Achille OcchettoSOMMARIO: Negli anni 1962-63, mentre si varano i primi tentativi di centro sinistra, il Partito radicale entra in crisi, diviso sull'atteggiamento da assumere: confluenza nel Psi, accordo con il Pri, avvicinamento al Pci, unità d'azione con tutte le forze della sinistra democratica, escluso il Pci. Nell'autunno del 1962, la maggioranza del Pr che fa capo al "Mondo" e all'"Espresso" (Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti) esce dal partito tentandone la distruzione; Leopoldo Piccardi ed Ernesto Rossi seguono una strada diversa, fondando, con Ferruccio Parri, un nuovo settimanale, "L'Astrolabio" che diverrà il portavoce degli "indipendenti di sinistra"; Eugenio Scalfari si collocherà nell'area del Psi, partito nel quale sarà eletto deputato nel 1968. La corrente di sinistra del Pr (Marco Pannella, Gianfranco Spadaccia) che è fortemente critica nei confronti del centrosinistra, non accetta lo scioglimento del partito e si trova così a gestirlo da sola.
Il segretario della Federazione giovanile comunista, Achille Occhetto, interviene su questa crisi del Pr con un articolo su "Nuova generazione". "...la crisi dei radicali non può non apparire come un primo tentativo di spezzare il nodo gordiano di cui le forze minori, laiche e democratiche, oggi si sentono prigioniere; e cioè...se devono affidare la loro funzione politica ad un mero compito di stimolo all'interno dell'operazione democristiana o piuttosto se non sia più opportuno affrancarsi da questa". I radicali ", per dirla con una battuta che non va presa alla lettera, tra Prampolini e Gramsci, scelgono la via di Gobetti."
(Nuova generazione - marzo 1963)
Nell'attuale delicata congiuntura e nella situazione di precario equilibrio in cui si trovano le forze politiche italiane, la più piccola modificazione all'interno di una di queste assume una rilevanza che in altri momenti non avrebbe avuto e introduce, in qualche modo, elementi di giudizio nuovi che vanno prontamente considerati. Infatti, la stessa crisi sorta in seno al Partito radicale con l'uscita da quel partito del gruppo moderato e liberale del "Mondo" e del gruppo di derivazione azionista e parasocialista di Scalfari, ci pare vada collegata alla nuova fase politica che si è determinata in Italia in questi ultimi mesi e, in particolare, con la formazione del governo di centro-sinistra.
In un certo senso, e in via indiretta, possiamo ravvisare, in ciò che è avvenuto nel Partito radicale, una corrispondenza con il disagio in cui si è venuta a trovare la sinistra democristiana dopo Napoli e che ha investito anche altre correnti laiche di sinistra che avevano a lungo contato che la politica di centro-sinistra avrebbe avviato un processo di rottura nel partito cattolico, distinto le componenti democratiche da quelle moderate. Questo disagio diffuso nasce dal delinearsi, all'interno delle stesse forze di centro-sinistra, di una nuova differenziazione che tende a distinguere le componenti che, in modo ancora impreciso e mitico, intendono realizzare una reale svolta nella vita del paese da quelle che ormai hanno barattato, come i socialdemocratici, la propria primogenitura democratica (se mai l'hanno avuta) con la democrazia cristiana.
In definitiva la crisi dei radicali italiani non può non apparire come un primo tentativo di spezzare il nodo gordiano di cui le forze minori, laiche e democratiche, oggi si sentono prigioniere; e cioè di rispondere al quesito se esse devono affidare la loro funzione politica ad un mero compito di stimolo all'interno dell'operazione democristiana o piuttosto se non sia più opportuno affrancarsi da questa e rompere con la fraseologia e i temi di una "sinistra democratica" che trova nella lotta ai contrapposti totalitarismi di destra e di sinistra il proprio alimento ideale. Di fronte a questo problema, che è in definitiva il problema dello sviluppo della clemenza nella nuova fase politica, le due correnti fondamentali del partito radicale, quella "neo-liberale" e quella "azionista" hanno gettato la spugna e si sono dimostrate incapaci di risolvere autonomamente il compito principale che stava loro innanzi; il compito cioè di conciliare gli intenti democratici e liberali della loro tradizione ideale con le que
stioni poste dallo sviluppo del capitalismo di Stato e la progressiva funzione di direzione che i gruppi più dinamici del capitale monopolistico impongono a quella politica di centro-sinistra che essi avevano accolto e propugnato in chiave democratica.
Non a caso in questa situazione di crisi ideale delle vecchie componenti del partito radicale, sono i giovani (di destra e di sinistra) che provengono dall'esperienza democratica del movimento studentesco e dell'Ugi, a trovare in se stessi la forza di continuare la battaglia radicale, a intuire in modo ancora confuso sul piano ideologico, la funzione autonoma cui oggi può assolvere un partito radicale che sappia superare le tradizionali impostazioni del riformismo e del liberalismo classico. E' anche questo un segno dei tempi.
Il nuovo campo di lotta imposto da tutta la situazione politica ed economica del paese e dalla nuova linea democristiana chiude l'arco dell'esperienza storica di alcune correnti ideali tradizionali, e di quelle forze antifasciste che si sono ormai dimostrate incapaci di superare le tradizionali impostazioni del riformismo e del liberalismo classico. E' anche questo un segno dei tempi.
Il nuovo campo di lotta imposto da tutta la situazione politica ed economica del paese e dalla nuova linea democristiana chiude l'arco dell'esperienza storica di alcune correnti ideali tradizionali, e di quelle forze antifasciste che si sono ormai dimostrate incapaci di superare una concezione meramente "difensiva" dell'antifascismo, limitandone la validità unitaria alla semplice lotta contro il pericolo della destra classica e rifiutando qualsiasi discorso positivo sulla prospettiva. Questa impostazione propria della "sinistra democratica", come il nostro giornale ha più volte inteso sottolineare, finisce fatalmente per aprire il varco a nuove forme, più raffinate e moderne, di autoritarismo.
E' da questa forma di impotenza politica che in modo particolare i giovani radicali intendono preservarsi, e ciò grazie alle nuove caratteristiche della esperienza unitaria che è maturata in questi anni nel movimento studentesco; infatti la maggior parte dei giovani radicali che costituiscono oggi l'ossatura del Partito radicale e della nuova direzione nazionale si erano da tempo posti, nella loro azione nell'Ugi a fianco delle componenti socialiste e comuniste, al di qua delle vecchie e ormai superate contrapposizioni tra centrismo e frontismo, rifiutando con ciò anche la nuova contrapposizione della "sinistra democratica" al totalitarismo comunista.
Ma non solo; essi hanno capito, guidati forse più dal fiuto politico che da una precisa sistemazione ideologica, che se il centro sinistra a qualcosa doveva portare, questo qualcosa doveva essere rappresentato dal definitivo superamento della formula equivoca e storicamente falsa e discriminatoria della "sinistra democratica"; mentre in realtà questa formula, nel disegno fanfaniano, si colorava, oltreché dei nuovi riflessi modernizzati, dei vecchi colori centristi.
Non a caso quindi nell'improvvisata mozione finale del recente consiglio nazionale radicale si parla di sinistra italiana ( e non più di "sinistra democratica") e nell'ambito di questa viene collocata la funzione politica dei radicali italiani.
Ma non solo di questo si tratta; più rilevante ci pare lo spirito generale, che anima questo documento, e che si può riassumere nel tentativo, di intonazione gobettiana, di salvare il problema della libertà nell'ambito di un rinnovamento sociale del paese e quindi di un contatto più stretto con la classe operaia.
Come infatti sostiene la mozione ricordata, il Partito radicale ritiene che "la sinistra italiana si qualifica con il porre i problemi economici e sociali del paese innanzi tutto come problemi di libertà", e ciò i radicali intendono proporre riconoscendo "nella sinistra italiana ed europea i propri interlocutori ed in questo spazio vogliono agire come una componente rinnovatrice, consapevoli della crisi ideale e politica che investe il liberalismo, il socialismo e la democrazia in Europa". In definitiva, per dirla con una battuta che non va presa alla lettera, tra Prampolini e Gramsci, essi scelgono la via di Gobetti.
Questa strada, oltre ad apparirci più giusta per i radicali, ci sembra possa riscattarli definitivamente dalla lunga subordinazione condivisa con altri partiti minori, alla politica centrista della Dc.
Però i radicali, e sopratutto tra essi i giovani, nel battere questa nuova via non possono nascondersi che è necessaria una buona dose di coraggio politico e intellettuale, una precisa volontà di uscire dai limiti della tradizionale politica trasformista e manovriera, per trovare accanto al movimento operaio la propria funzione politica. In questo senso il richiamo a Gobetti, anche se assume un valore ancora mitico e impreciso, trova oggi la sua giustificazione storica nell'indifferenza, propria del pensatore torinese, nei confronti della confusa agitazione demagogica, del pauroso ripiegamento retrivo del riformismo e delle componenti illiberali del "socialismo di Stato". D'altronde non è un caso che l'incontro del liberalismo con la classe operaia nascesse, a differenza che a Napoli, proprio a Torino ove si formava il primo nucleo dell'industria e si ponevano i nuovi problemi dell'autoritarismo moderno.
Ciò infatti era determinato dalla consapevolezza crescente del carattere di piccolo Stato assoluto e autoritario che veniva assumendo l'organismo industriale moderno. Questa consapevolezza si ripropone oggi ai gruppi più attenti di giovani radicali e si ripropone a un livello più avanzato, in quanto nella lotta per le autonomie contro la burocrazia dello Stato accentratore e nella libertà intesa come lotta di classe autonoma dalle dottrine neocapitaliste si ha il punto di incontro con il movimento operaio.
Per questo, e per l'originale ruolo che i comunisti italiani sono soliti attribuire alle avanguardie intellettuali nell'ambito della rivoluzione italiana, la presenza di un nuovo nucleo radicale agguerrito e combattivo può assolvere, a nostro avviso, ad una funzione importante; con queste forze noi ci troveremo anche a scontrarci nella battaglia delle idee, ma a convergere sulla prospettiva di una originale azione democratica e rivoluzionaria.
La formazione di un nuovo blocco storico infatti non può avvenire che attraverso una profonda ed interna dilacerazione delle tradizionali forze politiche borghesi, né è da intendersi come una mera sovrapposizione frontista" (come si usa dire) allo scontro proficuo delle varie impostazioni culturali; però su una cosa soltanto non è possibile dilazionare l'accordo, e cioè sulla consapevolezza, da cui tutti devono sentirsi animati, che lo sviluppo della democrazia non può essere scisso da un'azione che, partendo da tutti i settori della società, si prefigga di limitare e spezzare il potere dei grandi gruppi monopolistici, di superare l'alienazione del lavoro, la sottomissione della cultura e di tutte le attività creatrici dell'uomo agli imperativi del profitto.
La libertà, e in ciò concordiamo con la mozione radicale, è seriamente minacciata in tutta l'Europa capitalistica; per difenderla bisogna superare le attese, approdare ad una concezione positiva e fattiva delle alleanze e delle convergenze, non attendere il peggio perché sarebbe poi troppo tardi.
Per questo invitiamo i radicali italiani a proseguire la strada intrapresa sviluppandone con coraggio tutte le implicazioni; ma allora è necessario non tornare sui propri passi, ricordando, con Gobetti, che "la conciliazione è un risultato sempre nuovo della lotta: affermarla a priori significa annientare i liberi sforzi mentre sorgono".