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Pannella Marco - 1 dicembre 1966
Socialdemocrazia e riforme
Marco Pannella

SOMMARIO: Il 30 ottobre 1966 si teneva l'assise di riunificazione socialista. Il Psi ed il Psdi - separatisi con la scissione di palazzo Barberini del 1947 - davano vita al partito socialista unificato (Psu). Più che di una unificazione, però, si trattò di una sommatoria tra gli apparati dei due partiti. Nel luglio del 1969, anche in conseguenza dei non esaltanti risultati ottenuti dal nuovo partito alle elezioni del 1968, si verificava una nuova scissione con la rinascita dei due precedenti partiti.

In questo lungo intervento uscito su "Corrispondenza socialista" alla fine del 1966, Pannella fissava la posizione dei radicali nei confronti di questa operazione. L'articolo è anche un'ampia esposizione delle analisi e delle proposte radicali.

(Corrispondenza Socialista - Dicembre 1966 da " Marco Pannella - Scritti e discorsi - 1959-1980", editrice Gammalibri, gennaio 1982)

Il partito socialista unificato si forma mentre il progressivo europeizzarsi della nostra società fa nascere anche in Italia, nelle grandi masse lavoratrici, una più moderna ed esigente volontà democratica e laica. Antiche caratteristiche e tare del nostro Paese, legate al predominio di strutture culturali e sociali di origine controriformistica e clericale, d'un tratto si trovano scoperte agli occhi delle grandi masse dei cittadini, che prendono coscienza di quali siano le tradizioni autoritarie e reazionarie che sorreggono l'attuale regime.

La conoscenza sempre più estesa e approfondita delle caratteristiche essenziali delle società civili si traduce nella spontanea denuncia di una situazione politica in cui ciascuno, operaio o intellettuale, studente o pensionato, credente o ateo, si sente ogni giorno meno libero e responsabile. Opposte cristallizzazioni ideologiche hanno fin qui intrinsecamente limitato - a prescindere dalla ovvia e preminente funzione svolta in questo senso dal clericalismo - questa forma di coscienza.

Il "liberalismo" - tutto teso a una rivendicazione di libertà che potremmo chiamare del "tempo libero", che prescindeva cioè in concreto dall'analisi delle effettive condizioni di esistenza e di lavoro in cui tanta parte della vita umana si consuma - ha per decenni difeso solo concetti e forme di libertà il cui esercizio era storicamente vietato, e continuava a essere vietato, alle grandi masse lavoratrici. Così, per popolazioni in cui l'analfabetismo era ancora prevalente, la libertà di esprimere o formare le proprie opinioni attraverso la libertà di stampa non poteva che costituire l'eco di un mondo loro vietato; e la libertà di pensiero e di parola, connessa intimamente alla libertà di ricerca e di studio, si sostanziava in strutture civili in cui il dibattito e la discussione pubblica erano possibili solo per estreme minoranze; l'uguaglianza davanti alla legge si vanificava; l' impossibilità di conoscerla si traduceva nell'impossibilità di riconoscere il proclamato carattere di tutrice dei diritti di cia

scuno, impedendo in definitiva l'uso dell'amministrazione della giustizia; la libertà di coscienza e di culto non poteva che interessare i pochi, occasionalmente raggiunti dalle polemiche religiose che avevano cittadinanza in tutto il mondo civile ma non in paesi come l'ltalia. Così, per non aver voluto o saputo difendere in concreto le libertà storicamente negate alla maggioranza dei cittadini, a partire dal rapporti di lavoro e dalle loro implicazioni sociali, il liberalismo teorizzatore dello Stato di diritto svolgeva praticamente in Italia una funzione di classe e usava di fatto del suo patrimonio ideale in questa prospettiva.

Contemporaneamente il mondo socialista, specie con il sopravvenire della "rivoluzione d'ottobre", accantonava la pur secolare sua tradizione rivolta alla emancipazione politica dell'uomo, oltre che a quella economica, relegando nel dimenticatoio, o addirittura nel calderone delle idee scomode o nemiche, ideali che s'incarnavano storicamente con la volontà di liberazione del mondo moderno.

Oggi, dicevo, la società italiana si europeizza, si civilizza. Guardate cosa avviene, ad esempio, in fase di divorzio. Famiglie dannate da decenni, figli che hanno sofferto da sempre di condizioni sociali minorate, uomini e donne che vivono per loro e per i loro successori in un clima di continuo timore e inferiorità, centinaia di migliaia di emigrati o di separati da emigrati, rassegnati fino a ieri a considerare umanamente non risolvibile la propria situazione, milioni di cittadini, in totale, prendono coscienza di cosa significhino Stato clericale, laicismo e confessionalismo, diritti del cittadino, una società libera o una società incivile oppressa. Se molto spesso essi centreranno inizialmente nella particolare aspirazione che li concerne più direttamente - la loro esigenza di laicizzazione dello Stato - contemporaneamente essi prendono anche coscienza di secolari opposizioni, di scelte fondamentali che in Italia hanno potuto essere rimandate solo attraverso una concezione rigidamente cattolica e populi

sta della politica. E' in definitiva la politica stessa che emerge per la prima volta, per milioni di esseri, in tutta la sua importanza, tutta la sua intelligibilità, nella sua autonomia e nella sua forza, buona o cattiva. V'è qui in generale un fenomeno di "partecipazione" che cerca ed esige di esprimersi in forme istituzionali che non si ritrovano in questo Stato, e forse meno ancora nei partiti tradizionali così come si sono strutturati e continuano a strutturarsi. E, qui è il punto, senza il realizzarsi della "partecipazione" del cittadino alla vita pubblica, non si ha "consenso", non si ha forza democratica; si avranno tutt'al più seguaci e sudditi, occasionali incontri, generiche simpatie, passive condiscendenze, diffidente rassegnazione e, alla lunga, ribellismi e rivolta.

Orbene, qual è il nesso fra questo momento di progresso civile della società e il fatto della unificazione così come avviene? Se fossero conseguenti con quanto per un anno hanno scritto su Corrispondenza Socialista, molti degli intervenuti nel dibattito sull'unificazione socialista converrebbero che i Nenni, i De Martino, i Tanassi e gli Orlandi hanno mostrato di essere radicalmente estranei a ogni loro istanza di serio rinnovamento, e che non si sono preoccupati d'altro che di "congelare" e rafforzare la chiusura burocratica già esistente nel PSI e nel PSDI. Il partito unificato, così come quelli hanno voluto prefigurarlo attraverso la Carta ideologica e le procedure prescelte, sarebbe ben più provinciale, arcaico, impotente di quanto non fossero già divenuti i due partiti. Tant'è vero che, per realizzare questa operazione, si sono sospese le garanzie democratiche pur minime esistenti negli statuti e nelle prassi del PSI e del PSDI, costituendo anche ufficialmente in burocrazia la classe dirigente, a ogni l

ivello, del partito unificato, che vedrà così vanificarsi ogni dibattito interno, fin dopo le prossime elezioni politiche, dalla proclamata inamovibilità dei dirigenti.

Contro chi è stato proclamato questo principio dell'inamovibilità se non contro coloro cui si rivolgeva l'appello di aderire al nuovo partito (che non avrebbe dovuto essere, si diceva, la pura e semplice somma dei due preesistenti)? Contro cosa, se non contro i nuovi fermenti, i nuovi obiettivi che scaturiscono dalla base, connessi ai cambiamenti in atto nella società italiana? Contro lo stesso mito "socialdemocratico" che deve ormai essere controllato. Ora che di esso v'è più esatta e larga conoscenza nel nostro Paese, diventa anch'esso pericoloso per una classe dirigente esaurita perfino nelle sue capacità trasformistiche. Perciò non vi diremo, come dicono i comunisti, i socialproletari e i socialisti che hanno lasciato il PSI in queste settimane, di non essere con il PSU perché contrari alla "socialdemocratizzazione" dell'ltalia. Anzi, cominceremo proprio col rilevare che nelle procedure e nelle scartoffie della unificazione, coloro che ne sono i principali attori mostrano di non voler nemmeno questo o di

non saperlo volere.

Cosa infatti nel comune linguaggio politico si intende per socialdemocrazia? Cosa, dietro i ricorrenti esempi scandinavi o inglesi, in genere voi stessi evocate? Tralasciando quanto è proprio a una forza genericamente democratica e liberale, ci si riferisce a una società in cui il soddisfacimento di essenziali bisogni umani viene garantito dalla collettività a ogni uomo per il solo fatto di essere nato. E viene garantito nel rispetto assoluto della democrazia politica e della civiltà laica, affermando come inalienabili e tutelate, e promosse dallo Stato, le libertà di coscienza, di pensiero, di espressione, di morale. Sono società in cui, a quanto si afferma in gran parte a ragione, l'uomo ha vinto i tradizionali ostacoli naturali alla propria esistenza, quelli derivanti dalla natura, dall'età, dalle malattie, dalle disfunzioni sociali ed economiche, fondando questa vittoria sulla libertà di ciascuno. Si è cioè realizzato in genere un piano di sicurezza sociale che ha portato a parlare di "Welfare State", "s

tato assistenziale", in cui in effetti la vecchiaia non è più una quotidiana, mortificante scommessa di sopravvivenza, in cui il lavoro viene garantito e in condizioni moralmente tollerabili, l'infanzia è protetta, educata, istruita, la malattia curata . Ammettiamo questo quadro, in questa sede rinunciando alla pletora di "se" e di "ma" che pure affollano subito la mente di ciascuno di noi dinanzi ai gravi problemi che si trovano oggi ad affrontare le società "socialdemocratiche" scandinave.

Ebbene, queste realizzazioni possono costituire in una società come la nostra una lecita prospettiva; personalmente tenderei anzi a considerarle imperative e non dilazionabili. Aggiungiamo che ovunque queste realizzazioni sono state possibili, si sono realizzate attraverso l'unità politica e partitica della stragrande maggioranza dei lavoratori, costituitisi sempre in forza alternativa, Laica, socialista. Non vi è esempio di "Welfare State" sorto in condizioni politiche diverse e meno che mai in situazioni caratterizzate dalla rottura del movimento operaio e dalla collaborazione sistematica con le forze borghesi integrate da quegli strati di sottoproletariato che queste stesse forze della borghesia riescono spesso a mobilitare. Ma poiché so che quel che non è stato può avvenire domani o anche oggi, venivamo allora a osservare più da vicino, per citazioni esemplari, la realtà italiana quale i socialisti democratici finiscono per individuarla.

Chi è d'accordo e chi è contrario nel nostro Paese, non solo sul piano ideologico, ma per interessi "obbiettivi", a realizzare un razionale e strutturato intervento pubblico nel campo dell'assistenza e della previdenza? Il ministro Mariotti, nel denunciare i "lager" che spesso hanno nome di cliniche o di ospedali nel nostro Paese, ha indicato una volontà pregiudiziale di riforma in questo settore. Ebbene, chi si è immediatamente posto contro? Chi possiede, gestisce, amministra, sgoverna e mortifica il settore dell'assistenza pubblica? Per gran parte "opere pie", enti "religiosi", organizzazioni confessionali, gli strumenti cioè della rivendicazione clericale del monopolio dell'assistenza. Nè si tratta solo di un'eredità storica, difficilmente liquidabile, ma di una continua, quotidiana azione di liquidazione di quanto lo Stato e gli enti pubblici avevano salvaguardato durante il fascismo, di un sacco sistematico dei fondi enormi che ogni anno la comunità spende prevalentemente in "rette" e in "contributi", e

largiti in misura e con modalità tali da aver creato in questi due decenni il più gigantesco accrescimento del patrimonio ecclesiastico o clericale dal 1870 a oggi.

Spesso si afferma che difficoltà di bilancio impediscono allo Stato e ai competenti enti pubblici di realizzare opere e strutture assistenziali proprie: ma l'affermazione è smentita dal fatto che con le sole sovvenzioni pubbliche il mondo clericale ha creato e sta creando queste strutture, che sono fonte evidente e sistematica di ulteriore arricchimento finanziario e di forza sociale. Sul piano più specifico della previdenza sociale e degli enti mutualistici, lo Stato ha consentito - con il sistema che ha prescelto sotto la pressione degli interessi privati che si esprimono principalmente attraverso la DC - superprofitti giganteschi, non cifrabili se non per somme che sono nell'ordine di grandezza degli stessi bilanci dello Stato, all'industria farmaceutica, a una cioè delle più esose forme di sfruttamento del lavoro e del cittadino.

I socialdemocratici italiani, è vero, hanno messo in questi venti anni lo zampino in tali settori, e un'inchiesta parlamentare in corso chiarirà con quale profitto di sottogoverno e di corruzione. Sul piano politico ciascuno sa che è stato questo uno dei più tristi e vergognosi momenti del regime attuale, a giustificare il quale sarebbe assurdo e spudorato invocare l'esempio laburista. E' dunque con il "centro-sinistra", è in collaborazione - sia pure difficile, tesa, contrastata - con il partito unico dei cattolici, che davvero è possibile realizzare in questo settore la radicale, difficilissima riforma "socialdemocratica"? O non invece con la cooperazione di tutti i gruppi e partiti della sinistra, a cominciare dai comunisti?

Non v'è città italiana in cui le fortune politiche della classe dirigente democristiana, di sinistra o di destra, non siano edificate anche o prevalentemente con il sistema di sfruttamento clericale (privato o parapubblico) dell'infanzia, della vecchiaia, della malattia, della miseria. Alla rivendicazione neotemporalistica degli ecclesiastici si aggiunge cosi, autonoma, la necessità di sopravvivenza politica dei ministri e dei sindaci, dei segretari provinciali della DC e dei maggiorenti di tutto il regime.

Ecco un esempio di riforma "occidentale", di metodo democratico, di obiettivo giusto che diviene, in quanto tale, elemento di crisi del "centrosinistra" e oggetto di compromessi prima ancora che venga proposta e portata in Parlamento, mentre l'unità delle sinistre potrebbe facilmente imporla.

E veniamo, sempre a titolo di esempio, ai diritti civili del cittadino. Esistono nel nostro Paese, da sempre, condizioni sociali gravissime nel settore della famiglia. Per decenni i "leninisti" nostrani, con la loro polemica "antiborghese", e i socialisti "democratici" sì ma "classisti", hanno relegato il problema del divorzio, di una legislazione laica e autonoma dello Stato a favore della famiglia, tra i miti anticlericali della borghesia. Di conseguenza, per altrettanti decenni gli abbienti hanno avuto accesso alla Sacra Rota, agli annullamenti e ai divorzi stranieri, mentre da decenni, in una società in cui l'emigrazione interna ed esterna ha costituito forse il più massiccio fenomeno sociale di questi secoli. Gli emigranti analfabeti del Veneto e della Calabria che si trasferivano nelle Americhe lasciavano "vedove bianche", donne condannate alla schiavitù della miseria e dei figli e alla solitudine materiale e morale; lì le famiglie crescevano, ma crescevano ancor più in tutto il triangolo industriale u

nitamente al fenomeno degli illegittimi.

D'un tratto, innestandosi sulla pertinace, dura ma soffocata polemica radicale, l'iniziativa di un parlamentare socialista, autonomista di "destra", l'on. Loris Fortuna, sostenuto da un movimento di opinione (sollecitato anche dalla campagna isolata di un settimanale "popolare" quant'altri mai), riesce a proporre al Paese, attraverso il Parlamento, una possibilità di soluzione. Con chi l'attuerete, se vorrete rifiutarla, amici socialisti unificati? Con i democristiani? O vi direte ancora quanto nemmeno i comunisti, nemmeno gli stalinisti sostengono più: essere questo un paese "cattolico" e perciò immaturo.

Il problema della casa... Altro obiettivo "socialdemocratico". Dov'è, a distanza di tanti anni, la riforma urbanistica? Forse che il ministro Mancini e il suo partito sono acquisiti "direttamente" agli interessi particolari che stanno distruggendo, com'è stato detto per Agrigento, le nostre città, le campagne, i monti, i litorali, che stanno incatenando la vita sociale a forme di urbanesimo oltraggiose e stanno corrompendo una vastissima area della attività politica? Non lo credo, non può essere vero, non è ancora vero. Ma da che parte vivono e crescono rigogliosi, disponendo di un ampio potere sociale, politico, economico, i nemici di queste riforme, coloro che devono combatterle? Possono davvero, gli altri gruppi e partiti di sinistra, pur nei loro eventuali diversi metodi e piani, non votare e la riforma urbanistica e quei piani di edilizia popolare che nell'interesse del 99 per cento della popolazione italiana potrebbe il ministro Mancini proporre in Parlamento o elaborare e comporre il partito unificato

?

Dopo vent'anni di politica edilizia popolare (e giustamente in questo caso converrebbe ricordare il carattere populista e non democratico-popolare della DC), che ha dato i risultati che conosciamo, quale miracolo vi consentirà di proporre queste riforme per queste generazioni, sottraendovi all'abitudine di proiettare le realizzazioni della socialdemocrazia europea degli anni Trenta e Quaranta come il "paradiso" per le generazioni italiane del Duemila? Anche qui il Paese non è maturo?

Ho fatto alcuni esempi "concreti", legati alla politica delle cose, alle cose possibili, a quelle sulle quali il 95 per cento dei cittadini italiani, se interpellati, esprimerebbero il loro consenso, apertamente, al di là delle ideologie e dei partiti, totalmente refrattari ai vostri "se" e "ma" e "no". L'equivoco populista di tutte le forze socialiste vi aiuta su questa strada: il fatto che il sottoproletariato fosse governato e strumentalizzato dal clero e, attraverso di esso, dall'industria, dalla finanza, dai padroni del vapore e dallo Stato corporativo, v'è sempre apparso poco chiaro e importante rispetto al fatto che l'autoritarismo clericale nel nostro Paese ha trovato anche forme di espressioni fasciste, e monarchiche, oltre che democristiane, come se questo blocco non si potesse presagire prendendo nozione del predominio delle forze clericali e controriformiste della società.

Tralascio altri esempi (il cui senso, come per la scuola, può darsi per scontato) per venire alle dimensioni ideali della lotta politica contemporanea, che così spesso vengono invocate dagli attori dell'unificazione come determinanti per una società di "centro-sinistra", di collaborazione con la DC e di rottura con i comunisti.

Giustamente e correttamente Guy Mollet ha recentemente rilevato che la rottura fra comunisti e socialisti avvenne, e si aggravò, sulla pretesa della Internazionale, ormai a direzione bolscevica, di imporre al movimento socialista i due dogmi della ineluttabilità della guerra come mezzo rivoluzionario, e del rifiuto della democrazia politica ritenuto strumento del demonio di classe della borghesia. Ne discendeva automaticamente tutto l'armamentario che abbiamo ben conosciuto e per quanto riguarda noi radicali sempre combattuto: dittatura del partito unico del proletariato, mito rivoluzionario basato sui baffi di Giuseppe Stalin e sulla "realtà" del socialismo in un solo Paese, itinerario strategico in due tempi (socialista l'uno, comunista l'altro), internazionalismo sempre più fasullo ideologicamente e politicamente - anche se moralmente e umanamente comprensibile, se non giustificabile. Avemmo per questa via da una parte la storia dei "socialtraditori" peggiori dei fascisti, e dall'altra la storia (meno teo

rizzata e in qualche momento meno ingiustificata) dei "senzadio" stalinisti peggiori dei conservatori.

Ma oggi? Oggi ha ragione Mollet nel rilevare che le motivazioni della rottura fra comunisti e socialisti sono cadute con la rovina dello stalinismo. Certo, non potete ragionevolmente aspettarvi che Longo e Amendola o Ingrao vengano avanti con una dichiarazione giurata e protocollare di ripudio della dittatura del proletariato o di accettazione del pluripartitismo nella società socialista o di ripudio della guerra come mezzo rivoluzionario. Messi su questa strada sentirebbero il bisogno di chiedere altro, di sottoporli alla prova della verità e di estendere l'inquisizione a ogni dirigente nazionale, internazionale o periferico. Nè d'altra parte potete pretendere che possano applaudirvi e venirvi a votare in Parlamento fin quando vi troverete alla destra di Kennedy e di Morse e della maggioranza degli uomini politici e democratici americani sulla guerra del Vietnam, per omissione di intervento specifico nella polemica e per l'abitudine di recitare il rosario della fedeltà atlantica, o fino a che non farete nem

meno le preghiere pubbliche che pure papa Paolo ha almeno intonato per la pace. Perché anche in questo è patente l'arretramento rispetto alla politica estera della socialdemocrazia scandinava e anche della Federazione democratica e socialista francese, e al massimo esistono nel partito unificato nuclei di riserva neutralista, ma nessun fermento ancora esplicito di pacifismo e internazionalismo socialista.

Ed è questo un isolamento sempre più marcato, che il "nuovo" partito rischia di scoprire con qualche ritardo. Ovunque, in questi mesi i partiti dell'internazionale socialista stanno radicalmente mutando posizioni. D'un tratto, molti di essi si trovano molto più a sinistra di Nenni e De Martino. E' vero che costoro si sono mossi verso destra in maniera molto più rapida di quanto essi non facciano verso sinistra: ma la situazione vale la pena di essere ricordata. In Austria il partito socialdemocratico accentua le sue posizioni neutralistiche. In Francia Mollet dichiara apertamente che l'unica riunificazione che in Europa deve oggi occupare i democratici-socialisti è quella con i comunisti. In Finlandia, per la prima volta dal 1948, socialdemocratici e comunisti sono uniti, su un programma socialdemocratico, al governo. Gli elettori socialdemocratici scandinavi, in Norvegia, Svezia e Danimarca, confortano di sostanziali aumenti non sospetti i partiti di opposizione di "estrema sinistra", comunisti e socialisti

di sinistra. Nella stessa Germania, Brandt e Wehner ricercano il colloquio con la SED.

I nostri socialisti unificati potranno senza dubbio ancora per qualche tempo rifiutare, con alcuni tatticismi e rinvii, l'evidenza dell'unità di obiettivi, sempre più ampia, fra comunisti e socialdemocratici, messa in rilievo dalla situazione internazionale non meno che da quella più specificamente italiana. Ma, pensiamo, non per molto. Dalla lotta a Tambroni alla nazionalizzazione dell'energia elettrica, dall'elezione di Saragat alla Presidenza della Repubblica alle lotte operaie dei metalmeccanici degli anni scorsi; dai casi Trabucchi ai pochissimi altri in cui la sinistra ha salvaguardato dinanzi ai cittadini la sua dignità e quella dello Stato, già molti sono gli esempi forniti dalla cronaca politica recente.

La stessa azione di alcuni fra i massimi esponenti governativi e parlamentari del partito unificato, noti per le loro posizioni di rottura con il PCI, sembra paradossalmente confermare che quanto molti comunisti e radicali e socialisti avevano pur sperato di utile nella Costituente mancata saranno gli avvenimenti politici a proclamarlo. E' infatti possibile che l'onorevole Mancini tragga la sua forza di resistenza e di denuncia su Agrigento dalla velleità di svuotare così le funzioni di protesta del PCI, oltre che di quelle radicali e socialproletarie. Guadagnerà, certo, così, qualche decina di migliaia di voti nella sua circoscrizione, aumentando in popolarità, e spuntando alcune accuse di inefficienza e di integrazione alla DC che vengono lanciate alla delegazione di governo del PSI. Ma, in definitiva, e su un piano ben più duraturo e grave, egli avrà contribuito alla battaglia tipica dell'opposizione: che è quella di mostrare che la responsabilità di questo regime e del deterioramento della democrazia è n

el mondo clericale, e che in ogni grande battaglia di progresso o di salvaguardia democratica, lì, e non fra i comunisti, è oggi il nemico.

Lo stesso accade al ministro Mariotti: egli avrà certo sperato, negli anni scorsi, di potersi affermare come il portavoce italiano d'una socialdemocrazia che ovunque ha assicurato o tenta di realizzare in Europa vasti piani di sicurezza sociale e uno stato assistenziale. Già ora, per molti versi, non resta di questa volontà che una indicazione della sfrontata manomissione clericale dell'assistenza pubblica e della previdenza sociale, con alcune purulente appendici nella burocrazia di un partito alleato. Ecco, di nuovo, che gli stessi "unificatori", dalla velleità anticomunista, creano essi stessi le premesse per i nuovi e più profondi schieramenti unitari, dai comunisti a loro stessi, verso il loro "laburismo" italiano e contro la DC.

C'è poi l'iniziativa dell'on. Fortuna per il divorzio, che lega per la prima volta da decenni il socialismo a una grande battaglia laica. Ammettiamo pure che, all'inizio, per l'on. Fortuna si trattasse di conferire al nuovo partito del quale anch'egli è incondizionato sostenitore, un ulteriore punto di vantaggio rispetto al PCI, non dimenticato autore del pateracchio costituzionale del'art. 7. Conosco abbastanza bene Loris Fortuna per sapere che non era questo il senso principale della sua battaglia; ma quand'anche lo fosse stato, che cosa ne sarebbe oggi? il PCI ha fatto in quest'anno, in senso laico, su questo delicato problema, passi da gigante, mentre tutta la DC, tutto il mondo clericale, si trovano costretti a confessare il tristo sanfedismo che è il presupposto e l'obiettivo della loro unità.

E senza Mancini e Mariotti, con i loro già notevoli limiti politici, con le loro contraddizioni, che li rendono ancora distanti dall'esprimere vere posizioni riformistiche, senza Loris Fortuna, cosa sarebbe questo "centro-sinistra" e questo partito unificato, se non la tomba di tutte le volontà e le iniziative di riforma e di rinnovamento maturate negli anni '50? Le regioni, le leggi urbanistiche, la moralizzazione della vita pubblica, la riforma della scuola pubblica e il suo potenziamento, una politica di pace e di autonomia, il federalismo europeo, una politica dei redditi che non fosse solo una versione della politica del blocco dei salari, una politica fiscale dignitosa invece della presente furibonda ripresa della tassazione indiretta su quella diretta, sempre più pesante contro i ceti meno abbienti?

Ecco perché non ci siamo, come radicali, lasciati determinare, nel nostro atteggiamento rispetto alla unificazione, dalle valutazioni espresse dal PSIUP e, in parte, dal PCI. Innanzitutto perché sapevamo che i due partiti che si unificavano erano entrambi, sia pure imperfettamente, socialdemocratici da sempre. In secondo luogo, perché nella società il modello socialdemocratico se è meccanismo ripreso, pure esso insufficiente e inadeguato, è pur sempre di fatto rivoluzionario rispetto al regime che ci governa, e comporta una rottura con il populismo e l'autoritarismo clericale che è la più grave remora allo sviluppo del nostro Paese. In terzo luogo, perché lo stesso modo con cui lo si è voluto far nascere, cosi burocraticamente, precostituendo sia il programma, che è un vero "vuoto" programmatico di natura tipicamente trasformistica, sia la classe dirigente, ne rende vane, per eccesso, le pretese antiunitarie e di puntellamento del "centro-sinistra" a base clericale.

Infine perché hanno forse ragione da una parte il PSIUP, e dall'altra l'opinione qualunquistica e moderata, nel ritenere che per gran parte della classe dirigente formatasi in questi anni nel PSDI e anche nel PSI (dal formaggio delle cooperative frontiste, alla torta del sottogoverno centrista e clericale) non veda molto oltre la possibilità di strappare con l'unificazione maggior potere contrattuale di sottogoverno verso la DC. Ma, questo, è già "parecchio".

Volete togliere ai clericali il monopolio dell'assistenza pubblica? Non potete farlo che "laicizzandola", strappandola alla secolare gestione ecclesiastica e delle forze economiche private a essa integrate. Non vi sarà poi altra via, per mantenere e accrescere questo "potere" acquisito, che superare ben presto il clientelismo, per fondarlo invece sul controllo e sulla gestione dei lavoratori.

Ammettiamo pure, ancora, che Nenni e Tanassi riescano, contro il sentimento prevalente nella base del partito unificato, ad affossare il progetto Fortuna per il divorzio, chiedendo nel contempo, pretestuosamente, al Paese di dar loro maggiore forza e suffragi per imporlo nella prossima legislatura: in tal caso sono poste le premesse per una crescita anticlericale e unificata della caratterizzazione del partito, al di là del calcolo che li muoverebbe. E così via. D'altra parte, questo del quale parliamo, appare a molti innanzitutto come il "partito del Presidente". Personalmente ho sempre creduto che si sia troppo sottovalutato e oggi si faccia male a non ricordare che fu proprio Saragat, in un non troppo lontano colloquio con Togliatti, a indicare ai comunisti e ai socialisti democratici lo stesso obiettivo storico che Guy Mollet oggi ritiene possibile perseguire in modo diretto, esplicito e immediato: un solo e comune partito socialista. Ora sarebbe inutile, a questo proposito, per stupide questioni di stil

e, tacere che è stato proprio l'impegno del più autorevole socialista-democratico italiano ad assicurare la permanenza di gran parte della sinistra del PSI (quella unitaria e antiatlantica) nel processo di unificazione; ad autorizzare maggior fondatezza a una prospettiva d'alternativa socialista, laica e democratica, e a consentire a certuni di parlare di non troppo lontana e fatale "liquidazione", pur attraverso burocratiche promozioni, del clan dirigente dei PSDI.

Mi sembra quindi, per concludere questo punto, di aver esposto qualche motivo valido a suffragare la convinzione, prevalente nel mio partito, che il vuoto ideologico e politico della dichiarazione di unificazione, e il "pieno" sempre più democratico, a volte genericamente democratico, delle risoluzioni comuniste degli ultimi anni, costituiscono una seria premessa a un radicale mutamento dei rapporti fra socialdemocratici e comunisti anche in Italia. Di questa unificazione, ormai, e non d'altre, nel 1967, sarà in fondo necessario cominciare esplicitamente a dibattere.

Ma, oltre questi dati, altri, meno clamorosi ma forse più interessanti, sono incontestabili e confortano le constatazioni che vado avanzando. In campo economico, la differenza che intercorre ormai fra le tesi e le proposte di un Leonardi e perfino di un Barca non sono così distanti da quelle di Giolitti o dall'"equipe" di tecnocrati socialisti democratici arroccati al ministero del Bilancio, o di quelli presenti nel settore pubblico, da potersi configurare altrimenti che come differenze e divergenze all'interno di uno stesso partito.

Sui problemi della scuola e della famiglia, le uniche differenze per ora riscontrabili sono sempre più quelle derivanti dalla partecipazione al governo con i clericali degli uni, e dalla azione di opposizione parlamentare degli altri...

Ogni giorno, in Italia, al sentimento di impotenza e di esclusione che ha ridotto i ranghi militanti del PCI negli ultimi vent'anni, s'aggiunge e s'affianca quello, più recente e drammatico, di coloro che nelle loro scelte sindacali e professionali, politiche e sociali, hanno creduto all'esistenza "nello Stato", cioè nel sottogoverno, di "stanze dei bottoni" e di attitudini a utilizzarle, capaci di garantire sostanziali mutamenti nei rapporti di classe e serie e responsabili riforme democratiche.

Così noi radicali, fermamente ancorati, nelle intenzioni professate e nella pratica politica di questi anni, all'obiettivo dell'unità e del rinnovamento della sinistra perché si realizzi in Italia e in Europa l'alternativa democratica e socialista, vediamo avvicinarsi il momento dell'unità e allontanarsi in qualche misura quello del rinnovamento, presupposto necessario perché la unità raggiunta si traduca in conquista di potere e in definitiva sconfitta delle forze reazionarie e clericali. Perché a nostro avviso, e non astrattamente ma in termini di prassi, quel che può potenziare il processo di integrazione della sinistra comunista e di quella non comunista è solo il recupero di una visione chiara, alternativa, della nuova società che sia pur lentamente, con riforme, democraticamente, vogliamo però cominciare fin da oggi a realizzare.

Vediamo allora, sia pure per esemplificazioni rapide, quali tipi di problemi sembra dover dibattere la sinistra posta dinanzi al fenomeni del nostro tempo.

Si afferma, da parte della sinistra non comunista, che le socializzazioni dei regimi comunisti non sono tali ma solo un passaggio al capitalismo di stato, a direzione burocratica, con i necessari corollari polizieschi e militaristi. C'è sicuramente del vero in questa affermazione. Ma come superare la contraddizione che si determina quando le forze socialdemocratiche non sanno proporre nulla di più che un progressivo e circoscritto trasferimento al capitalismo di stato di settori produttivi a gestione privata, e fondando comunque l'economia a due settori (che diffondono) sulla immutabilità dei rapporti di produzione, nel settore dello Stato non meno che in quello privato? Nè mi si dica che la tematica sindacale socialista è oggi volta consapevolmente a un mutamento di quei rapporti, perché invece non si è nemmeno sul piano del "capitalismo di popolo" e dell'azionariato popolare di Ehrart e di Malagodi, e nemmeno più al "Welfare State", ma alla pura e semplice accettazione ideologica della società dei consumi.

Qui tutte le forze socialiste devono trovare una risposta - anche il PCI che, se pur la cerca, non la trova malgrado il suo diretto contatto con le masse operaie e contadine e malgrado la maggior libertà di movimento di cui gode stando alla opposizione. Dei socialisti, inoltre, non possono pensare a proporre politiche e ideali che siano solo validi a livello nazionale o a partire da un particolare sistema. Dobbiamo trovare indicazioni finali a medio termine tali da costituire una risposta comune agli interrogativi che scaturiscono dalle due società industrializzate, la collettiva e la capitalistica.

O ancora, la constatazione che cinquant'anni dopo la "Rivoluzione di Ottobre" gli eserciti restano il pilastro delle società "socialiste" non meno che di quelle "capitalistiche", con tutto quel che comportano strutturalmente e ideologicamente, quasi facendo propria la eredità nazionalistica giacobina e il mito rivoluzionario bonapartista, più che il pacifismo antimilitarista del socialismo - questa constatazione potrebbe utilmente consentire di denunciare l'assoluta inadeguatezza del "pacifismo" del PCI, incapace di proporre altro che soluzioni nazionali neutralistiche, anacronistiche e comunque inattuali. Si rivelerebbero così, con ampie possibilità di dialogo e di utile critica, i motivi oggettivi per cui il PCI ha sempre avversato come borghesi e superflue battaglie come quella per gli obiettori di coscienza, o altre per l'affermazione di altri diritti civili (vedi controllo delle nascite, divorzio, riforma del giudiziario, riforma dei codici, riforma dell'esercito e delle polizie) e vi si era solo accoda

to o le aveva raccolte tardivamente.

E ancora, il problema della laicità, che in Italia è fatto di anticlericalismo, a proposito del quale la socialdemocrazia italiana sembrava aver stabilito fra sé e la socialdemocrazia europea la stessa incommensurabile distanza che nel mondo cristiano c'era tra controriforma cattolica e riforma protestante. Nessun laico è meno in colpa dei socialdemocratici italiani perché, avendo rinunciato su questo punto, per mancanza di convinzione ideale e di chiarezza ideologica, a una polemica sui principi, hanno poi nutrito per di più la loro azione politica di collaborazione subordinata con le forze clericali.

Diventa, così, difficile e poco credibile accusare i comunisti, come era pur possibile per noi radicali, di scarsa convinzione laica, di dogmatismo e di persistente estraneità nei confronti di una componente essenziale del movimento di liberazione e di lotta delle masse lavoratrici occidentali. Oggi il PCI fa passi di estrema importanza in questa direzione e - quasi chiosando il dibattito da eruditi di provincia che si era instaurato fra certi "rivoluzionari" del PCI e intellettuali della sinistra cattolica - Longo finalmente, nell'ultimo Congresso, riconosceva che la garanzia suprema e insuperabile di democraticità e di rispetto del pensiero religioso e delle sue manifestazioni risiedeva nel ripudio della concezione di uno Stato ideologico, per l'affermazione della laicità dello Stato. Risposta davvero definitiva, perché il problema di "fornire" garanzie teoriche o pratiche al mondo clericale per facilitarne l'ammodernamento o le tendenze "progressive" non poteva, se accettato, che presupporre una sorta di

mezzadria integralista, fondata su una interpretazione populista della moderna realtà di classe.

Vi sarebbe ancora da evocare la necessità del rifiuto del quadro nazionale come quadro reale di lotta per il potere fra il movimento democratico dei lavoratori e i suoi avversari, e come dimensione della battaglia politica moderna.

In questo, comunisti e socialdemocratici si sono mossi e si muovono con palese e grave parallelismo. Non a caso, sempre più, i socialdemocratici rischiano di apparire piuttosto come un "prodotto nazionale", una vera e propria struttura portante dello Stato nato dalla rivoluzione romantica e borghese, che come l'espressione organizzata della unità di ideali, politica, sociale della classe lavoratrice dell'occidente europeo. Se, proiettate sul piano delle scelte politiche togliattiane e staliniste, le intuizioni gramsciane sulla necessità di collegare le lotte contadine a quelle operaie per realizzare un più vasto movimento di rinnovamento, si sono tradotte in una impossibile "via nazionale" al socialismo fondata sulla ricerca di colloquio fra "comunisti" e "'cattolici", non è men vero che i socialisti che rifiutarono la Terza Internazionale non hanno mai mostrato di avere coscienza dell'unità storica, oggettiva, internazionale, necessariamente rivoluzionaria fra gli operai e i lavoratori del triangolo industr

iale europeo compreso fra la Ruhr, l'est e il nord francesi, e il nord Italia. E, se sono stati europeisti, lo sono stati in modo velleitario e contraddittorio, puntando interamente (non solo per la necessità imposta dell'atteggiamento di chiusura nazionalistica del movimento comunista in Italia e Francia) sulla carta diplomatica e verticistica, fatta crollare con un semplice soffio da De Gaulle. La logica, infatti, degli Stati nazionali, non è quella di dissolversi attraverso indolori trattati, ma quella di affermarsi; l'avversione di un vecchio nazionalista maurrasiano francese è bastata da sola per abbattere il gigante dai piedi di argilla pura faticosamente e diligentemente eretto da cattolici e socialisti, dalle forze più avanzate del neocapitalismo europeo e dai rappresentanti della maggioranza dei sindacati in Europa. Ora, sono soprattutto i comunisti che ripetono, come i socialdemocratici, che il giorno della ripresa rivoluzionaria in Europa sarà quello in cui gli operai della Fiat, della Renault, de

lla Volkswagen sciopereranno assieme, per gli stessi motivi, nello stesso giorno.

Siano in molte decine di migliaia in ltalia, socialisti, comunisti, socialproletari, radicali, socialdemocratici, repubblicani, indipendenti democratici, a riflettere su queste cose, e, spesso, a non trovarci dissenzienti o avversari. Quel che oggi è proprio dei radicali del Partito radicale, ed è l'essenza della differenza politica che corre fra essi e i militanti socialisti o del PCI, del PRI o del PSIUP, è la convinzione che si opera meglio in questa direzione se si fa delle convinzioni e delle osservazioni che ho qui avanzate un motivo di esplicita e manifesta unità di lavoro piuttosto che una riserva inespressa nell'azione militante di ogni giorno, da avanzare "in miglior momento" nelle "sedi opportune" di altri partiti fratelli.

Su questo abbiamo fondato negli anni scorsi una attività militante che si è tentato di soffocare nel nascere con drastiche congiure del silenzio. Su questo sono cresciute le alleanze con il PSIUP e con il PCI contro il "centrosinistra" non meno che le pesanti scomuniche e i tentativi di strumentalizzazione che l'uno o l'altro ci hanno altre volte riservato. Sempre su questo, malgrado la bolsa ostilità dei burocrati o il vanitoso fastidio di alcuni "leaders", si sono fondate comuni, importantissime battaglie con la sinistra di governo, come quella per l'elezione di un Presidente non clericale, o quelle che ci hanno visti contestare le accuse continue di tradimento che i nostri alleati elevavano verso gli autonomisti del PSI o verso il PRI, ricordando dove fosse il reale e definitivo avversario, appoggiando senza riserve i tentativi di Mariotti, di Mancini, o la fatica parlamentare dell'on. Fortuna. E, per finire, è su tutto questo che ci auguriamo di poterci il più presto possibile unificare, dissolvendoci in

una unità più vasta, profonda ed efficace.

Aderire all'unificazione? Va bene per amici e compagni che hanno vissuto questi anni in dolorosa, comprensibile ma anche colpevole riserva o inerzia; ma non per noi. Davvero, compagni socialisti, ci vedreste contrattare il nostro modestissimo ingresso con Tanassi o Brodolini, posto che lo volessero? Cosa ci diremmo? Di cosa con loro, e loro con noi, parleremmo? Davvero, dover tacere per due o tre anni di case, di ospedali, di laicità, di Concordato, di divorzio, di vecchi e di bambini, di scuole e di città, di politica internazionale e di strutture militari, di pensioni e di mutue, di federalismo europeo e di santa Europa clericale, di democrazia nei e dei partiti democratici, non lo potremmo, o potremmo farlo solo accettando la qualifica di intellettuali organici (del "centro-sinistra" invece che del PCI poco importa) e chiacchierando di tutto questo nelle strutture alienanti che l'industria editoriale riserva alle "querelles" fra i "dottori sottili" del socialismo; altrimenti mancheremmo alla ragion di par

tito della unificazione "anticomunista" e alla ragion di stato del "centro-sinistra irreversibile".

 
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