le società private a soddisfare i gusti più grossolani delle masse, per accrescere il loro pubblico, e ad inserire, nel modo più sconveniente, gli avvisi commerciali anche nei programmi educativi e culturali. Né è detto che l'indipendenza finanziaria, ottenuta con i ricavi della pubblicità, vada sempre a vantaggio della libertà di parola:
"La pubblicità - osserva a questo proposito, Jacque Kaiser in Mort d'une liberté, (Paris, Plon, 1955, pag. 153) - solo in apparenza è compatibile con la libertà d'informazione, perché la designazione dei commentatori spetta alle ditte annunciatrici, cioè in gran parte alle più potenti imprese industriali, oppure, per i programmi che trasmettono per loro conto, alle stazioni trasmittenti stesse, le quali sono una emanazione delle medesime imprese, o di società ad esse collegate. Anche se il commento non è diretto, è necessariamente diretta la scelta dei commentatori".
Quale pericolo possa rappresentare per le istituzioni democratiche il sistema della vendita delle trasmissioni televisive a chi è disposto a pagarle di più, si riconosce specialmente durante le competizioni elettorali.
L'Economist del 16 luglio 1955, parlando delle ultime elezioni presidenziali negli Stati Uniti, ha scritto che, in quel paese, la televisione ha fatto aumentare di molto il costo dell'attività politica. Presentarsi per mezz'ora in una trasmissione televisiva nazionale costava 37.600 dollari (23 milioni e mezzo di lire). I quattrini per queste trasmissioni vengono raccolti da comitati di cittadini, che non sono in alcun modo vincolati dalle leggi limitatrici delle spese elettorali di ogni candidato. Così i candidati, specialmente agli uffici minori, sono costretti ad iniziare la loro vita pubblica con pesanti obblighi verso piccoli gruppi di maggiori sottoscrittori. Si capisce, perciò, - scrive L'Economist - che da molti americani venga oggi proposto che la FCC imponga, quale condizione per la licenza, l'impegno, da parte delle stazioni radio-televisive, di mettere gratuitamente un certo tempo a disposizione dei candidati. Una proposta alternativa è quella di stanziare nei bilanci della Federazione i fondi pe
r pagare alle stazioni le trasmissioni di propaganda elettorale.
A quali conseguenze può portare, in una democrazia a suffragio universale, il sistema della libera concorrenza, fu dimostrato in America, nel modo più clamoroso, dalle elezioni presidenziali del 1952, quando Richard Nixon rispose a tutte le critiche che gli erano state mosse dagli avversari e salvò in extremis la sua candidatura alla vicepresidenza, presentandosi al video con i gesti e le parole appresi dagli esperti di pubblicità televisiva. Se nel 1946, al momento del referendum, Umberto di Savoia avesse potuto mostrarsi alla televisione con in braccio il principino, e magari carezzando un simpatico bassotto, per fare appello - come ha fatto Nixon - ai sentimenti più elementari degli spettatori, senza dire neppure una parola sui problemi costituzionali, molto probabilmente avremmo ancora oggi in Italia la monarchia.
L'esempio inglese è per noi, molto più interessante dell'esempio americano.
Nonostante la BBC sia, come la RAI, di proprietà dello Stato, ed abbia anch'essa il monopolio dei servizi radiotelevisivi (affiancata dall'ITA, ente pure statale, per la pubblicità televisiva, dalla quale la BBC è esclusa), i suoi notiziari sono molto più veritieri ed i suoi commenti molto più imparziali di quelli della RAI. Mentre la RAI è ormai uno strumento di propaganda all'esclusivo servizio del governo e della Democrazia Cristiana, la BBC riesce a conservare una sufficiente indipendenza, chiama spesso al microfono i rappresentanti dell'opposizione e continuamente organizza discussioni e dibattiti per far conoscere ai suoi abbonati i diversi punti di vista su tutti gli argomenti importanti politici, morali e religiosi.
E' certo, però, che non faremmo niente di buono se trapiantassimo in Italia, così com'è, il sistema inglese. Per dare resultati soddisfacenti tale sistema presuppone infatti, una tradizione di vita libera, un'educazione al rispetto delle regole di gioco, una abitudine alla vigilanza da parte dell'opinione pubblica sull'attività del Parlamento e del governo, che non si riscontrano certo in Italia ed in nessun altro paese latino. Per contener entro limiti tollerabili la volontà di sopraffazione dei nostri governanti e porre un qualche riparo al qualunquismo politico di vastissimi strati della nostra popolazione, dobbiamo costruire argini giuridici diversi e molto più robusti di quelli esistenti in Inghilterra, descritti nel mio secondo articolo.
In Inghilterra il problema delle trasmissioni radiofoniche-televisive è stato oggetto di diverse importanti inchieste parlamentari (comitato Sykes del 1923, comitato Crawford del 1925, comitato Ullswater del 1935, comitato Beveridge del 1949), di frequenti relazioni nei "libri bianchi" governativi, e di lunghe discussioni alla Camera dei Comuni (sul rinnovo delle licenze alla BBC, sul diritto di veto del Postmaster, sulla istituzione della ITA, sulle trasmissioni della BBC durante la crisi di Suez, ecc.). Nel Parlamento italiano, invece, il problema non è mai stato oggetto di una seria discussione: anche il rinnovo della concessione in esclusiva per venti anni alla RAI, e il passaggio del pacchetto azionario di maggioranza della RAI della SIP all'IRI, sono stati disposti nel 1952 alla chetichella, con semplici provvedimenti amministrativi, senza alcun intervento della Camera e del Senato.
Gli unici progetti di legge sull'argomento sono il progetto n. 966 del 1954, e quello n. 670 del 1958.
Il 16 giugno 1954 gli on.li Farini (PCI) e Schiavetti (PSI) presentarono alla Camera un progetto per rendere più efficiente il controllo sulla RAI da parte della Commissione parlamentare istituita col D.L. 3 aprile 1947, n. 428. Esso contiene tre disposizioni degne di attento esame:
1) estende il controllo su tutti i programmi culturali, artistici ed educativi delle radioaudizioni e della televisione. (E' evidente che si può fare propaganda politica anche con tiritere alla Petrolini e si favorisce un partito anche presentando alla televisione uno dei suoi esponenti a cantare delle canzonette);
2) stabilisce che il parere della Commissione di controllo ha un valore vincolante sui programmi della RAI e sulla nomina del suo presidente e del suo consigliere delegato. (Altrimenti le proteste e le accuse della Commissione parlamentare continuerebbero ad essere delle bastonate con una vescica gonfiata d'aria);
3) dichiara che non possono far parte della Commissione di controllo coloro che abbiano, od abbiano avuto, da meno di un anno rapporti fissi e continuativi di collaborazione retribuita con la RAI. (La medesima incompatibilità vale anche per le Commissioni consultive, composte in gran parte - come rilevò l'on. Schiavetti il 29 aprile 1954 alla Camera - di persone che "percepiscono lauti compensi dalla RAI per le loro trasmissioni, e sono nello stesso tempo, chiamate a vigilare l'opera di se stessi").
Ma il progetto degli onorevoli Farini e Schiavetti mi sembra insufficiente perché conserva il controllo della RAI alla Commissione parlamentare, composta di rappresentanti di tutti i gruppi, designati dai presidenti delle due Camere. Con tali rappresentanze la Commissione - come ho già detto - non può prendere delle decisioni sgradite al governo, perché la sua maggioranza rispecchia la stessa maggioranza che è al governo. D'altra parte, i deputati e i senatori sono le persone meno indicate per esercitare un efficace controllo sulla RAI: nessuno di loro ha un particolare interesse a fare un lavoro che elettoralmente non rende, ed anche se un deputato o un senatore avesse la migliore volontà, essendo in mille altre faccende affaccendato, non avrebbe il tempo di leggere le veline ed ascoltare le trasmissioni radio.
Il progetto Farini-Schiavetti affidava, inoltre, la consulenza sulle questioni tecniche e sui criteri da seguire nella formulazione dei programmi a comitati tecnici, composti da funzionari ministeriali, da rappresentanti di diverse categorie (scrittori, drammaturghi, musicisti, docenti universitari, ecc.) e da utenti designati dalle rispettive associazioni legalmente costituite. L'esperienza ci ha ormai insegnato che comitati corporativi di questo genere dànno pessimi risultati, perché portano nell'amministrazione tutti i contrasti, le beghe, gli interessi sezionali dei burocrati, dei partiti politici e delle organizzazioni sindacali. Le rappresentanze degli utenti poi sono sempre delle autentiche truffe.
Infine il progetto stabiliva che, nei casi di gravi inadempienze da parte dell'ente concessionario, la Commissione parlamentare di controllo avrebbe potuto (non dovuto) chiedere al ministro delle poste la rimozione dei dirigenti responsabili (senza precisare che cosa avrebbe poi fatto il ministro) e che, nei casi di gravi irregolarità, il ministro, udito il parere della Commissione parlamentare, avrebbe potuto (non dovuto) proporre al Parlamento la revoca della concessione (ma non prevedeva che cosa sarebbe allora successo dei servizi della RAI).
Alla fine della legislatura il progetto di legge Farini-Schiavetti è decaduto e non è stato ripresentato.
L'on. Schiavetti, insieme ad altri ventuno suoi colleghi del Partito socialista, ha, invece, presentato alla Camera, il 5 dicembre 1958, un altro disegno di legge (n. 670), di soli quattro brevi articoli, indirizzato a disciplinare l'uso delle stazioni radiofoniche televisive, per i discorsi dei parlamentari, al di fuori delle campagne elettorali.
Questo disegno di legge propone:
- che una volta al mese sia assegnato ad ogni gruppo parlamentare un eguale tempo per le trasmissioni: quindici minuti alla radio e cinque minuti alla televisione, (i due gruppi misti dovrebbero, invece, disporre di venti minuti alla radio e dieci alla televisione);
- che la direzione della RAI comunichi, con sette giorni di anticipo, i giorni e gli orari disponibili per fare queste trasmissioni, fra le ore 13 e le 14 e fra le 21 e le 22; - che i turni dei vari gruppi vengano stabiliti mediante sorteggio.
Queste tre proposte mi sembrano ragionevoli. Non sono, invece, d'accordo con l'ultimo articolo del progetto, che vuole affidare alla solita Commissione parlamentare anche la vigilanza sulla imparziale ed esatta applicazione di tali disposizioni. Come possiamo nutrire fiducia in una Commissione che, in dieci anni di vita, non ha mai seriamente funzionato, e che, per il modo della sua composizione, non potrà mai funzionare neppure in futuro?
Il 3 dicembre scorso i liberali hanno presentato alla Camera una mozione, in cui criticano il sistema delle conferenze-stampa alla Tv del governo, osservando che a nessun partito dell'opposizione è permesso far conoscere un diverso punto di vista sui problemi trattati in tali conferenze, sicché "esse degenerano, in pratica, in propaganda e in polemica di parte, a cui non è possibile dare risposta".
La stessa mozione rileva che "una vera confusione si è creata alla RAI-TV fra il governo e il partito della DC, in seguito alla quale viene dato un tempo-spazio alle notizie riguardanti la vita interna della DC assolutamente sproporzionato a quello dedicato alla attività degli altri partiti", e invita il governo "a porre fine alla prassi adottata, sostituendola con una disciplina delle trasmissioni politico-informative improntata a criteri che ne facciano un effettivo contributo alla formazione democratica dell'opinione pubblica".
Stando all'opposizione, sono portati a sostenere delle tesi liberali anche i parlamentari del partito liberale... Ed è tutto dire.
Dopo aver presentata la mozione, l'on. Malagodi, parlando ai giornalisti, ha ribadito che non riteneva ammissibile che la radio e la televisione fossero unicamente al servizio del governo.
"Per queste ragioni - ha soggiunto - noi ci proponiamo di chiedere al presidente della Camera e allo stesso governo di aprire al più presto un dibattito sulla mozione che abbiamo presentata oggi, per arrivare ad un accordo sperimentale, sotto gli auspici delle presidenze della Camera e del Senato. Tale accordo dovrebbe permettere, con le dovute cautele, anche alle opposizioni di esporre e chiarire punti di vista dissimili da quelli ufficiali. Sulla base di sei mesi di una simile esperienza si potranno poi decidere miglioramenti e modificazioni".
Sono proposte da cacastecchi; ma devo riconoscere che sono i primi frutti liberali della estromissione dei liberali dal governo.
Infine l'Avanti! del 6 gennaio ha pubblicato una lettera che gli onorevoli Mazzali (PSI) e Lajolo (PCI) hanno indirizzato al senatore Bisori, presidente della commissione parlamentare di controllo sulla RAI, per protestare contro la faziosità fascista della rubrica "Cinquant'anni di storia italiana" e per proporre che venga messa allo studio della Commissione parlamentare la riforma dell'attuale ordinamento.
La protesta e la proposta di studio vanno benissimo; ma quello che, secondo me, deve essere respinto nel modo più deciso è l'indirizzo suggerito per la riforma:
"Chiediamo soprattutto - scrivono i due deputati - che si dia possibilità alla nostra Commissione d'esercitare la sua funzione di controllo preventivamente per tutte quelle trasmissioni, rubriche, commenti, non di strettissima attualità, che verranno poi presentate ai milioni di ascoltatori della RAI e ai milioni di telespettatori della TV".
Se questo suggerimento venisse accolto cadremmo dalla padella nella brace, perchè la RAI verrebbe ad essere ancor più asservita ai partiti che hanno la maggioranza in Parlamento.
"D'altronde - si legge nella stessa lettera - il governo non ha a sua disposizione una legge sulla censura per i film? A maggior ragione non si comprende perchè questa nostra Commissione interparlamentare, definita di controllo, non dovrebbe poter esercitare, non un diritto di censura, ma un dovere di preventivo controllo e di collaborazione con la RAI-TV".
"Non si comprende perchè"...Si comprende, invece, benissimo quando si riconosca - come si deve riconoscere - che non c'è alcuna differenza tra il proposto "controllo preventivo" e la censura.
Per garantire l'indipendenza della RAI dobbiamo muoverci proprio nella direzione opposta, e sbarazzare il campo anche dalla Commissione parlamentare che funziona solo come paravento per coprire le responsabilità del governo e dei dirigenti della RAI.
Sono anch'io convinto che, col sistema americano, "la moneta cattiva caccia la buona", e che in Italia esso potrebbe essere attuato solo come una pseudo concorrenza fra pochi gruppi oligopolistici dello stesso genere della "concorrenza" oggi esistente fra le nostre grandi società elettriche. Ritengo, perciò, convenga, anche a noi, di sostenere il monopolio della RAI; ma a due condizioni, e cioè che la RAI gestisca i servizi radiofonici e televisivi come strumenti di diffusione della cultura e della educazione politica, e che consenta ai partiti di opposizione ed ai movimenti non conformisti una libertà di espressione attraverso l'etere molto maggiore di quella che, nonostante tutti gli inconvenienti, potremmo attenderci dalle stazioni trasmittenti private.
I problemi cruciali da risolvere per ottenere questi resultati, riguardano la scelta dei dirigenti della RAI ed i poteri ad essi attribuiti. le più rigorose disposizioni per assicurare uno standard elevato delle trasmissioni e per garantire la indipendenza e la imparzialità rimarrebbero lettera morta se la RAI continuasse ad essere diretta da molluschi, che conservano il loro posto solo finchè godono il favore del governo.
Io penso che dovremmo cercare la soluzione di questi problemi adattando all'ambiente italiano il sistema inglese del "comitato di garanzia", e tenendo conto del modo in cui è stata composta, negli Stati Uniti, la Federal Communication Commission (non più di quattro dei sette suoi membri possono appartener al medesimo partito politico); delle proposte contenute nel "libro bianco" 1952 dei conservatori inglesi, per togliere al governo la nomina dei "garanti"; e dell'esperienza fatta per la scelta dei giudici della nostra Corte costituzionale.
Dopo lunghe discussioni fra "amici del Mondo", siamo arrivati ad alcune conclusioni che intendiamo presentare in un disegno di legge all'ottavo nostro convegno romano (che terremo il 31 gennaio e il 1· febbraio al teatro Eliseo, sul tema "Verso il regime").
Ne riassumo qui la parte sostanziale:
La RAI dovrebbe essere trasformata da società anonima, amministrata formalmente da un consiglio eletto dalla assemblea degli azionisti (ma sostanzialmente da rappresentanti dei vari ministeri), in un ente di diritto pubblico, controllato dalla Corte dei Conti e dal Parlamento, ma tenuto il più possibile indipendente dal governo.
La responsabilità per tutti i servizi della RAI dovrebbe ricadere su un "Comitato dei garanti", nominati per cinque anni dal Parlamento e dal Presidente della Repubblica: la maggior parte di loro (mettiamo cinque su sette) verrebbero nominati da una commissione composta dai presidenti dei gruppi parlamentari, ognuno dei quali disporrebbe d'un numero di voti proporzionale al numero degli appartenenti al proprio gruppo, ma non potrebbe dare i suoi voti a più di due nomi; i rimanenti "garanti", in un secondo momento, sarebbero nominati dal Presidente della Repubblica. Così, riconoscendo un sufficiente peso all'opposizione e consentendo un eventuale intervento equilibratore al Presidente della Repubblica, le diverse tendenze sarebbero rappresentate con sufficiente equità ed i "garanti" potrebbero avere le qualità di carattere, intelligenza e cultura richieste dai loro compiti.
I "garanti" non dovrebbero avere rapporto diretto o indiretto d'affari con la RAI, né ricevere dalla RAI alcun emolumento, a qualsiasi titolo, al di fuori del compenso stabilito dalla legge per il loro specifico lavoro. (Per avere un punto di riferimento variabile col variare del costo della vita, tale compenso potrebbe essere uguagliato all'indennità parlamentare).
Il "Comitato di garanti" avrebbe ampi poteri: in particolare nominerebbe e revocherebbe a sua discrezione il direttore generale, e su proposta del direttore generale i membri dei comitati tecnici consultivi ed i funzionari preposti ai vari servizi; stabilirebbe i criteri da seguire nella formulazione dei programmi, per mantenere un alto livello alle trasmissioni, per garantire un giusto equilibrio nella distribuzione del tempo fra i partiti governativi e i partiti dell'opposizione, e per consentire le repliche, le discussioni e i dibattiti sugli argomenti controversi; presenterebbe ogni anno al Parlamento una relazione sull'attività svolta dalla RAI e sui problemi da essa sollevati.
La esecuzione delle direttive generali date dal "Comitato dei garanti" spetterebbe al direttore generale, assistito da diversi comitati tecnici.
Tutte le trasmissioni radiofoniche e televisive sarebbero registrate e verbalizzate: registrazione e testi scritti dovrebbero rimanere per un anno a disposizione dei membri del "Comitato di garanzia", e i testi scritti dovrebbero rimanere a disposizione anche di chiunque ne facesse richiesta.
Per meglio difendere il "Comitato dei garanti" dalle pressioni che sarebbero certamente ancora esercitate su di loro dai governanti, converrebbe disciplinare per legge le trasmissioni dei discorsi dei parlamentari e dei discorsi di propaganda elettorale, piuttosto che con accordi fra l'Ente concessionario ed i partiti politici, come sono regolate in Inghilterra.
Per i discorsi dei parlamentari potrebbero essere senz'altro accolte le tre proposte del progetto di legge n. 670, con le quali mi sono sopra dichiarato d'accordo, mentre la propaganda dei partiti nei periodi elettorali, potrebbe essere regolata con queste disposizioni:
a) il "comitato di garanzia" dovrebbe tempestivamente comunicare in quali giorni ed in quali ore la RAI metterebbe a disposizione dei partiti le stazioni trasmittenti;
b) tutti i partiti, che presentassero candidati in un minimo di circoscrizioni elettorali, avrebbero diritto all'assegnazione di un tempo eguale per le trasmissioni radiofoniche e televisive;
c) il "comitato di garanzia" stabilirebbe, mediante sorteggio, il turno per la distribuzione del tempo messo dalla RAI a disposizione dei partiti;
d) gli oratori sarebbero designati dalle direzioni dei partiti e la RAI non avrebbe alcun diritto di censurare i loro discorsi;
e) durante la campagna elettorale il "Comitato dei garanti" non dovrebbe consentire alcuna trasmissione che potrebbe influire sul voto degli elettori e dovrebbe impedire che i candidati si presentassero, in trasmissioni di qualsiasi genere, al di fuori di quelle a cui avrebbero diritto come rappresentanti dei loro partiti.
Le differenze fra queste disposizioni e quelle vigenti per le trasmissioni della BBC, rilevabili al punto b) (in Inghilterra il tempo viene assegnato in proporzione al numero dei voti ottenuti da ogni partito nelle ultime elezioni), ed al punto c) (in Inghilterra i turni vengono stabiliti con accordi fra i partiti, ed il governo ha diritto alla prima e all'ultima trasmissione della campagna elettorale) - sono differenze giustificate dal fatto che in Italia non abbiamo il sistema bipartitico, mentre il basso livello di educazione politica del nostro popolo rende necessario provvedere ad una più salda difesa della minoranze.
Con queste proposte intendiamo solo indicare una strada per avvicinarci alla meta; ma anche altre strade sono possibili. L'importante è di non accontentarci di soluzioni fasulle e di saper scegliere mezzi consentanei al fine che ci proponiamo: una RAI che sia veramente strumento di libertà e di democrazia.