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Piccardi Leopoldo - 13 giugno 1961
LE IDEE E I FATTI
di Leopoldo Piccardi

SOMMARIO: Il dibattito svoltosi al II Congresso del partito radicale ha fatto comprendere che "qualcosa di nuovo è accaduto" che ha "assunto oggi una fisionomia chiara e definita". Ma la validità dei partiti politici si misura "dalla loro azione", e dunque è assai importante quella parte della mozione di maggioranza in cui si afferma che "la limitata funzione" assegnata al governo è ormai "esaurita". Il "quadripartito" ha finito il suo compito: sotto lo schermo di un "anticomunismo di comodo" esso ha visto aumentare il peso "degli interessi di conservazione" e clericali. Dunque, oggi, le forze democratiche possono e devono porsi l'obiettivo di combattere "il monopolio democristiano del potere".

Da queste premesse è nata la costituzione a partito dei radicali. Fino a quel momento, l'opposizione era riservata a comunisti e socialisti, dalle tendenze democratiche poco chiare e definite. Oggi, all'opposizione vi è una forza chiaramente democratica. Da questa posizione, nel 1956, i radicali rivolgevano un appello alle forze laiche per la creazione di una grande forza di "sinistra democratica". E se la mèta finale è ancora lontana, non vi è dubbio che in quelle forze sono apparsi segni nuovi e interessanti. Liberarsi del monopolio democristiano comporta anche sottrarsi al ricatto anticomunista e non rifiutarsi di combattere battaglie a fianco delle sinistre.

Ebbene, il II Congresso del partito ha dato conferma dei nuovi principi da cui il partito si muove, e che portano alla scelta dell'"alternativa", o della "apertura a sinistra": una scelta che può portare, senza pregiudiziali, sia alla opposizione che ad una nuova collaborazione alla DC. Nelle ultime elezioni amministrative, questa politica di apertura ha portato alcuni frutti (le giunte di "centro-sinistra"), ma senza un significato politico "generale", mentre si è accentuato per contraccolpo il carattere centrista del governo. Ciò deve confermare i radicali nella loro politica di intransigente opposizione al governo Fanfani.

(IL MONDO, 13 giugno 1961)

All'opinione pubblica non è sfuggito l'interesse del dibattito che si è svolto nel secondo congresso del Partito Radicale. Le voci che vi si sono intese, il linguaggio che vi si è parlato, la volontà che vi ha trovato espressione, hanno fatto comprendere che qualcosa di nuovo è accaduto nello schieramento politico italiano; qualcosa che si andava preparando da alcuni anni, attraverso un processo che non era sfuggito ai più attenti osservatori, ma che ha assunto oggi una fisionomia chiara e definita, così da non poter essere ignorato da nessuno. E' nata, in seno alla sinistra italiana, una nuova corrente che dimostra di saper unire la fedeltà ai principi con il realismo del giudizio, la continuità di una tradizione storica con la capacità di guardare all'avvenire.

Ma la validità delle posizioni dei partiti politici si misura soprattutto dalla loro azione, dalla volontà che essi sanno manifestare di fronte ai concreti sviluppi della situazione. E' dunque inevitabile che l'elemento principale di valutazione del PR, quale si è rivelato nel suo recente congresso, sia fornito da quella proposizione della mozione di maggioranza che, per questa parte, avrebbe potuto raccogliere il consenso unanime dell'assemblea, ove si riafferma quanto fin dallo scorso mese di novembre stanno dicendo i radicali, e cioè che la limitata funzione assegnata all'attuale governo dalle circostanze in cui esso è nato è ormai esaurita; che le forze democratiche italiane non possono più usare nei suoi confronti remore o tolleranze, senza porre a repentaglio le proprie ragioni di vita e senza compromettere le sorti della nostra democrazia.

L'atteggiamento che oggi assume il PR è pienamente coerente a quello che lo contraddistinse all'atto della sua costituzione. Anche se gli uomini confluiti nel PR erano animati da un comune sentire sui problemi di fondo del nostro paese e del mondo contemporaneo - e mai forse come in questo congresso abbiamo potuto constarlo - il partito nacque, come sempre accade, da una determinata concreta contingenza politica. Ma l'importanza di questa e il significato della posizione che i radicali, costituendosi a partito, presero di fronte ad essa, erano tali da costituire una garanzia di sostanziale unità della nuova formazione e delle sue permanenti ragioni di esistere.

Quella formula di collaborazione politica che aveva trovato nel cosiddetto quadripartito la sua più tipica espressione e che, nelle sue varie combinazioni, aveva fornito per alcuni anni una base ai vari governi succedutisi in Italia si era, nel giudizio dei radicali, ormai esaurita. Superata la situazione di immediato pericolo - fosse essa reale o frutto, in gran parte, di una spesso non disinteressata sopravalutazione - creata dallo slancio espansivo del comunismo internazionale, si rivelava sempre più l'inadeguatezza di qualsiasi posizione difensiva, e quindi sostanzialmente negativa, di fronte ai compiti che imponeva alle democrazie occidentali una competizione, a lungo termine, con il mondo comunista. D'altro lato, sotto lo schermo di un anticomunismo di comodo, veniva aumentando il peso degli interessi di conservazione, intimamente connessi, specie nel nostro paese, con quelli che le gerarchie ecclesiastiche ritengono propri della Chiesa Cattolica: donde l'affermarsi del predominio, sempre più schiaccia

nte, della Democrazia Cristiana. Era ormai venuto il momento, per le forze democratiche, di liberarsi da vincoli che le rendevano strumento di interessi confessionali e di conservazione, per riassumere una funzione rispondente alla loro ispirazione ideale. In questa nuova fase della loro azione politica, il loro primo compito non poteva non essere quello di combattere il monopolio democristiano del potere, interpretando così il diffuso malcontento popolare per l'atmosfera di malgoverno e di corruzione che stava sempre più gravando sulla vita pubblica italiana.

Da queste premesse scaturiva la posizione assunta dai radicali, con la loro costituzione a partito, la quale, per questo suo significato, ha segnato un momento importante nello sviluppo della situazione politica italiana. L'opposizione alla DC era stata fino allora, salvo la bella ma episodica sortita di Unità Popolare, riservata ai comunisti e ai socialisti, legati ai primi da una stretta alleanza politica. Per la prima volta, dunque, si costituiva un centro di lotta contro il monopolio democristiano del potere in un settore del quale non si poteva, nonostante qualsiasi artificio polemico, rifiutare l'appartenenza alla democrazia.

Partiti da questa posizione, non priva di originalità, i radicali hanno avuto il merito di non volerne fare la base esclusiva di una loro gretta politica di partito: tutti i loro sforzi sono anzi sempre stati diretti a far confluire su quella posizione tutte le forze democratiche laiche, che fossero o volessero rendersi libere da qualsiasi ipoteca comunista. Di qui l'appello che costituisce per il PR una pietra miliare della sua breve vita, con il quale i radicali si rivolgevano, nel dicembre 1956, ai repubblicani, ai socialdemocratici e ai socialisti, perché concorressero a creare una grande e articolata formazione di sinistra democratica. E se da questa meta, intesa quale formula di schieramento politico, siamo ancora ben lontani, non vi è dubbio che gli sforzi dei radicali abbiano concorso efficacemente a tracciare una linea politica intorno alla quale si svolge, con maggiore o minore coerenza, l'azione di quei quattro partiti. Il distacco dei repubblicani dalla maggioranza o, quanto meno, il loro rifiuto

di partecipare a formazioni governative; gli atteggiamenti di condanna, sia pure privi di continuità e spesso meramente verbali, assunti dagli organi direttivi del PSDI verso le formule centriste; il travaglio interno di quel partito, reso manifesto dalla scissione del MUIS e dal continuo germogliare di una nuova dissidenza a sinistra; e soprattutto il processo attraverso il quale il PSI è venuto acquistando una sempre maggiore coscienza della propria autonoma funzione: sono questi i momenti che permettono di considerare la linea indicata dai radicali con il loro appello alla sinistra democratica italiana come una delle direttrici di sviluppo della nostra vita politica.

Che quella linea non segnasse un facile cammino alle forze chiamata ad attuarla, ben sapevano i radicali fin da quando, per la prima volta, la proposero. Era una linea che era chiara per noi perché ci era tracciata dai principi ispiratori della nostra azione politica, fuori di ogni tatticismo e di ogni spirito di compromesso. Ma era la linea di spartiacque che divideva i due blocchi nella cui antitesi si era per anni identificata la lotta politica italiana. Prendere posizione contro il monopolio democristiano del potere significava sottrarsi al ricatto anticomunista e non rifiutarsi a combattere una battaglia al fianco dell'estrema sinistra. Perché di questa battaglia la sinistra democratica potesse costituire, non una forza ausiliaria, ma un fattore risolutivo, occorreva però che essa serbasse la coscienza dei propri fini, ben distinti e diversi da quelli delle forze che si trovavano a operare ai suoi lati. Alle difficoltà di questa situazione, i partiti della sinistra democratica, spesso sensibili ai richi

ami, ora dell'anticomunismo centrista, ora del frontismo, non hanno sempre saputo far fronte con eguale fermezza.

E' ragione di compiacimento per i radicali il senso di sicurezza con il quale sanno camminare sullo stretto sentiero da essi indicato: il secondo congresso del PR ne ha dato la conferma, dimostrando come i principi ai quali i radicali si ispirano li difendano egualmente dai pericoli che, sui due opposti versanti, insidiano il cammino della sinistra democratica.

Lo strumento concreto di una politica di sinistra democratica è stata ed è ancora oggi quella linea di azione che ha preso ora il nome di alternativa, ora quello di apertura, a sinistra: due formule che molti si ostinano a considerare contrapposte, mentre sono, e sono sempre state, due facce dello stesso processo. L'esperienza ha mostrato i pericoli di una politica di blocchi contrapposti, comunque mascherata sotto le spoglie centriste. D'altro lato, l'avvento al potere di una sinistra unitaria, della quale i comunisti siano, come è fatale, il fattore determinante, non può prospettarsi se non come un avvenimento irrevocabile, gravido di conseguenze d'ordine interno e internazionale, e comunque necessariamente non rispondente alle aspirazioni di chiunque creda nella possibilità di uno sviluppo democratico del paese. In questa situazione, non esiste un'alternativa nel potere che ne possa escludere la DC: vi è solo una politica alternativa a quella del partito di maggioranza relativa. Politica alternativa che p

uò costituire la base di una valida opposizione alla DC, da sostenersi in concorso con tutte le altre forze di sinistra, come può costituire la piattaforma di una formula di collaborazione tra sinistra democratica e democrazia cristiana. Le due cose vanno necessariamente congiunte: chi considera come propria della sinistra democratica una funzione di permanente opposizione dimentica che non esiste una valida opposizione là dove le forze che si contrappongono al governo accettino una propria indefinita esclusione dalla responsabilità del potere.

L'ultima fase della vita politica italiana è stata contrassegnata da un rilancio della politica di apertura, che è culminato, nelle elezioni amministrative del 6 novembre, in una chiara presa di posizione, sostenuta con eguale impegno dal PSI, dal PR e da una parte dei repubblicani; non senza esitazione dai socialdemocratici. I risultati, purtroppo, sono stati deludenti. Si sono potute formare, fra gravi difficoltà e aspri contrasti, alcune giunte di centro-sinistra: e con queste si sono certamente aperte alcune limitate brecce nel muro del conservatorismo clericale. Ma si è avuto cura di svuotare l'operazione di ogni significato politico generale. E contemporaneamente si è accentuato il carattere centrista del governo, che appare sempre più lacerato dagli interni contrasti della DC, sempre più impotente di fronte ai centri di potere, spirituale ed economico, che ne reggono i fili. E non si esita neppure, per far rivivere il ricatto anticomunista, a ricorrere a un irresponsabile gioco sulle provocazioni fasc

iste, destinate a determinare reazioni popolari.

Di fronte a questo stato di cose, la via dei radicali era segnata dai loro principi e dalla breve ma significativa loro storia. Qualunque atteggiamento che non fosse di ferma, intransigente opposizione al governo Fanfani vorrebbe dire, per i radicali, rinunciare alle ragioni di vita del loro partito, rinnegare la loro stessa origine. Quei settori e quegli uomini della sinistra democratica che persistono nel giudicare la situazione immatura per una crisi, che si trincerano dietro la mancanza di un'alternativa di governo, che agitano il pericolo di un ripiegamento della DC sulla destra, soggiacciono ancora una volta a quel senso di sfiducia, a quel complesso d'inferiorità che ha gradatamene isterilito partiti e gruppi non privi di una tradizione e di una funzione politica. Non ci si può assumere le responsabilità altrui senza tradire le proprie. In questo momento le responsabilità spettano al partito di maggioranza relativa. Non facciamo nulla che gli consenta di eluderle.

E del resto, se dopo i suoi timidi passi sulla via dell'apertura a sinistra, la DC vorrà tornare scopertamente su posizioni di destra, non mancherà di lasciare qualche segno della sua ritirata sulle vie che dovrà percorrere.

 
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