Intorno alla crisi radicaleSOMMARIO: Il Partito Radicale nasce nel 1955 e già nel 1961 se ne prevede il dissolvimento. La Direzione annuncia la convocazione di un Consiglio Nazionale per il 20 gennaio 1962 in cui si vuole eludere il dibattito sui temi politici di fondo. Il Pr nasce da una matrice moderata che, almeno fino al 1958, è stata seria ed efficace. Ma oggi un'autentica battaglia di libertà non può essere condotta da moderati. E' in corso uno scontro tra libertà e non libertà, tra democrazia e fascismo clericale e militare: per i moderati radicali l'unica battaglia che resti da fare è quella fra mondo occidentale e mondo comunista. Per questo hanno abbandonato la battaglia anticlericale e rischiano di riproporre gli errori di Giolitti e Croce che ingigantirono il pericolo bolscevico minimizzando quello fascista. La logica di una battaglia di libertà porta oggi a sinistra. (Vedi la scheda su "Sinistra Radicale", a.b., nel testo n.3669)
(SINISTRA RADICALE N. 3-4, gennaio 1962)
Dicembre 1955: con una manifestazione al Teatro Cola di Rienzo in Roma viene annunciata la formazione del Partito Radicale.
Dicembre 1961: da più parti, e non solo esterne al partito stesso, se ne prevede il prossimo e inevitabile dissolvimento.
Sinistra liberale
Per il 20 gennaio 1962 la direzione radicale, unita per lunghi anni da una politica fallimentare ed oggi divisa rissosamente dinanzi ai suoi ovvi e prevedibili risultati, convoca un Consiglio Nazionale da essa stessa preliminarmente esautorato nei suoi attributi statutari e nella sua ineliminabile funzione politica, attraverso la violazione sistematica e dolosa della democrazia interna del partito e impedendo la circolazione ed il confronto delle idee, fino a ridurlo ad organo di mera registrazione. Lo ha convocato; ma per farne che? Noi pensiamo che le attuali divisioni e crisi costituiranno ottimo pretesto per evitare ancora un dibattito di fondo sui temi politici.
Da tempo ormai il settimanale che ospita ancora - ma accantonandolo a funzione marginale - il migliore forse dei nostri amici, va sviluppando il tema della piattaforma teorica e ideale dell'operazione di centro-sinistra. Il riconoscere la sincerità e l'impegno di questa battaglia non ci esime dall'affermare che essa costituisce anche la migliore teorizzazione della necessaria scomparsa del partito radicale e soprattutto del suo patrimonio politico. Si va addirittura verso una abdicazione al regime. Questo non è un paradosso: dopo aver liquidato la pregiudiziale laica, non si è esplicitamente anche attaccata - dalle colonne di quel settimanale - la piattaforma antifascista che ancora unisce le forze democratiche e popolari della libertà?
L'appoggio alla legge maggioritaria
Nel 1953, il gruppo del "Mondo", che da alcuni anni rappresentava una "sinistra liberale", propugnò nel partito che ancora lo ospitava la legge maggioritaria. Chi scrive faceva parte di quel gruppo e fu con esso consenziente; né ha cessato di ricordarlo. Un gruppo democratico non può rischiare due errori di questa natura nel giro di un decennio e pretendere poi di sopravvivere e di sopravvivere come forza democratica. Fummo allora salvati dal Paese, niente affatto immaturo, malgrado la contraria e persistente convinzione del "Mondo"; il Paese fu così saggio da darci torto e il clericalismo marcò la sua prima battuta d'arresto. Quel tanto di democrazia che ancora resiste lo dobbiamo alla crisi di allora. Però non tutti gli ex amici della "Sinistra liberale" la pensano così. Diremo di più; è evidente che molti di essi tentano di scrivere oggi una pagina analoga, ma con maggiori responsabilità. Perché? Entriamo così nel vivo della questione.
Nel far questa analisi, vorremmo si comprendesse che si vuol solo iniziare un esame politico, non offendere alcuno. Forse, l'individuare le costanti di una storia che è stata spesso comune e che non fu intessuta solo da divergenze e di incomprensioni, potrà essere utile a tutti.
La storia di un gran parte dei nostri amici di provenienza liberale è storia di "moderati" nel senso più preciso e storico della parola. Non sarà difficile dimostrarlo, altra volta e in altra sede, attraverso una analisi delle forme di resistenza al fascismo che essi praticarono e dei loro atteggiamenti politici nel periodo della liberazione e dopo. La logica dei loro atteggiamenti è errata e non si smentisce. Con una sola eccezione, che ci interessa da vicino: la battaglia "radicale" che però resta - lo ripetiamo - anomala rispetto al loro passato, alla loro cultura, ai loro interessi civili. Certo, non per questo essa non è stata (fin tanto che è durata, e cioè all'incirca fino al 1958) seria, efficace ed importante, come ciascuno di noi poté valutarla e certamente ricorda. Ma il tempo è trascorso, semmai è esistito, nel quale un'autentica battaglia di libertà, in Italia e in Europa e nel nostro tempo, può essere condotta da moderati. Ogni ora che passa ci allontana e non solo cronologicamente dalla Resist
enza; il che equivale a dire che il suo patrimonio è abbastanza dilapidato (vedi molti "taccuini" del "Mondo") e che non vi è più oggi solo, come a molti era apparso possibile, da amministrarlo (nella qual cosa dei moderati potevano eccellere). Oggi c'è da conquistare un nuovo patrimonio o di riconquistare quello perduto.
Croce e Einaudi
Ovunque in Europa, e in Italia nelle sue forme peculiari, è in corso uno scontro fra libertà e non libertà, democrazia e fascismo clericale e militare, progresso e reazione (e, lo ricorda Salvadori, il progresso è di libertà o non è), senso dello stato e feudalità di ogni genere. Oggi questa battaglia non deve essere più elusa ma ricercata, promossa, combattuta con vigore e rigore fino in fondo. Per i moderati radicali, in politica interna così come in politica estera, l'unica battaglia che resti da fare è quella fra mondo occidentale e mondo comunista, a costo di ignorare in questa schematica contrapposizione, il destino della libertà nell'occidente, a costo di ignorare i fascismi e tutte le negazioni della libertà che si sviluppa nell'occidente così accanitamente difeso. Per questo essi hanno abbandonato la battaglia anticlericale e cercano ora, dopo averla subita o accettata, di sgombrar il campo anche dalla trincea antifascista: sennò come arrivare al centro-sinistra?
Queste sono, per i moderati, incapacità ed errori classici. Quando un "altro" regime andrà affermandosi in Italia, i liberali, nella stragrande maggioranza moderati, furono incapaci di opporre libertà e nuove libertà, alla spirale totalitaria che cominciava a salire. La verità è che dinanzi all'involuzione clericale vi sono oggi anche fra noi alcuni "liberali" che ripetono puntualmente il cammino già percorso da Giolitti, da Croce e, con poche eccezioni, dall'intera classe dirigente moderata di allora, la quale ingigantì il pericolo bolscevico e minimizzò quello fascista, sperando anzi per anni che Mussolini cavasse loro le castagne dal fuoco, per poter far riprendere al grande stato liberale che essa rappresentava il tranquillo e sicuro cammino. Non temiamo di essere espliciti: che conta che non sapessero quello che facevamo, che lo facevamo per la libertà, e che per molti di essi divennero antesignani della nuova lotta per la libertà? Certo, sul piano individuale salvarono la loro anima, ma su quello del P
aese? Certo, alcuni morirono, e furono vittime eroiche. Questo non toglie che erano stati imprevidenti e velleitari come classe dirigente e come liberali.
Ci sono due grandi eccezioni, due maestri di pensiero e di vita: Salvemini e Gobetti. Ma essi non furono mai moderati. Non si sbagliavano i nostri amici liberali di questi anni nel non ritenere questi due ingenui ed intransigenti "idealisti" (pur stimandoli) membri della loro propria famiglia. I loro maestri politici (ripetiamo: maestri "politici") erano Croce e Einaudi, con preminenza assoluta.
I moderati amministrarono ed amministrano, consumandolo e spendendolo, quel tanto di libertà che il passato lega loro; ma non intesero e non intendono il significato di quella stessa lotta che gli uomini del Risorgimento (di quella destra storica alla quale essi amano tanto richiamarsi) portarono avanti a prezzo di grossissimi sacrifici. Ma la libertà, e per prima quella delle leggi, è sempre una conquista e una innovazione, dove è necessario una violenza.
Anticlericalismo strumentale
Prima di evocare qui le conseguenze pratiche che i moderati del partito radicale sono portati a trarre dalle loro vecchie e nuove posizioni e del contesto che essi danno al centro-sinistra, vi è forse da rispondere a una domanda.
Come è stato possibile che i moderati di questa fatta si trovassero a propugnare la nascita del partito radicale e a combattere per due anni, senza riserve, la battaglia?
E' sufficiente tornare alla scissione liberale. La sinistra non abbandonò il partito se non quando ne fu, in pratica, estromessa. Per essa, nel 1954-55 era urgente rivendicare la caratteristica di "veri liberali" contro il P.L.I. accusato di tradire le tradizioni "di libertà" delle classi dirigenti pre-fasciste.
Contro Malagodi (che, più o meno, proseguiva la politica tradizionale al P.L.I. da dieci anni) la carta anticlericale venne giocata a fondo, unitamente a quella della lotta anti monopolistica e per una "vera" economia di mercato. Se non verso la base liberale (il P.L.I. non fu scosso elettoralmente dalla nascita del P.R.), nei confronti dell'opinione pubblica l'operazione fu coronata da successo.
Il P.L.I. dovette mendicare il riconoscimento di "secondo partito cattolico" ed apparve chiaramente per quel che era: una organizzazione di classe al servizio del capitalismo italiano.
Così, per il P.R., riprendendo le "grandi" tradizioni giolittiane fu rispolverato lo slogan dell'inserimento della masse nello Stato e dinanzi all'evidenza della situazione ed ai nuovi problemi strategici da affrontare si accettò di farne beneficiare gli autonomisti del PSI; tanto più quando Pralognan fece sperare in una socialdemocratizzazione di buone fette dell'elettorato operaio e contadino. Ammonirono infatti a più riprese, e con evidente preoccupazione, i radicali provenienti dal Partito d'Azione e da Unità Popolare (e qualche altro), della necessità dell'intransigenza della battaglia laica anche di fronte ai comunisti dell'articolo 7 e ai socialisti. Ricordiamo molti amici, ed in particolare Mario Paggi, ammonire il consiglio nazionale sui rischi trasformistici insiti nel connubio socialista-cattolico, che poteva facilmente tradursi in un mercanteggiamento di libertà e laicità per la contropartita di una politica economica e sociale più spinta e democratica.
Ma, fatto il grande passo, fu subito istintiva preoccupazione dei moderati del neo partito radicale di non confondersi con il qualunquismo di sinistra, che essi infatti subito denunciarono.
Ma, in verità (gli avvenimenti di questi anni, ivi compresi i più recenti, lo dimostrano) l'anticlericalismo e l'intransigente pregiudiziale affermazione dell'autonomia dello Stato contro la Chiesa servivano, in quel momento, sia per screditare definitivamente e politicamente Malagodi come liberale e "moderato", sia peraltro per evitare una confusione dei radicali nella sinistra del Paese.
E' con queste spinte psicologiche e politiche nella errata speranza di vedere una base radicale fatta di ex-liberali (piuttosto che di democratici intransigenti, stanchi anche degli opportunismi e dei compromessi passati e futuri dei partiti classici della sinistra italiana) che fu possibile a dei moderati di combattere per due anni una battaglia destinata a minacciare il sottile gioco di equilibri e di tranquille abitudini polemiche che sino ad allora aveva unito intimamente nel Paese maggioranza ed opposizione.
Radicalismo o socialdemocrazia?
Ma la logica di una battaglia di libertà porta oggi a sinistra. Lo spostamento del partito radicale su posizioni nettamente e politicamente impegnative nel senso dell'antifascismo e dell'anticlericalismo non poteva che spaventare questi moderati. Il pericolo di una crisi sui problemi della politica estera, i più evidenti - a torto o a ragione - per la base del partito, ha portato al definitivo ritorno su posizioni d'ordine di questi epigoni dei moderati del primo dopoguerra, che rischiano nuovamente di cadere in una collaborazione col regime.
Per una strana ma non ingiusta ironia, l'abbandono della piattaforma laica, antifascista e progressista cui hanno costretto il partito con la loro politica neocentrista, li ha posti improvvisamente dinanzi al pericolo che sul piano tattico più temevano: quello della "confusione" con il PSI, e con il "qualunquismo di sinistra". Quando Carandini rimprovera Piccardi o altri amici della direzione di preparare la liquidazione del partito a favore del PSI e addebita questo fatto a mancanza di vera autonomia e di originalità di azione, dice cosa esatta. E' un pericolo che "proprio noi" abbiamo a più riprese segnalato. Ma quando poi sostiene il centro-sinistra (se è solidale - come non speriamo - con gli altri amici della ex sinistra liberale su questo punto) egli stesso crea le condizioni di quella liquidazione. Quando poi sostiene una politica estera atlantica, anche se lo fa con sincerità assoluta, e la sostiene nel partito combattendo le posizioni di Ernesto Rossi e della sinistra sul problema atomico, su quello
coloniale, su quello europeo, Carandini dovrebbe aver cura di precisare "come" una tale posizione - unita all'abbandono della posizione anticlericale, della partecipazione agli organismi unitari della sinistra (vedi La Lega dei Comuni Democratici, la ADESSPI o i comitati per la Resistenza o quelli anticolonialisti), può dare al partito una vera autonomia, non diciamo verso quel PRI, che da anni fa, per paura di Piccardi, una politica pacciardiana, ma verso la socialdemocrazia che fa sue indistintamente queste posizioni, nessuna esclusa. Se le divergenze con il PSDI fossero limitate a problemi tattici o si riducessero a sospetto o dispetto verso Saragat, come a volte appare, non ci sembrerebbero dati sufficienti a garantire l'autonomia del Partito Radicale rispetto al PSDI e all'intera socialdemocrazia continentale, da quella di Mollet a quella di Spaak. Queste cose Carandini deve chiarircele, chiarirsele se necessario. Non temiamo, ancora una volta, di dire che Carandini (e chi lo conosce lo sa) vive come u
n tormento la solidarietà, l'amicizia, la milizia moderate.
Il dilemma, è evidente, è un dilemma di fondo. Il moderatismo non riesce, come non è mai riuscito, ad affrontare a fondo i grossi problemi del paese e della situazione politica generale, anche fuori del Paese. Discutere i problemi impellenti del momento significherebbe rivedere un po' tutta la propria storia, mutare le linee di fondo delle proprie capacità e dei propri fini. E quelli che vengono proposti dalla sinistra non sono temi campati in aria: sono i temi chiave della meditazione politica dei nostri giorni, quelli sui quali si differenzia veramente una sinistra moderna da una sinistra "pasticciona", capace solo di una politica contemporaneamente velleitaria e dello struzzo. Noi non vogliamo differenziarci per forza, per il gusto di esistere anche a costo di gravi abbagli di analisi politica, vogliamo distinguerci per una più libera capacità di guardare lontano, rispetto ai piccoli tatticismi del nostro mondo politico. Con il radicalizzarsi della situazione in Europa e nel nostro Paese, con l'affermarsi
in Inghilterra, in Francia, in Belgio e dovunque in Europa, di posizioni molto simili alle nostre, posizioni per le quali alcune minoranze intellettuali organizzate ed intransigenti puntano alla leadership dell'opposizione di sinistra contro i vari regimi fascisti, colonialisti e conservatori, il Partito Radicale può con poco - "con un po' più di fedeltà a se stesso, con l'intransigenza che è nella volontà della gran parte dei suoi iscritti" - assumere un ruolo di grande ed inaspettata importanza. E' quanto gli amici moderati hanno avvertito, con intelligenza ma anche con timore. In Italia, un clima di alternativa democratica va formandosi. Ne hanno paura.
Apparentemente anche Nenni sta compiendo errori imperdonabili. Apparentemente; ma Nenni ha rifiutato di tagliarsi i ponti dietro alle spalle. Il centro sinistra a Roma non coinvolgerebbe direttamente la responsabilità del suo partito, e non crediamo si tratti solo di impossibilità - che resta da dimostrare - ma di prudenza consapevole. Lo stesso significano certi contenuti della sua battaglia; le posizioni neutraliste in politica estera (insufficienti su un piano di dinamica rivoluzionaria e liberale, ma sufficienti per garantire spazio alla democrazia e al pacifismo in Europa) e, soprattutto, l'adesione alla CGIL e alle organizzazioni unitarie di minore importanza: la Lega dei Comuni Democratici, l'ADESSPI, il Comitato anticolonialista, la lotta unitaria per le regioni, per le fabbriche e per le campagne.
Il Partito Radicale, invece, non ha ancora proclamato il suo appoggio alla CGIL; ha appoggiato l'ADESSPI, ma contro il parere dei suoi moderati e lo stesso dicasi per l'UGI e per Lega dei Comuni Democratici; solo indirettamente, attraverso Piccardi o Rossi o la sinistra, i comitati anticolonialisti, le campagne antinucleari eccetera.
Liquidazione fanfaniana dell'antifascismo
E quali ponti i radicali si sono lasciati dietro alle spalle, per il caso che la politica del centro sinistra sarà attuata e si dimostrerà un errore? Fino a qualche tempo fa restava l'antifascismo e la lotta organica contro le vecchie e nuove forme di fascismo persistenti nel Paese. Che intendono farne gli amici moderati? Noi denunciamo questo punto, e fu l'occasione di uno degli scontri più violenti con la direzione intera del Partito, sin dall'indomani dei fatti di Genova, Palermo e Reggio Emilia, nel 1960. Sostenemmo in quell'occasione che il partito aveva consentito (e con il partito anche amici come Piccardi, sulla scia di una sincera ma errata valutazione di Nenni) e in parte provocato la liquidazione "fanfaniana" delle rivendicazioni popolari antifasciste, divenendo strumento inconsapevole di una operazione che aveva visto mobilitati "sinistre" cattoliche e laici di complemento per tentare di evitare alla D.C. e al regime una scelta "definitiva" tra fascismo e antifascismo in un momento in cui una sc
elta fascista era impossibile o suicida ed aveva come alternativa non già il centro sinistra ma una svolta a sinistra della DC e la scissione della sua ala destra più passionalmente clericale ed antidemocratica. Nenni, di certo, pur se da anni ormai giustifica la precarietà e la confusione della sua posizione con l'affermazione della necessità di imprimere un corso diverso alla evoluzione della politica italiana, non vide lui stesso che il popolo, in quella circostanza, aveva deciso di fornirgliene l'occasione; ma di certo i nostri amici moderati sapevano quale fosse lo stato d'animo e la convinzione unanime di un partito che essi avevano creato ma che ora era più avanti di loro e li sopravanzava. Capirono quanto concreta potesse essere una prospettiva di alternativa popolare di sinistra alla DC; intuirono che grandi novità potevano derivarne, novità tali da "sconvolgere" tutto il disegno politico che da parecchio andavano tessendo, volto a determinare "a qualsiasi costo e a qualsiasi condizione" l'esclusion
e del partito comunista e del suo apporto alla battaglia democratica; come se quel partito non fosse, anche esso "popolare". Allora si ritirarono, come nel 1922 il loro predecessori ideali. Ebbero paura di assumere una coraggiosa iniziativa di rottura e le sue responsabilità. Il Partito venne messo in quarantena: invece di consultarsi con una base che era più coraggiosa di loro, preferirono evitare persino una riunione statutaria del consiglio nazionale (e avrebbero dovuto convocarne una straordinaria, magari!). Fu allora che avvertimmo le responsabilità del gioco e denunciammo al Consiglio di Disciplina l'intera direzione del partito.
"La "linea del MONDO"
Non è necessario, crediamo, dilungarci sulla rinuncia alla battaglia laica, in nome del centrosinistra, e sulla confessione, praticamente confermata senza interruzione dal 1958 in poi, dei temi e degli obiettivi di quella campagna elettorale. In questo anche se per ragioni diverse Piccardi e gli amici della sua corrente avevano interessi convergenti con i moderati del partito. Ma la responsabilità maggiore ricade sugli amici del "Mondo"; Ernesto Rossi è praticamente stato imbavagliato su due temi chiave; quello laico e quello della politica estera.
Sorgono "due" astri: Vittorio de Caprariis e Federico Gozzi. Nei loro editoriali, il centrosinistra prende figura chiaramente. Con due articoli dell'estate viene affermato esplicitamente che la linea di demarcazione tra i fronti è, in Italia, tra coloro che vogliono una pianificazione economica democratica e quelli che la rifiutano; questi ultimi, poi sarebbero solo pochi anche se potenti "baroni", e qualche cliente. I problemi del Paese vengono riassunti in questi due. Nessun accenno concreto ai problemi della laicità e della libertà; nessun accenno è fatto ai problemi costituzionali. Poi viene il convegno delle riviste dell'Eliseo, e Giulio Rendi ha dimostrato, nel numero 2 di "Sinistra Radicale", quanto povera e rinunciataria, anche in questo settore, diviene la richiesta socialista e radicale.
L'alibi degli "ultras"
Infine Gozzi o De Caprariis (uno dei due, non importa chi) si è distinto con un articolo di netto sapore maccartista di violenta polemica e denuncia contro Piovene, in cui tutto il loro ciarpame guerrafondaio e nazionalista viene ripreso dottamente e trasferito sul conto della difesa dell'occidente (ma chi voglia capire su quali basi è intessuta quella polemica, vada a vedere a quali personalismi meschini De Caprariis è sceso, sull'argomento, in numero di "Nord e Sud"). Chi rifiutava di morire per Berlino faceva solo il "gioco dei comunisti". La sinistra radicale ed Ernesto Rossi parteciparono quindi alla marcia della pace di Perugia e questo impedì forse il linciaggio morale che si stava profilando. Tornando spesso, in successive occasioni, su analoghi argomenti, De Caprariis e Gozzi hanno dimostrato bene quale trama filoclericale e colonialista si stenda sotto le loro posizioni.
In queste ultime settimane, esse hanno finito con l'essere chiare, non più velate da prudenza e ipocrisia. E' triste, ma vero. Dalle colonne del "Mondo" un editorialista che non essendo notoriamente un imbecille non può ormai non essere considerato un "ultra" ripete quel che clericali, gaullisti, franchisti e salazariani dicono da sempre: - e "men che mai nel nostro paese" - "fronti contrapposti del fascismo e dell'antifascismo", ma solo quello duplice, contro la destra sovversiva e conservatrice e contro i comunisti.
E' un alibi. Debrè fascistizza in Francia lo Stato con l'alibi di Salan; Franco mette in guardia contro le falange e Serrano Suñer in agguato; Salazar ha a destra quelli che non accettano il fatto compiuto a Goa e gridano contro la NATO...
Torniamo al nostro Paese; oggi abbiamo la conferma che vi sono radicali (o portavoce o portapenna dei radicali) che non vogliono che il regime venga posto dinanzi alla responsabilità di una scelta "per" l'antifascismo e di fatto lo lasciano al suo fascismo. Perché dire, altrimenti, che il fronte antifascista non esiste e che la lotta contro il fascismo "in Europa come in Italia" non è quella centrale? Ma non è vero che da Ernesto Rossi a Bellavita, da Galante Garrone a Piccardi, tutti coloro che sono attenti al problema dello Stato e della lotta democratica hanno dimostrato proprio l'inverso: la sistematica violazione della costituzione ed il parallelo rafforzamento degli istituti illiberali della nostra legislazione.
Il fronte c'è, è nella stessa analisi delle cose. Antifascisti da un lato, fascisti vecchi e nuovi dall'altro. Chi è antifascista non può contentarsi di starsene in piedi ad osservare, nell'impotenza, il ritorno del fascismo, solo per non macchiarsi le scarpe, e perché è convinto di avere dalla sua una verità "storica" di tipo gnostico: deve scegliere e andare avanti. Il fascismo non basta negarlo per esorcizzarlo; bisogna fare i conti con la sua presenza, e di questo fatto dovranno accorgersi coloro che vogliono il centrosinistra.