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Pannunzio Mario - 30 settembre 1962
Il ruolo delle minoranze nella democrazia
di Mario Pannunzio

SOMMARIO: Registrazione dell'intervento di Mario Pannunzio ad una Tavola Rotonda, riportata sul fascicolo luglio-settembre della rivista. Pannunzio vi confessa di avere solo idee "molteplici, confuse, contraddittorie" sui partiti in Italia. L'immagine che egli ne ha è una "immagine cinematografica", di "organismi complessi e misteriosi in movimento"..."Che c'è in comune - si chiede - tra il partito comunista e il partito radicale (del resto caduto in dissoluzione)?". Si limiterà quindi ad alcuni cenni relativi alla sua esperienza nel partito liberale, ricordando innanzitutto "il grande interesse e la straordinaria affluenza" che lo contraddistinse nell'immediato dopoguerra.

Quel periodo, "appassionante ed eccitato", dice P., è finito. Anche il partito liberale è avviato alla "normalizzazione", ha anch'esso i suoi "funzionari" o "sottufficiali", che sanno "parlare su qualsiasi argomento, anche se superficialmente", hanno "tempo libero", frequentano "federazioni e sezioni", ecc. Anch'esso ormai è finito nell'immobilismo e nel conformismo.

Cosa fare? Non bastano palliativi (come il finanziamento pubblico), occorre rompere "lo stato di immobilità e di conservazione che l'equilibrio delle forze politiche italiane favorisce". E' invece necessario "rompere il monopolio di certi partiti per giovare alla libertà di tutti"..."con programmi intransigenti, con prospettive concrete e con disegni a lunga scadenza".

(TEMPI MODERNI, 30 settembre 1962)

Prima di rispondere ai quesiti sulla partecipazione politica e i partiti in Italia, bisognerebbe avere un'idea chiara di cosa sia un partito in Italia. E io confesso di non averla, o meglio, mi accorgo di avere in proposito idee molteplici, confuse, contraddittorie, che si collegano semmai alla storia politica di questi anni, alle lotte dei partiti tra di loro, alla storia personale di amici e di avversari, ma senza nessun nesso comune, una fisionomia generale e univoca. L'immagine che i partiti suscitano nella mia mente è, per così dire, una immagine cinematografica, di organismi complessi e misteriosi in movimento, spinti da un potente istinto di coesione e di vita, in continua lotta per l'esistenza, ma ognuno diversissimo dall'altro, anche se alcuni connotati comuni li fanno sembrare in qualche modo simili. Che c'è di comune, per esempio, tra un partito come il democristiano e il partito socialdemocratico, o il repubblicano, o anche tra il partito comunista e il partito radicale (del resto caduto in disso

luzione) e così via? L'esperienza di chi ha militato a lungo in un partito può suggerire soltanto una descrizione del partito o dei partiti che meglio conosce e perciò forse non un giudizio imparziale, ma in certo senso un giudizio particolare e forse deformato, sulla fisionomia generale dei partiti italiani.

Per quel che riguarda la mia esperienza posso ricordare il grande interesse e la straordinaria affluenza che si ebbero, subito dopo la Liberazione, verso il Partito liberale, uscito allora dalla prova della lotta clandestina.

Il partito liberale dalla Liberazione alla "normalizzazione"

Gli iscritti e i simpatizzanti si interessavano alla politica del partito (anche se con disordine e inesperienza), leggevano i giornali legati ai vari partiti e, nelle assemblee, davano vita a dibattiti che investivano le questioni ideologiche, i programmi generali e, via via, le questioni particolari. Ogni iscritto si considerava impegnato nell'avvenire del suo partito e con una certa candida furia voleva veder subito realizzati non solo i punti generali del programma ma anche quelli particolari che egli suggeriva quasi come rimedio unico ai mali universali. Non era raro che il professionista, il commerciante, l'impiegato, confondessero, in quanto militanti di partito, i loro fini particolari, "settoriali", di categoria, con quelli generali del movimento politico a cui appartenevano. Tutti avevano da urlare qualcosa, tutti si sentivano uguali, tutti volevano comandare, suggerire, improvvisare, cambiare.

Fu un periodo appassionante ed eccitato. Per i dirigenti di un partito il resistere a tante sollecitazioni, spesso contraddittorie, fu un ingrato lavoro: ma l'empito ideale che sembrava sorreggere tutti, dava un senso di vitalità e d'impegno che compensava la fatica. Purtroppo questo interesse dei primi mesi rapidamente cessò. Le richieste, i desideri, le proposte non trovando - come non potevano trovare soddisfazione, lasciavano delusi gli iscritti: a poco a poco le assemblee concentrarono i loro dibattiti, dinnanzi a platee sempre meno numerose, su pochi problemi di strategia politica o su grosse scelte (monarchia o repubblica, liberismo o interventismo ecc. ecc.). Si modificava, quindi, il tipo d'esperienza e di partecipazione politica che aveva caratterizzato la vita dei partiti subito dopo la liberazione. Credo che questo sia stato un fenomeno generale: perfino i grandi movimenti di massa, la DC e il PCI, hanno visto illanguidirsi tra i propri iscritti l'appassionato interesse dei primi tempi. Oggi poss

iamo dire che si trattava di un fenomeno fatale, collegato con il passaggio dalla fase incandescente della Liberazione a quella della normalizzazione della vita politica. I partiti, assestandosi come organizzazioni normali della vita pubblica del paese, si sono adeguati ad un tipo d'organizzazione tradizionale: Congressi, Comitati Centrali, Direzioni, Federazioni, Sezioni, Cellule, tesseramento ecc.

Bisogna ricordare che molti dei "leaders" che ancora oggi, dopo tanti anni, sono a capo dei partiti, furono i promotori della nascita o della resurrezione dei partiti, durante la Resistenza. Fin dall'inizio, alcuni uomini di grande prestigio si trovarono naturalmente ad esserne i capi, per il loro passato politico, per la loro attività cospiratoria, per le loro opere di studiosi o di pubblicisti. Durante la dittatura, nella clandestinità e nell'esilio, piccoli gruppi di dirigenti erano rimasti di fatto gli animatori di quel po' di vita organizzativa ch'era consentita dai tempi. In quei circoli ristretti di militanti, le gerarchie erano già stabilite, le qualità politiche sperimentate, le amicizie provate dalla lotta in comune e dai sacrifici patiti. Con la Liberazione, quei piccoli gruppi si trovarono improvvisamente a dover guidare eserciti informi e tumultuosi di reclute prive di esperienze e di capacità pratiche. A poco a poco, accanto agli anziani, quasi per cooptazione, si vennero formando nuove leve di

dirigenti, alcuni dei quali entravano in parlamento, nei consigli comunali, ecc. ecc., acquistando forza, popolarità e influenza. Ma non bastava. Bisognava inquadrare stabilmente migliaia e migliaia di iscritti, dalle grandi città fino al più piccolo borgo. Occorrevano uomini, uffici, giornali, una disciplina, una propaganda.

Nascita dei "funzionari" o "sottufficiali"

Così, accanto ai "leaders" e ai dirigenti medi, si andarono formando i dirigenti minori, i "quadri" dei partiti, gli apparati burocratici, nazionali e locali, che assicuravano, sì, iniziativa, stabilità e continuità al lavoro organizzativo, ma nello stesso tempo promettevano fedeltà ai capi, e una specie di attiva e permanente obbedienza alle oligarchie politiche già organizzate. Era nato il "funzionario", la figura più caratteristica e ambigua del partito moderno, detentore di poteri vastissimi, capace sotto certi aspetti di determinare, coi suoi legami, le sue manovre segrete, i suoi veti, il suo conformismo, il corso stesso politico del partito. Questo personaggio, avvicinatosi spesso come "volontario" al partito, introdotto a mano a mano nell'organizzazione, impratichito nelle faccende politiche, era diventato, con l'andar del tempo, un vero e proprio professionista della politica.

Occorrevano per questa trasformazione: saper parlare su qualsiasi argomento, anche se superficialmente, avere tempo libero a disposizione, frequentare le federazioni e le sezioni, sapersi muovere sulla scia dei protagonisti, ecc. ecc.

Oggi, se non sbaglio, più o meno tutti i partiti si reggono su questa classe politica di "sottufficiali". Sono questi uomini che preparano le assemblee, tengono le file delle clientele personali, ricoprono le cariche minori nelle sezioni locali e negli organi centrali del partito. I partiti, insomma, si sono venuti burocratizzando. Non poteva essere diversamente: basta aver letto qualche studio di sociologia dei partiti, da Mosca a Michels, per sapere come vanno le cose. Intorno a una "formula" si raccoglie una "classe" politica. La "classe" politica si regge su una "burocrazia" quando non si confonde con essa.

E' chiaro che i soggetti di questa burocrazia si trovano sempre in vantaggio nei confronti dei semplici iscritti: bene o male, sono più preparati (anche se, ripetiamo, in modo estremamente generico) sui problemi del giorno, sono pratici di assemblee e di votazioni, seguono la stampa e frequentano gli esponenti minori degli altri partiti. Formano insomma l'ossatura permanente dell'organismo. Anche i partiti minori, che dovrebbero apparire come partiti di opinione, modellandosi lentamente sulle forze di massa e ripetendone le strutture e il costume, si sono andati adattando a questo tipo di organizzazione. Ogni partito ha uno o più leaders; al seguito dei leaders c'è la classe dirigente burocratica-clientelistica; alla dipendenza di questa ci dovrebbero essere gli iscritti. Ma spesso, ai generali, ai colonnelli e ai capitani non corrisponde un numero adeguato di milizie; oppure anche là dove il numero delle milizie è forte, non c'è l'adesione meccanica, senza cioè l'interesse, l'impegno, la capacità d'interven

to che rendono un partito vivo.

Immobilismo e conformismo

In tutti questi anni il fenomeno dell'immobilismo dello schieramento politico ha favorito il conformismo e l'obbedienza passiva degli iscritti: sempre più rari sono i rapporti tra la classe dirigente e la base, tra il centro e la periferia. Anche questo è un fenomeno naturale, in tutti i partiti ed in tutti i paesi. I leaders dei partiti, a poco a poco, come sollevati su piedistalli, sono protetti dalla "classe" dei "sottufficiali" che hanno costruito, intorno a loro, una specie di recinto. Solo in alcune grandi occasioni (comizi in piazza o in teatro) i capi e gli iscritti si incontrano, ma si tratta di brevissimi incontri. Nei congressi, invece, l'incontro è indiretto, perché solo un numero ristretto di partecipanti (di solito sempre gli stessi) partecipa - o crede di partecipare - direttamente alle decisioni politiche.

Dinnanzi a questo quadro si può capire facilmente come il distacco del cittadino dalla vita dei partiti aumenti e la stampa dei partiti abbia sempre meno lettori, e come ogni partito sia considerato - quali che siano le sue "dimensioni" - una piccola chiesa con i suoi riti e con i suoi sacerdoti.

La specializzazione

Ma era possibile che le cose si svolgessero diversamente? Abbiamo già detto che non era possibile: come in tutti i campi della vita moderna, anche in quello della politica si afferma la tendenza alla specializzazione. All'uomo politico, oggi, occorrono qualità particolari non solo d'ingegno, ma di preparazione, di tempo, di pazienza. L'uomo politico non è più un cittadino di fama com'era, ad esempio, una volta, il deputato che si presentava sulla ribalta politica ricco del prestigio acquistato in altri campi (professioni così dette "liberali", scienze, imprese militari, ecc.) ma un uomo che spesso viene dalle organizzazioni locali, che ha imparato a parlare in pubblico e che deve dimostrare giorno per giorno, ora per ora, capacità organizzative e volontà di proselitismo.

Il politico d'oggi, sia esso un leader come un "sottufficiale", deve essere disposto a viaggiare continuamente, a parlare con uomini di condizioni e ceti diversi, deve frequentare ministeri, enti, sindacati. Gli si richiede un lavoro massacrante e, nello stesso tempo, un sistema nervoso di ferro. E' naturale allora che chi si dedica con impegno alla vita politica ne divenga, per forza di cose, un professionista. C'è oltretutto il problema personale della situazione economica che lo spinge a render permanente il suo rapporto con la politica. Il deputato farà ogni sforzo per conservare il proprio collegio, ma lo stesso faranno il piccolo consigliere comunale o il dirigente della federazione più "periferica".

Spesso la vita sacrificata del "sottufficiale" reca vantaggi economici soltanto indiretti (piccoli incarichi, consulenze, attività pubblicistiche, ecc. ecc.) che si aggiungono ai magri stipendi. Per chi ha iniziato il suo itinerario politico, specie se da giovane, con l'entusiasmo del neofita, si pone ad un certo punto il dilemma: lasciare la vita politica e, quindi, l'organizzazione di cui fa parte e quindi quel po' di carriera già fatta, o impegnarsi senza pentimenti sulle vie obbligate della partecipazione "organica" alla attività partitica. E la carriera ha un suo corso prestabilito: dalla semplice iscrizione, alle cariche direttive del partito, dal consiglio comunale al consiglio dei ministri.

Un aiuto può venire dal giornalismo - per chi ne ha le capacità - ma i giornali di partito offrono scarse soddisfazioni - mentre la grande stampa indipendente non vuole uomini di partito.

Le macchine di partito e le "forze esterne"

Ecco dunque che il partito diviene una macchina, piccola o grossa, non molto diversa - per chi ne fa parte - dalle tante macchine burocratiche che le società moderne offrono.

Pensare che si possano cambiare le strutture dei partiti, nella situazione attuale, mi sembra illusorio oltre che inutile. Se l'esperienza di questi anni può lasciare un'impressione un po' pessimistica, questo lo si deve al confronto che ognuno di noi è portato a fare con l'immagine un po' astratta che i partiti nati dalla Resistenza avevano suscitato soprattutto in coloro che avevano vissuto in tempi di dittatura e di partito unico.

Oggi in Italia i partiti non sono molto diversi da quelli degli altri paesi: anche in America, in Inghilterra, in Francia esistono - con alcune differenze che non alterano la sostanza del fenomeno - le "macchine" di partito, le burocrazie, gli apparati, i "boss". Ovunque, insomma, i militanti attivi, i professionisti, i "sottufficiali" costituiscono ormai una vera e propria classe dirigente. Rappresentano, quindi, uno dei fattori che caratterizzano lo stesso fenomeno moderno dei partiti. Pensare a una riforma dall'esterno di uno spontaneo fenomeno associativo sarebbe per lo meno anacronistico. Non si tratta di cambiare i partiti o, tanto meno, di condannarli qualunquisticamente come degenerazioni di una "pura" democrazia. Si tratta anzi di rafforzarli, di dar loro slancio e iniziativa politica. Senza i partiti non c'è democrazia e i partiti moderni sono l'espressione necessaria dello spirito "comunitario" e della necessità di dare rappresentanza agli ideali di una società articolata e dinamica.

Il problema è, piuttosto un altro e, nel nostro paese, riguarda la vita stessa dei partiti, il regime dei partiti come associazioni private appena riconosciute dalla Costituzione. Come vivono, in Italia, questi partiti? Chi li finanzia? Chi controlla il loro retto funzionamento interno, la legittimità degli statuti, i diritti delle minoranze? Considerati come associazioni private, i partiti godono di una libertà apparentemente smisurata, ma guardando dietro le quinte si scopre come essi siano per lo più condizionati da forze esterne. Ci sono partiti che trovano il loro sostentamento attraverso contributi di organismi extra-nazionli, altri vivono con l'appoggio di grandi organizzazioni economiche o di particolari interessi di settore. Di fronte alle spese enormi delle campagne elettorali, della propaganda normale e straordinaria, della stampa periodica, di fronte al costo degli apparati, ogni intransigenza morale e politica finisce per essere annullata, almeno in parte, da volontà esterne.

Assicurare la vita delle minoranze

Cosa proporre? Il riconoscimento giuridico da parte dello stato, gli statuti regolati dalla legge, la pubblica denuncia dei finanziamenti o, addirittura il finanziamento pubblico proporzionato al numero degli iscritti o dei parlamentari eletti? Sono tutti rimedi parziali, che possono tutt'al più correggere alcune malattie e degenerazioni, ma che appaiono insufficienti a risolvere le crisi della partecipazione politica in Italia e a risolvere i problemi di fondo dei partiti moderni. Il fatto stesso che su questi "rimedi" non si sia ancora formata una "communis opinio" e che ogni progetto avanzato in tal senso appaia soprattutto un correttivo moralistico, è il segno dell'astrattezza e immaturità delle proposte. Non so quale partito oggi, in Italia, discuterebbe o accetterebbe sul serio alla Camera una legge sulla denuncia pubblica dei finanziamenti. La realtà da esaminare è forse un'altra: è lo stato di immobilità e di conservazione che l'equilibrio delle forze politiche italiane favorisce. Questa situazione i

mpedisce, ad esempio, la formazione di nuove forze e di conseguenza, una vera concorrenza ed una sostanziale dialettica tra i partiti. La stessa legge elettorale, stabilendo il limite dei trecento mila voti alla rappresentanza in Parlamento, è stata ispirata dallo spirito conservatore dei partiti esistenti contro la affermazione delle nuove forze. Il quadro politico, dal 1944 a oggi, è all'incirca lo stesso, ed in esso campeggiano i due partiti di massa (DC e PCI) che trovano il finanziamento al di fuori del tesseramento o del contributo dei soci e che sono, di fatto, le più grandi forze di conservazione dello spirito burocratico dei partiti.

Guardando agli anni passati si potrà osservare un fenomeno: molti partiti sono morti dopo una breve vita e i nuovi, in genere, hanno avuto vita difficile e travagliata. Inoltre, i nuovi partiti sono nati più da scissioni che da spontanei raggruppamenti di forze. Il limite della legge elettorale ha giocato un ruolo assai negativo in queste vicende: oggi, è impossibile che una nuova forza possa superare una prova elettorale ed avere una pur piccola rappresentanza in Parlamento. Quindi non c'è ricambio e non c'è formazione di nuove classi dirigenti: il fenomeno del distacco dell'opinione pubblica dai partiti è dovuto anche a questo. I cittadini, convinti che votare per un partito "nuovo" significhi "disperdere" il voto, continuano a preferire i partiti consolidati, ma senza più sentire l'importanza della scelta e senza consentire ai loro programmi.

Tutti, in Italia, sono d'accordo nel dire che le minoranze sono il fermento necessario della democrazia, ma un certo spirito conformista condanna perfino le minoranze interne ai partiti. C'è un bisogno diffuso di tranquillità che spesso diventa quietismo: si ha paura delle idee nuove e delle concorrenze impreviste.

Contro una situazione simile non ci sono rimedi "strutturali", ma solo schiettamente politici. Bisogna rompere il monopolio di certi partiti per giovare alla libertà di tutti. Occorre che forze nuove, politiche, sociali, culturali abbiano la forza di presentarsi alla ribalta con programmi intransigenti, con prospettive concrete e con disegni a lunga scadenza.

Non ha importanza che siano veri e propri partiti o movimenti o gruppi di pressione. Devono proporsi scopi diversi da quelli ormai tradizionali dei vecchi partiti, compiti d'avanguardia e di rottura, devono fondarsi su alcuni problemi abbandonati dalle altre forze politiche e prospettarli al paese, con coraggio e spregiudicatezza. Non ha importanza il numero degli iscritti o degli elettori, ma la attualità delle proposte e il fervore degli animatori.

Non è escluso che gli stessi partiti dell'attuale schieramento ne riceverebbero un impulso a rivedere i loro programmi, a liberarsi dalle vecchie abitudini, da certe strutture, da certi vincoli, e a "dialogare" con rinnovato fervore.

 
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