(Carte Cattani)SOMMARIO: Due anni dopo il primo Congresso, il bilancio del neonato partito radicale può essere considerato "sostanzialmente positivo" se commisurato alla "effettiva consistenza" degli ostacoli incontrati. Il P.R. era nato su due temi politici, "i monopoli" e "la lotta al clericalismo". La sua nascita "concorse a rimettere in movimento" la politica italiana: il partito socialista ha acquisito una nuova "autonomia", e lo stesso partito radicale poté lanciare un appello per l'"alleanza di tutti i partiti della sinistra democratica" che, a cinque anni di distanza, non ha perso attualità. Si elencano quindi i cinque punti su cui avrebbe dovuto costituirsi tale alleanza "rinnovatrice". I temi di questo progetto hanno avuto una sede di analisi e di elaborazione nei convegni degli "Amici del Mondo", ed oggi costituiscono le "condizioni poste dai partiti della sinistra democratica alla DC" per il centro-sinistra. Occorre ormai, dunque, solo sviluppare la "alleanza tra forze affini", mentre nel paese la scissione soc
ialista, la "Domus Mariae" e la formazione dei governi Segni e Fanfani sono tutti segnali che confermano la sua necessità. Analizzando alcune critiche mosse al partito radicale sostiene che la politica di "alternativa" alla DC, mentre deve poter offrire una "politica di forza nei confronti della DC", non può e non deve essere una politica "frontista" (cioè aperta fino al PCI). Auspicare una tale politica è avere una visione "troppo pessimistica" della situazione italiana, la quale prefigura la "rottura del paese in due blocchi contrapposti". Il "centro-sinistra" è invece possibile e auspicabile, se saprà caratterizzarsi sui "tre punti programmatici" già ricordati. Il solo suo annuncio ha messo in moto resistenze fortissime, fino allo "sblocco extraparlamentare ed anticostituzionale della crisi". E non è nemmeno vero che il centro-sinistra ha significato "la cattura delle forze popolari da parte dei conservatori: i fatti del luglio '60, con il largo fronte unitario e antifascista formatosi, lo hanno dimostra
to. Il partito radicale si è poi opposto al governo Fanfani e ancor oggi è all'opposizione.
Segue un'analisi delle scelte politiche ed elettorali compiute dai radicali, in particolare ricordando il buon esito dell'alleanza con i socialisti per le amministrative. Dalle giunte di centro-sinistra occorre ora passare ad un governo più avanzato.
Si analizza quindi brevemente la politica estera, sottolineando nel ritorno al potere in USA dei democratici, nella crescita della distensione, nello sviluppo del processo di emancipazione dei popoli coloniali, fatti assai positivi, ed indicando nella politica verso il MEC il problema aperto più scottante, su cui il congresso dovrà decidere.
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Cari amici,
dopo due anni dal primo Congresso nazionale del nostro Partito ci troviamo ancora riuniti per tirare le somme di quello che in questo periodo così difficile, pieno di movimentate vicende, di pericoli e di speranze per la vita democratica del nostro Paese, il partito radicale ha saputo realizzare. Penso, che senza voler sopravvalutare il contributo che i radicali hanno dato alla vita politica italiana, si possa guardare a questi due anni con l'animo sereno di chi ha assolto con pochi mezzi ma con ferma decisione, un compito estremamente gravoso. Il compito di rappresentare nella democrazia italiana assediata da vecchie e nuove ipoteche confessionali e totalitarie, e da pesanti interessi conservatori, la concezione di un libero ordinamento che si possa conciliare con le aspirazioni sociali di un paese moderno.
Ebbene, amici, il bilancio che oggi vi sottoponiamo, se non può lasciarci completamente appagati, è tuttavia tale da farci ritenere che su di esso si possa formulare con tranquilla coscienza un giudizio sostanzialmente positivo.
Una tale valutazione non può ovviamente essere commisurata con le speranze ed i desideri che ciascuno di noi legittimamente ha per l'avvenire del nostro partito, ma piuttosto alla realtà nella quale noi ci siano trovati ad operare, alla effettiva consistenza degli ostacoli di ogni ordine che abbiamo dovuto superare, al peso massiccio delle altre forze politiche che avevamo di fronte ed all'esiguità dei mezzi a nostra disposizione; infine al contesto generale della società italiana. Un contesto in cui, alle deficienze di carattere organico che hanno accompagnato il nostro paese sin dal suo costituirsi a Stato nazionale, si aggiungono nuovi squilibri derivanti dal formarsi di un'economia monopolistica, che ha il suo riflesso sociale nella creazione di zone di privilegio accanto ad altre non meno vaste zone di miseria, e che si ripercuotono sulla vita politica, ostacolandone il suo naturale sviluppo e soffocandolo entro una rete di interessi di conservazione.
Che queste moderne forze della conservazione economica e sociale abbiano stretto una naturale alleanza con gruppi clericali che rappresentano in Italia le ragioni storiche della conservazione morale e politica rispondeva alla logica delle cose e non è un fatto nuovo. Non è cosa nuova perché l'alleanza tra il capitalismo monopolistico, nella sua forma moderna, ed il clericalismo ha già in Italia una storia di parecchi decenni.
Precisamente da questa diagnosi, sulla quale uomini di varia formazione intellettuale e di diversa provenienza politica si trovarono concordi, nacque cinque anni fa il Partito radicale. E non è un caso che i temi politici dai quali, sin dall'inizio, fu caratterizzata la nostra battaglia siano stati quelli della lotta contro i monopoli e quello della lotta al clericalismo. E non è neppure un caso che, parallelamente a questo giudizio sulle forze della conservazione economica e spirituale, si trovi alle origini del Partito radicale un preciso giudizio sul centrismo, che costituisce, secondo noi, la formula politica più di ogni altra adatta a coprire e tutelare gli interessi conservatori e clericali.
La spinta data dal Partito radicale concorse a rimettere in movimento tutta la situazione politica italiana. Il primo passo su questa via fu la rottura della coalizione centrista da parte del Partito repubblicano. Successivamente, e traendo in parte occasione dalla crisi del mondo comunista, si accentuò il processo attraverso il quale il Partito socialista tendeva ad acquistare sempre maggior coscienza di una propria autonoma posizione, processo che i radicali salutarono immediatamente come un fatto altamente positivo per la democrazia italiana.
Sul partito socialista, sulle garanzie democratiche che esso forniva, sulle sue capacità di assolvere in modo responsabile ai compiti che, come partito più forte della sinistra democratica, gli spettano, noi demmo allora un giudizio nettamente positivo, che il Congresso di Venezia prima, quello di Napoli poi ed infine il Congresso di Milano hanno costantemente confermato. Quel giudizio ci valse allora un'accusa di avventatezza politica da parte di amici a noi vicini. Oggi questi amici danno sul PSI un giudizio sostanzialmente non diverso dal nostro ed hanno compreso di quale effettiva avventatezza politica si siano resi colpevoli tutti quei democratici che hanno durante questi anni consentito la commedia delle "garanzie democratiche" da chiedersi al partito socialista.
Intorno a questi elementi, costituiti dall'autonomia socialista, dalla definitiva condanna del centrismo da parte dei repubblicani e, sia pure con molte contraddizioni ed incertezze, da parte dei socialdemocratici, dalla individuazione infine della alleanza organica tra il capitalismo monopolistico ed il clericalismo, cominciava a designarsi concretamente una posizione di alternativa democratica alla politica sostanzialmente conservatrice prevalente nel nostro Paese. Si trattava di sollecitare le forze della sinistra democratica e socialista e le correnti più avanzate della Democrazia Cristiana a rompere la situazione stagnante della vita politica italiana e a trovare la via di un rinnovamento democratico.
Questa fu la linea politica che il nostro partito si dette fino dai primi giorni della sua fondazione. Sollecitare e favorire la formazione di una forza nuova al di fuori e contro gli schieramenti che allora bloccavano ogni possibile sviluppo della democrazia italiana fu la direttiva di marcia che ci siamo imposti e che abbiamo fedelmente seguito. Indipendentemente dai risultati che in oltre cinque anni di impegno politico il nostro partito può aver raggiunto, nessuno, crediamo, potrà contestarci la coerenza con la quale abbiamo operato. L'alleanza di tutti i partiti della sinistra democratica era per noi lo strumento indispensabile per rinnovare le condizioni politiche, economiche e sociali del paese ed a questo scopo il nostro comitato centrale lanciò a Torino, l'8 dicembre 1956, un appello ai partiti repubblicano, socialdemocratico e socialista perché si unissero in uno sforzo comune allo scopo di consolidare la democrazia e di imprimere una spinta rinnovatrice alla politica italiana. Allora indicammo qua
li, a nostro parere, dovevano essere i punti per una larga intesa democratica e gli obiettivi di un'azione concorde. Non è inutile ricordare quali furono le indicazioni che formulammo in quel documento:
1) Piena attuazione dei diritti di libertà scaturiti dalla Carta Costituzionale ed eliminazione dei residui di legislazione fascista che sottopongono tuttora i cittadini agli arbitrii del potere esecutivo;
2) Opposizione all'invadenza clericale nei più delicati settori della vita del paese in difesa del carattere laico dello stesso;
3) Attuazione di una moderna legislazione antimonopolistica che ponga tutti gli operatori in equivalenti posizioni di partenza per la produzione del reddito e l'acquisizione della ricchezza; nazionalizzazione delle fonti di energia;
4) Politica economica di pieno impiego e di aumento del reddito specialmente nelle zone depresse del paese, da attuare mediante le compressioni delle spese superflue, l'eliminazione dei sovraprofitti di monopolio e di congiuntura, il contenimento degli incrementi di reddito e delle provvidenze dei lavoratori già occupati a favore di quelli non occupati o sottoccupati;
5) Politica estera di unità europea diretta al rafforzamento ed all'allargamento della solidarietà occidentale.
Vedete, amici, come questi problemi non hanno perduto a cinque anni di distanza nulla della loro validità. Sono punti essenziali su cui ruota senza riuscire a trovare una soluzione la politica italiana. Che noi allora toccassimo in questo modo i problemi di fondo della società italiana fu ampiamente provato quando si trattò di affrontarne in modo concreto la definizione. Ogni volta che venivano posti alla base di una trattativa per una svolta della direzione politica del paese si è ricreato contro le soluzioni da noi proposte il fronte delle forze conservatrici che, per difendere i loro interessi e privilegi, non hanno esitato a mettere in pericolo il fondamento stesso della nostra pur debole democrazia.
Su queste scelte abbiamo basato la politica che prese il nome di alternativa democratica. A questa politica riteniamo di essere rimasti costantemente fedeli.
Non è fuori luogo ricordare infatti che la nostra opposizione di allora non fu soltanto contro il centrismo ma anche contro il frontismo, nel quale ritenevamo di individuare l'altro pilastro su cui si reggeva l'equilibrio conservatore. Il risultato principale della nostra azione politica fu proprio quello di aver contribuito a determinare la rottura di quell'equilibrio ed in questo senso possiamo affermare che notevoli passi avanti sono stati compiuti nel processo di chiarificazione della politica italiana.
La progressiva affermazione autonomistica del partito socialista, la maggiore coscienza laica acquistata nel corso di questi anni dalla sinistra democratica e in particolare dai repubblicani costituiscono le premesse per un'azione concreta contro le forze della conservazione e i pericoli del totalitarismo comunista.
Il programma che ci siamo dati e che abbiamo indicato alle forze della sinistra democratica come piattaforma di un'azione politica, è il frutto di una serie di indagini approfondite sui principali problemi della società italiana. I temi elaborati e discussi attraverso commissioni di studio e nei convegni degli Amici del Mondo non sono rimasti fine a se stessi ma si sono conclusi molto spesso nella elaborazione di precisi progetti di legge: quello sui monopoli, sulle società per azioni, sugli idrocarburi, sulla nazionalizzazione dell'energia elettrica, sui mercati generali, sulla speculazione edilizia, sulla borsa, sulla difesa della scuola laica, sulla libertà di stampa e l'indipendenza della RAI-TV, e così via.
Non ci siamo preoccupati finora di compilare un programma che fosse un semplice prontuario di formule ad uso puramente propagandistico che, come avrebbe osservato Gaetano Salvemini, "spiegano tutto e non dicono nulla". Abbiamo pensato invece che fosse più efficace e più aderente alla natura del nostro partito fare un'analisi quanto più possibile approfondita e completa dei problemi che di volta in volta si presentano all'attenzione dell'opinione pubblica e che costituiscono altrettante scelte per un radicale mutamento politico e sociale.
Possiamo però dai singoli temi affrontati e dalle soluzioni proposte individuare un filo logico da cui si può desumere il contenuto ideologico del nostro partito. Una delle caratteristiche più evidenti è quella di non essere legati ad interessi di classe o di categoria, ma di considerare i problemi della società italiana nel loro complesso, indicando soluzioni di carattere generale e non a vantaggio di settori determinati. La nostra concezione di politica economica non è legata in modo particolare alle correnti e tendenze tradizionali. Noi rifiutiamo il liberalismo capitalistico e siamo egualmente lontani dallo stalinismo marxista e dal corporativismo cattolico. Crediamo ancora nella spinta creatrice della iniziativa privata, ma sollecitiamo nello stesso tempo l'intervento dello Stato, sia in funzione di gestione diretta dei servizi di pubblica utilità, con particolare riferimento alle fonti energetiche, e sia in funzione di controllo per impedire il prevalere di gruppi monopolistici sulla libera economia di
mercato a tutela dei consumatori, degli utenti, e della massa dei piccoli azionisti delle grandi società per azioni. Gran parte di questi temi hanno formato oggetto di convegni degli "Amici del Mondo", cui hanno partecipato uomini nostri e le cui conclusioni sono state accolte dal partito.
Riteniamo tuttavia che il Congresso anche su questo punto dovrà esprimere orientamenti e fornire indicazioni che già dai dibattiti precongressuali sono affiorati. Dovrà pronunciarsi sulla politica agraria, sul problema della sicurezza sociale così vivo e pungente nel mondo moderno.
Che le soluzioni da noi proposte nel corso di questi cinque anni non fossero delle formulazioni astratte e velleitarie è dimostrato dal fatto che proprio dal loro complesso furono tratte le condizioni poste dai partiti della sinistra democratica alla DC quando si trattò di formare un governo di centro-sinistra. Allora repubblicani, socialdemocratici e socialisti rappresentarono insieme a noi una forza sufficientemente omogenea, capace di imporre al partito di maggioranza le sue condizioni. E' una dimostrazione questa, amici, della bontà della nostra tesi quando con costanza, direi quasi con ostinazione, sosteniamo l'accordo dei partiti democratici laici. Tale accordo a nostro avviso è la chiave di volta per scardinare il sistema di conservazione sociale, di corruzione pubblica, di conformismo e di progressiva involuzione della politica italiana. L'alleanza fra le forze affini è a nostro avviso una condizione indispensabile sia per costringere la democrazia cristiana a venire a patti sia per costituire un eff
icace fronte di opposizione. Chiunque abbia seguito le vicende politiche di questi ultimi anni non potrà non convenire che, quando i partiti della sinistra democratica hanno agito insieme, i risultati sono stati positivi mentre il loro disaccordo ha favorito il predominio della democrazia cristiana e un aumento di voti per il partito comunista. Questa è la nostra convinzione più profonda e l'indicazione politica con la quale si concluse il nostro primo congresso. Due anni sono trascorsi da quel congresso che rappresentò, malgrado le apprensioni e le incertezze della vigilia, una netta ripresa del nostro partito. Nella mozione finale approvata a larghissima maggioranza si riaffermava "che lo strumento politico per offrire un'alternativa al nostro paese fosse una grande alleanza di sinistra democratica, che costringesse insieme tutte le forze di democrazia laica e socialista pur nelle rispettive differenze ideologiche e nella rispettiva autonomia organizzativa".
Qual'era allora la situazione politica che ci trovavamo di fronte? Era da poco caduto il governo presieduto dall'on. Fanfani con la partecipazione dei socialdemocratici e l'appoggio esterno dei repubblicani. Alla sua caduta non furono estranei due avvenimenti politici di notevole importanza: la vittoria degli autonomisti al congresso socialista di Napoli e la scissione della sinistra del PSDI. Il nostro giudizio sull'esperimento attuato da Fanfani era stato decisamente negativo. La formula su cui si reggeva era un elemento di divisione delle forze della sinistra democratica anche se l'esclusione dei liberali poteva trarre in inganno qualcuno sulla sua reale natura. In realtà il governo Fanfani rappresentava un esperimento di riformismo paternalista incapace di risolvere i problemi di fondo del paese anche perché, nato in posizione avversa al partito socialista, escludeva dalla direzione del paese proprio quelle forze che avrebbero potuto dare una spinta progressiva alla politica italiana. I risultati del con
gresso di Napoli e la scissione socialdemocratica finirono per togliere del tutto quella patina di sinistrismo con la quale si era presentato al Parlamento; l'elemento determinante della sua caduta fu tuttavia l'azione dei franchi tiratori cioè l'ostilità delle correnti di destra dello stesso partito di maggioranza. E' una riprova che i gruppi clericali e conservatori, le forze di destra che operano all'interno e fuori del Parlamento si spaventano anche di fronte ad una soluzione che di sinistra ha soltanto l'etichetta.
Con la caduta del governo Fanfani si apre un periodo di netta involuzione a destra della situazione politica italiana. La crisi che ne seguì, il pronunciamento della Domus Mariae, servirono tuttavia ad operare un primo chiarimento all'interno della Democrazia cristiana. Il successivo governo monocolore Segni appoggiato da tutta la destra parlamentare, liberali, monarchici e fascisti, dai grossi interessi della confindustria e dall'episcopato più reazionario (non a caso fu definito il governo vicario dei monopoli e dei gruppi clericali) contribuì ancora di più a chiarire il gioco delle forze pubbliche; un chiarimento che avrebbe potuto portare a risultati decisivi e che possiamo considerare ancora in corso. L'arroccamento della destra economica e politica ebbe come conseguenza l'effetto di allineare i partiti della sinistra democratica in un fronte di opposizione e di incoraggiare le correnti più avanzate della DC a ribellarsi contro i gruppi conservatori del loro partito.
L'urto fra le correnti, esploso per la prima volta in modo clamoroso al congresso di Firenze, rivelò le profonde contraddizioni di quel partito in cui convivono tendenze economiche e politiche diametralmente opposte. La situazione era ormai matura per costringere la democrazia cristiana a uscire dalle formule equivoche che le hanno consentito in dodici anni di maggioranza parlamentare di eludere ogni aperta scelta politica. Alle sollecitazioni della sinistra democratica si aggiungevano dal lato opposto pressioni e ricatti della destra parlamentare. Così che quando i liberali, nel tentativo di uscire dalla posizione precaria di inutili e gratuiti sostenitori del governo, provocarono la crisi, la DC si trovò di fronte ad una scelta decisiva. Gli avvenimenti che seguirono dimostrarono la forza di cui possono disporre i partiti democratici quando operano uniti. La DC è costretta a venire a patti poiché le è impossibile formare un governo soltanto con liberali e monarchici senza correre il rischio di gravose ribe
llioni nella sua base popolare.
Le vicende di quel periodo sono a voi troppo note per ricordarne i particolari. Vale la pena però di sottolineare quello che fu l'elemento nuovo di quella crisi e cioè l'apertura formale di una trattativa per la costituzione di un governo fra la direzione della democrazia cristiana e il partito socialista alleato agli altri partiti della sinistra democratica. E' inoltre motivo di soddisfazione ricordare che gli organi ufficiali della democrazia cristiana, nel dare incarico prima a Segni e poi a Fanfani di costituire un governo di centro sinistra, finirono per accettare le condizioni imposte dai partiti laici e che erano state poste all'attenzione del paese per iniziativa del Partito radicale. Le condizioni come voi ricorderete erano allora la nazionalizzazione dell'energia elettrica di cui proprio in quei giorni ci eravamo occupati in un convegno degli Amici del Mondo che ebbe un immediato strascico alla RAI tra gli amici Piccardi e Scalfari e i rappresentanti della EDISON; un altro punto era l'attuazione de
lle regioni che i radicali hanno sempre considerato elemento necessario per una migliore articolazione di un sistema democratico; infine la difesa della scuola pubblica. Quest'ultimo è un problema che ci sta particolarmente a cuore; su di esso i radicali assunsero un atteggiamento molto deciso, facendo chiaramente intendere che la scuola non avrebbe mai potuto essere oggetto di baratto.
L'ispirazione che noi abbiamo dato alla politica di centro sinistra ha dato luogo ad una serie di discussioni e di polemiche anche all'interno del nostro partito. S'è creduto d'individuare nella denominazione "apertura a sinistra" un abbandono della politica di alternativa da noi enunciata sin dalle origini e riaffermata anche dal primo congresso. S'è detto che il partito radicale e le altre forze della sinistra democratica e socialista avrebbero così abdicato alla loro funzione; avrebbero rinunciato a creare una forza capace di sostituire l'attuale maggioranza parlamentare e di governo.
Queste critiche, partendo da un giudizio che sotto certi aspetti può sembrare comune, in realtà si articolano in due posizioni diverse se non contrapposte. La prima, proclamando la necessità di un ritorno, come si è detto alle origini, rimprovera al partito d'aver deviato dalla sua linea iniziale. Il partito, si dice, sarebbe nato per una lotta frontale contro la democrazia cristiana e per offrire al paese un'alternativa democratica. D'accordo. Definiamo però cosa s'intende per alternativa democratica che, nel linguaggio politico, s'è prestata ad equivoci e confusioni. Alternativa democratica è un'impostazione di fondo che scaturisce dal giudizio negativo sulla politica seguita dai partiti democratici dal 1949 in poi; politica di destra con l'etichetta di centro democratico, asservimento dei partiti minori alla DC. Tutti i tentativi della sinistra democratica per dare un impulso progressivo alla politica centrista naufragarono, a suo tempo, di fronte alla forza massiccia e alla volontà di dominio della Democ
razia cristiana.
Alternativa democratica ha voluto significare, e tuttora significa, rovesciamento di quella politica; alleanza delle forze della sinistra democratica liberate dalla sudditanza della DC; inserimento del Partito socialista, ormai autonomo, nello schieramento democratico per una politica di forza nei confronti della democrazia cristiana.
Era chiaro che la formula alternativa democratica presupponeva due posizioni ferme: 1· nessuna confusione con una politica di tipo frontista: e la denominazione alternativa democratica voleva dire proprio questo; 2· il rifiuto di farsi attirare nel gioco di una politica centrista, sostanzialmente conservatrice. Di fronte a queste posizioni tocca alla DC dire se è disposta ad accettarle o se le respinge. Nel primo caso la democrazia cristiana non potrà non capovolgere la politica fin qui seguita: soltanto un coraggioso programma di rinnovamento democratico economico e morale potrebbe portare ad una sua intesa con le forze laiche sul piano nazionale. Nel caso opposto, se cioè la DC persistesse nel suo rifiuto, è chiaro che non potrebbe a lungo mantenersi nell'equivoco dei centrismi mascherati, delle convergenze ecc. la sua scelta sarebbe a destra e sarebbe una scelta definitiva. L'apertura a sinistra, che è quindi uno degli aspetti dell'alternativa democratica, riguarda soltanto ed esclusivamente la DC e la s
ua capacità o la sua volontà di aprire a sinistra. E' la DC che deve decidersi. Se non lo farà dovrà risponderne di fronte al paese. Questa ipotesi non ci troverebbe impreparati: la nostra battaglia continuerà sulle stesse posizioni che in questi cinque anni abbiamo tenuto senza farci illusioni né senza aver risparmiato colpi contro il malgoverno e la degenerazione clericale.
Altro discorso va fatto per la seconda posizione critica che, partendo dalle stesse premesse dell'altra, giunge a conclusioni che contraddicono proprio l'impostazione di alternativa democratica e la confondono con la tipica politica del partito comunista; politica che ieri si chiamava frontista e che oggi, eufemisticamente, si definisce unitaria.
Alcuni nostri amici sono convinti, a quel che sembra, che non solo la DC, in tutte le sue correnti, incontri tali limiti e resistenze nel mondo ecclesiastico da non consentirle di operare alcuna scelta se non a destra, il che può essere anche plausibile; ma ritengono che le forze della sinistra democratica, anche se unite e compatte in una politica di risoluta opposizione, non siano capaci di fronteggiare la DC se non sul piano di una azione comune con il partito comunista.
E' questa una visione secondo noi troppo pessimistica della situazione politica italiana. Chi ingenuamente la condivide ha già dato per scontato il fallimento dell'alternativa democratica e la rottura del paese in due blocchi contrapposti, entrambi irriducibili e illiberali.
In realtà la prospettiva politica di un governo di centro sinistra a cui ci siamo trovati di fronte nel marzo del 1960 si era verificata in seguito ad una azione autonoma del partito socialista il quale, rompendo con la sua tradizionale posizione, si dichiarava disponibile per dare il proprio contributo ad una nuova direzione del paese. Di fronte a questo fatto nuovo nella storia italiana il Partito radicale non poteva rimanere indifferente ma sentiva il dovere di contribuire a determinarne le condizioni. Il nostro impegno fu rivolto a far sì che l'operazione corrispondesse ad un reale progresso politico e sociale; perciò abbiamo chiesto che il nuovo governo si qualificasse sui tre punti programmatici che vi abbiamo già ricordato e non su generiche dichiarazioni di buona volontà. Possiamo affermare che l'accordo raggiunto in quell'occasione tra tutti i partiti democratici della sinistra coronava un'azione politica da noi constantemente perseguita, e alla luce degli avvenimenti successivi val la pena di sotto
lineare una importante constatazione e cioè che all'unità dei laici corrispondeva fatalmente la disunione e la debolezza della democrazia cristiana. Si trattava di un avvenimento che poteva avere conseguenze forse decisive per l'avvenire del nostro paese e se ne resero ben conto anche le forze ed i partiti della destra italiana.
L'atteggiamento unitario che allora assunsero i partiti della sinistra laica e socialista gettò lo sgomento nelle file di tutta la destra conservatrice e clericale. Si mossero le gerarchie ecclesiastiche e i grossi interessi monopolistici. Si parlò di casi di coscienza all'interno della democrazia cristiana e di fronte a pressioni, minacce e ricatti, frutto di esasperate paure, gli uomini politici designati dalla segreteria della DC a formare un governo di centro sinistra dovettero rinunciare ad attuare un'operazione per la quale era stato raggiunto un accordo fra le segreterie dei partiti e per la quale esisteva una larga maggioranza parlamentare. Val la pena di ricordare come in quell'occasione i liberali facessero esplicitamente appello all'intervento delle alte gerarchie ecclesiastiche, gettando così definitivamente in soffitta gli ultimi residui di una gloriosa tradizione risorgimentale. Non è per ragioni polemiche che abbiamo ricordato questo episodio ma per sottolineare come tutte le forze conservatri
ci, che amano così spesso atteggiarsi a custodi della legittimità democratica, siano pronte, ogni volta che grossi interessi sono messi in pericolo da una spinta popolare e progressista, a ricorrere a mezzi anticostituzionali e a mettere a repentaglio la vita stessa delle istituzioni. E ciò che si può considerare più grave, e conferma la nostra diagnosi di fondo, fu lo sblocco extraparlamentare ed anticostituzionale della crisi conclusa in modo innaturale per opera di forze estranee al normale gioco democratico.
Un'altra cosa va messa in evidenza. La prospettiva del centro sinistra non provocò quelle conseguenze che i comunisti attribuiscono ad un machiavellico disegno della destra: la cattura cioè delle forze popolari nella rete di una politica sostanzialmente conservatrice. Avvenne precisamente il contrario. Si ripetè anche nel marzo del '60 un fenomeno ricorrente nella storia del nostro paese: la borghesia conservatrice che si trasforma in forza eversiva tutte le volte che una politica di grandi riforme minaccia di concretarsi. L'esperimento Tambroni infatti può considerarsi un'avventura di tipo sud americano, un elemento di rottura del normale equilibrio democratico. I fatti di luglio ne furono la fatale conseguenza. In quell'occasione il Partito radicale partecipò in prima fila ai moti popolari contro le provocazioni di tipo fascista e gli atteggiamenti minacciosi per le libertà democratiche assunti dal governo Tambroni. Allora ci trovammo a fianco anche dei comunisti e possiamo dichiarare con tranquilla cosci
enza che non respingeremo mai il loro aiuto ogni volta che si tratti di difendere la repubblica dall'offensiva reazionaria e fascista. Fu quello un grave momento di pericolo per la democrazia italiana e noi crediamo di avere assunto una posizione di consapevole responsabilità. Non c'è dubbio che il governo Fanfani nato in quella circostanza rappresentò una battuta di arresto nel processo di chiarificazione all'interno della Democrazia cristiana e più in generale del paese. Di ciò il Partito radicale si rese ben conto ed assunse un atteggiamento di estrema chiarezza dichiarando che quella formula governativa doveva considerarsi un'esperienza del tutto provvisoria, destinata a cessare con le elezioni amministrative del 6 novembre. In questo senso la Direzione Centrale emanò il 23 luglio un ordine del giorno che è opportuno ricordare integralmente:
»- indica nello schieramento di tutte le forze antifasciste e democratiche realizzatosi durante le drammatiche giornate che hanno preceduto le dimissioni del ministero Tambroni la manifestazione spontanea dei più profondi sentimenti del paese e dei suoi più alti valori ideali, a presidio e garanzia del patto costituzionale che il popolo italiano si è liberamente dato all'indomani della lotta di liberazione;
- considera la fine della squalificante alleanza parlamentare tra la DC e il neofascismo come la conseguenza della volontà manifestata dal popolo italiano, volontà che dovrà ora avere la sua ulteriore e piena attuazione con il ripudio degli accordi tra DC e MSI in tutte le amministrazioni locali;
- denuncia nella mancata soluzione di centro-sinistra, impedita nella scorsa primavera dagli intollerabili veti delle gerarchie ecclesiastiche e della destra economica, l'origine della crisi che si è ininterrottamente protratta e aggravata in questi ultimi mesi, fino a mettere in pericolo la stessa esistenza delle istituzioni democratiche;
- ritiene che il governo monocolore in corso di formazione in tanto potrà contribuire ad una ripresa democratica in quanto abbia piena consapevolezza dei suoi limiti e della transitorietà. Primo dovere di tale governo è la restaurazione delle pubbliche libertà da lungo tempo insidiate e recentemente soffocate dalle repressioni poliziesche delle scorse settimane, e il ripristino della legalità costituzionale;
- fa voti affinché venga al più presto approvata la riforma in senso proporzionale della legge per le elezioni dei consigli provinciali, in modo che sia possibile effettuare le elezioni amministrative entro il prossimo autunno .
Al di là di questa fase di tregua e d'emergenza rimangono tuttavia i problemi di fondo del paese. Ogni manovra tendente a rinviare la loro soluzione e le relative scelte politiche costituirebbe una grave involuzione, col rischio di ricondurre il paese nello stesso stato di crisi dal quale soltanto ora sembra faticosamente emergere.
In tali circostanze la Direzione centrale del Partito radicale fa appello ai partiti della sinistra democratica, repubblicano, socialdemocratico e socialista, affinché si mantengano vigilanti e preparino, con azione concorde, il necessario sviluppo della situazione politica.
E' con questo spirito che noi non ci opponemmo allora alla formazione del governo di tregua e di emergenza presieduto dall'on. Fanfani. Ma ci siamo ripetutamente opposti attraverso ordini del giorno dei nostri organi ufficiali, attraverso dichiarazioni dei nostri esponenti e con tutti i mezzi a nostra disposizione al perdurare di una coalizione governativa che dopo il 6 novembre non aveva più ragione di essere. Non ci siamo mai sentiti partecipi della formula delle convergenze, con la quale si vuole rendere stabile un governo destinato a limiti di tempo ben precisi. In realtà questa formula ha introdotto un nuovo motivo di confusione e di equivoco. Attraverso questo espediente infatti, la Democrazia Cristiana è riuscita a dividere ancora una volta le forze della sinistra democratica a tutto suo vantaggio. E' evidente il tentativo della D.C. di rinviare all'infinito una soluzione che già nel marzo dell'anno scorso appariva matura. E' naturale che i dirigenti della Democrazia cristiana aspirino a ricostituire
sotto qualsiasi forma ed etichetta il vecchio equilibrio quadripartito, uno schieramento cioè che le ha sempre consentito, evitando di assumere un impegno politico preciso, di non perdere voti alle sue ali di destra e di sinistra. Del resto, oltre che per questi motivi di fondo, non possiamo non dichiararci all'opposizione di questo governo il quale, e non poteva essere diversamente, non è in condizioni di affrontare e risolvere alcun problema. Abbiamo assistito invece a una serie di atteggiamenti demagogici, di azioni illiberali, di interventi polizieschi; la vita del paese appare di nuovo avvolta in un'atmosfera di torpore e di conformismo. Alcuni episodi ci richiamano ai pericoli peggiori del regime democristiano: inasprimento della censura teatrale e cinematografica, massicci interventi a danno della scuola pubblica, sistemi autoritari di cui l'evento più clamoroso è costituito dai recenti fatti di Modena. Sembrerebbe che il ministro Scelba non voglia apparire più liberale del reazionario Tambroni. Il fa
tto più grave è l'assalto alla sciola di Stato che proprio durante il governo Fanfani ha assunto proporzioni allarmanti. In queste condizioni non abbiamo mancato di richiamare socialdemocratici e repubblicani alla responsabilità che si assumono consentendo alla Democrazia Cristiana di guadagnare tempo, di rinviare ogni soluzione, di tentare sotto un'altra forma di ricostituire il vecchio quadripartito, cioè quell'equilibrio conservatore sul quale ha fondato le sue fortune elettorali. Se il gioco degli esponenti del partito di maggioranza si realizzasse la vita politica italiana ritornerebbe indietro di cinque anni.
Non condividiamo le preoccupazioni manifestate da qualcuno su una immediata apertura della crisi in un periodo in cui il presidente della Repubblica ha il potere di sciogliere le Camere. E ci sembra inaccettabile la tesi dell'on. Saragat che non sarebbe possibile aprire una crisi quando il Presidente Gronchi non potrà più esercitare tali poteri. Ciò significa negare un fatto incontrovertibile: che esiste una larga maggioranza parlamentare per un governo di centro sinistra, malgrado i tentativi di stendere ancora una volta un cordone sanitario intorno al partito socialista. Riteniamo che questo Congresso non potrà che confermare il giudizio negativo espresso dal partito sull'attuale formula governativa e che rinnoverà un appello agli uomini che dirigono la politica del PRI e del PSDI perché si rendano conto delle gravi responsabilità che si assumono sostenendo un governo che non risponde alle aspettative del paese. Appello che risponde all'esigenza fondamentale di ricostruire l'unità della sinistra democratic
a che le vicende di questi ultimi anni hanno confermato come il più valido strumento per realizzare una svolta democratica e progressista.
E' in questa prospettiva che noi abbiamo affrontato le nostre battaglie politiche. Su questa piattaforma ci eravamo decisi a scendere in campo durante le elezioni amministrative del '56, in uno schieramento articolato che comprendeva di volta in volta repubblicani, socialdemocratici e Unità popolare; con gli stessi intendimenti ci siamo presentati alle elezioni politiche del '58 alleati al partito repubblicano e proponendo per le elezioni del Senato un accordo tra PRI, PSI e PSDI. Nelle ultime competizioni elettorali, allorché la presenza del partito socialista diventava sempre più un elemento essenziale nella battaglia di rinnovamento che noi ci proponevamo, abbiamo stipulato col PSI un'alleanza politica prima in occasione delle elezioni regionali siciliane affrontate in condizioni per noi difficilissime e poi in sede nazionale per le amministrative del 6 novembre. A questa alleanza non contraddicevano quelle diverse posizioni elettorali assunte dal partito in città come Torino, Venezia, Bergamo, Messina, C
ampobasso, Gorizia e altrove, posizioni che contribuivano anzi a dare quella indicazione generale di apertura verso tutti i partiti della sinistra democratica che è stata la nostra costante preoccupazione.
L'alleanza col partito socialista nelle amministrative del 6 novembre si è svolta in un'atmosfera di reciproca lealtà e fiducia di cui siamo lieti di dare atto agli amici socialisti. Si è trattato di un impegno politico assunto con il pieno rispetto della nostra autonomia ideologica ed organizzativa. Ovunque abbiamo combattuto una battaglia comune per comuni obiettivi e ci sia lecito affermare che l'incontro fra un partito come il nostro di chiara ispirazione liberale con il partito socialista di origine e tradizioni marxista, ha rappresentato un fatto nuovo non soltanto in quelle elezioni ma nella storia politica del nostro paese.
I nostri candidati hanno riscosso ovunque la simpatia e la stima degli elettori come è apparso dalle posizioni conquistate nelle liste. I risultati possono essere considerati soddisfacenti, malgrado l'aspra campagna avversa dei comunisti da un lato e dei partiti di centro e di destra dall'altro. Quasi ovunque dove si sono presentati, i radicali sono riusciti eletti. Siamo lieti di porgere in questa occasione a tutti coloro che hanno combattuto questa battaglia, molto spesso con notevoli sacrifici, il saluto e il ringraziamento del partito.
I risultati della competizione elettorale hanno permesso di aprire una nuova fase nei rapporti fra i partiti democratici. Con le giunte di centro sinistra s'è rotto quel muro di diffidenze, di pregiudizi e di spirito conservatore storicamente eretto nei confronti dei partiti della classe operaia. La DC ha dovuto superare tutti gli ostacoli posti dall'ala destra del partito e i veti di carattere ideologico formulati dalla gerarchie ecclesiastiche. Mentre non sottovalutiamo gli aspetti obiettivamente positivi di una simile operazione che ha consentito di dare, specialmente ad alcune grandi città come Milano, Genova e Firenze, un indirizzo amministrativo di un chiaro significato politico, nello stesso tempo dobbiamo riconoscere i limiti di questo esperimento. E' bene precisare che data la natura squisitamente politica delle giunte di centro sinistra, l'operazione non può rimanere circoscritta ad alcune zone ne' limitata al settore puramente amministrativo, senza perdere alla lunga quel contenuto innovatore che
sta alla sua base. Essa deve necessariamente estendersi fino a determinare un mutamento generale nella direzione politica del paese; un mutamento che ormai appare chiaramente imposto dai fatti e la prova più evidente la possiamo riscontrare in Sicilia dove a causa dell'ostinazione della DC nel non voler riconoscere l'esistenza d'una effettiva maggioranza di centro sinistra, si protrae uno stato di crisi permanente. Un analogo discorso, tenuto conto delle debite differenze, può farsi per il Comune di Roma.
Ma se gli avvenimenti della politica interna hanno avuto in questi due anni un ritmo particolarmente serrato, tale da portare alla luce e rendere drammatici i complessi nodi della nostra vita democratica, anche la scena internazionale è profondamente mutata. Ed è mutata in senso globalmente positivo, anche se si sono verificate in questo periodo preoccupanti involuzioni nella democrazia europea e non soltanto europea, che sono destinate a rendere più difficile e gravido di pericolo e di tensioni l'equilibrio mondiale.
Diciamo che è mutata in senso positivo perché tre fatti di grande portata storica dischiudono per l'avvenire prospettive di progresso e di pace:
1) il nuovo corso della politica americana con il ritorno al potere del partito democratico;
2) il rafforzamento nel mondo comunista delle posizioni favorevoli alla distensione tra i blocchi;
3) il processo di emancipazione dei popoli coloniali.
Un fatto rilevante è a nostro giudizio il consolidamento nel mondo sovietico di quel processo che al suo sorgere ebbe il nome di "destalinizzazione", ma che è in realtà qualcosa di meno e nello stesso tempo molto di più. Di meno perché troppi sono ancora gli aspetti del sistema comunista che ricordano i metodi e la politica del defunto dittatore. Molto di più perché il processo a cui assistiamo non consiste soltanto nella sostituzione di un vecchio gruppo dirigente duro ed intransigente con un altro più aperto e duttile. Ma acquista il significato di una profonda trasformazione della società sovietica. In questo mutamento vi è un elemento irreversibile, costituito dal nuovo equilibrio economico, dal consolidarsi di un sistema di vita che lo sviluppo produttivo ha reso necessariamente più articolato e moderno. Non è un caso che all'interno del mondo comunista le posizioni più intransigenti siano tenute da quei paesi, come la Cina, che non hanno esaurito il momento rivoluzionario e devono ancora risolvere i gr
avissimi problemi di trasformazione in senso moderno di una società arretrata e medioevale.
Nel campo occidentale, l'avvento di Kennedy, che aveva impostato e vinto la sua campagna elettorale su temi di carattere schiettamente liberale e progressista, aveva suscitato grandi speranze in tutti i democratici. Queste speranze parvero gravemente compromesse in seguito all'infelice avventura cubana che sembrò ricalcare i peggiori momenti dell'Amministrazione Eisenhower. Su quell'episodio la Segreteria centrale assunse una posizione che non poteva non essere di aperta condanna dell'intervento americano contro il regime castrista. Era questa una posizione ispirata a quella concezione della libertà che deve essere alla base di ogni nostro atto; era una posizione che trovava ampio e confortante riscontro in tutti gli ambienti democratici più responsabili dell'Occidente e di cui lo stesso governo inglese, sia pure con quelle cautele che sono proprie dell'azione di un governo, si fece portatore, dando consigli di moderazione e di prudenza. Diciamo che ci confortò allora la reazione di tutta la parte sana dell'
opinione democratica dell'Occidente di fronte all'avventura cubana perché questo dimostrava appunto la capacità di ripresa del mondo democratico. I fatti hanno confermato quella nostra valutazione ed oggi l'episodio cubano appare circoscritto nei suoi reali limiti.
La politica degli Stati Uniti, malgrado gli occasionali sbandamenti che derivano anche dalla necessità di superate il passivo degli errori compiuti dalla precedente amministrazione, sembra avviata su una linea capace di ridare all'Occidente quell'iniziativa ideale di cui ha bisogno.
L'ingresso sulla scena internazionale di nuovi popoli usciti dallo stato coloniale apre nuovi problemi e richiede nuovi metodi per un radicale mutamento delle tradizionali concezioni di politica estera. Chi come noi trae la sua ispirazione dall'ideale della libertà non può non guardare con simpatia e con speranza al processo di liberazione dei popoli coloniali. Per questa ragione abbiamo considerato l'avvento di Kennedy com un fatto che dischiude molte speranze. Nella misura in cui l'Occidente saprà davvero accantonare la politica del sostegno ai regimi feudali e corrotti, saprà smettere, per usare una frase del presidente Kennedy, di puntare sistematicamente sul cavallo zoppo e saprà impegnare tutte le propri energie in un grande sforzo di liberazione dei popoli dalla miseria, dall'ignoranza e dall'arretratezza, la sfida pacifica contro il comunismo potrà essere affrontata con serenità e con fiducia.
Per sapere dove conduce l'altra strada, la strada della conservazione a tutti i costi, basta guardare l'esempio della Francia, che nell'ostinata e cieca difesa della propria sovranità sull'Algeria ha giuocato e perduto le libertà democratiche ed è scossa da minacciosi sussulti reazionari.
C'è ancora un altro punto sul quale numerosi amici hanno richiamato la nostra attenzione durante il dibattito precongressuale: la politica europeistica. Benché tra noi non si sia finora sviluppato un ampio dibattito sui temi della politica estera in quanto abbiamo preferito dare la precedenza a quei problemi di politica interna sui quali si definiva in maniera più precisa la nostra fisionomia, ci sembra che su questo punto il partito radicale abbia tenuto una condotta chiara e concreta.
Al di là di quelle che possono essere le speranze per un avvenire comune dei popoli europei, oggi le scelte concrete che si prospettano ad un partito riguardano i problemi che le istituzioni europee, il MEC in primo luogo, aprono per il mutamento conseguente della politica economica delle grandi industrie e per i pericoli di cartellizzazione su scala europea. Di fronte al Mercato Comune il nostro primo congresso prese una posizione che era nello stesso tempo di accettazione e di cautela. Noi accettavamo quanto nel Mercato Comune era legato alle necessità storiche dello sviluppo tecnico ed industriale; facevamo le nostre riserve sui pericoli insiti in questa politica economica se fosse stata condotta, come oggi è condotta, dalle forze di destra.
Il problema è dunque quello della direzione politica da dare alle istituzioni europee. In questo senso sarà utile e dovrà essere ricercato un collegamento con gli altri gruppi democratici della sinistra europea per studiare dei problemi comuni. Ma è questo un problema aperto sul quale il congresso dovrà dare una indicazione.
Cari amici, a conclusione del bilancio politico che, sia pure in modo necessariamente sommario, abbiamo tracciato si può affermare che la funzione del nostro partito si è rivelata non soltanto utile ma anche indispensabile allo sviluppo democratico e progressista del paese. La linea politica che abbiamo scelto e costantemente seguita può, e vorrei dire deve, suscitare ampie ed approfondite discussioni tra noi in quello spirito di equilibrio e di serenità che è la caratteristica dei nostri consessi. Allo scopo di rendere più ampia ed approfondita tale discussione, la segreteria, accogliendo una proposta avanzata nell'ultimo consiglio nazionale, ha istituito una tribuna precongressuale curata dal nostro ufficio stampa. In quella sede, a cui potevano intervenire tutti gli iscritti al partito, molti nostri amici hanno espresso il loro pensiero sulla politica e sul programma del partito dando vita ad un vivace e proficuo dibattito. Ma al di là delle diverse valutazioni che ciascuno di noi può fare su episodi part
icolari e contingenti che la realtà politica di volta in volta ci presenta, non si può non consentire sull'obiettivo finale verso il quale si muove il partito: un radicale mutamento delle condizioni economiche, sociali e politiche del nostro paese e l'istituzione di uno stato di libertà e di giustizia sociale. Occorre inserire alla direzione del paese nuove forze popolari e democratiche capaci di rompere il fronte degli interessi della conservazione economica e morale e restituire alla nostra democrazia quello slancio innovatore che può permettere di raggiungere col metodo della libertà le conquiste sociali a cui larghe masse di italiani aspirano.
Pensiamo che si può guardare con una certa soddisfazione al lavoro compiuto in questi due anni. Questo congresso trova il partito su basi più solide e sicure di quello che non fosse alla fine di febbraio del 1959 quando tenemmo la prima assise nazionale del partito. Uscivamo allora da una campagna elettorale che ci aveva procurato delusioni e amarezze. I risultati erano stati inadeguati allo sforzo compiuto con intelligenza, spirito di sacrificio ed abnegazione dagli amici che avevano diretto il partito fino a quel momento e da tutti gli iscritti che s'erano battuti prima e durante la campagna elettorale per l'affermazione dei nostri princìpi. Tuttavia, nonostante le incertezze e le comprensibili perplessità che in varia misura affiorarono, il partito allora riaffermò la sua volontà di proseguire nella sua azione politica e consolidare la sua organizzazione. In questi due anni il partito è cresciuto politicamente, si è inserito in modo concreto nella vita del paese attraverso quella rappresentanza comunale c
he si è creata in seguito alle elezioni amministrative e va via via aumentando la sua forza nella coscienza degli iscritti e il suo prestigio ovunque. Un rigoglio imprevisto hanno avuto le numerose iniziative di carattere giornalistico sorte un po' in tutte le regioni d'Italia e condotte con successo e spesso con notevole sacrificio dai nostri iscritti.
Cari amici, consentiteci di concludere la nostra relazione con l'augurio che questo congresso svolga i sui lavori in un ampio e fecondo dibattito sui temi che ci stanno a cuore di cui abbiamo cercato di offrirvi alcuni spunti.
Con la certezza che le idee, i programmi, le battaglie del nostro partito diventino patrimonio d'una parte sempre più larga dell'opinione pubblica del paese nasce l'augurio che da questo secondo congresso il partito tragga nuove energie per la dura e lunga strada che ancora ci sta dinanzi.