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Tapparone Vittorio - 21 settembre 1971
No al finanziamento dei partiti
di Vittorio Tapparone

SOMMARIO: Lo statuto radicale del 1967 indica nell'autofinanziamento il mezzo di sostentamento delle attività radicali, e da allora la pubblicazione e la discussione del bilancio sono un momento politico essenziale del dibattito politico interno: cosa ovvia per l'intendere democratico e per un partito che si vuole reggere sull'autogestione. Lo Stato deve agevolare la volontà di espressione politica della società attraverso la messa a disposizione di servizi e beni, luoghi di riunione, trasporti, tipografie e materiali per la stampa. Un ampio sistema di agevolazioni di carattere indiscriminato può realizzare il pieno diritto alla politica della collettività. A costo di far sorridere gli apparatchniki, sosteniamo che questi sono i parametri su cui la sinistra deve commisurare la propria struttura e organizzazione; e che l'iniquità derivante dai finanziamenti concessi da gruppi di potere economici e non ad alcuni partiti è la conferma della necessità di abbattere attraverso la lotta politica il potere di quei

gruppi, per instaurare assetti e gestioni democratiche, cioè controllabili dalla collettività. Un finanziamento pubblico diretto ai partiti equivale a una statalizzazione dell'attività politica e a una cristallizzazione di una casta di chierici lontana e diversa, nei pensieri, nelle parole e nei comportamenti, dal comune cittadino. Nell'articolo, l'analisi dettagliata delle proposte di legge sul finanziamento pubblico dei partiti, legge che rischia, malgrado il forte puzzo d'incostituzionalità, di essere una delle poche "riforme" della legislatura, votata magari all'unanimità.

(LA PROVA RADICALE N.1 - AUTUNNO 1971)

Di uso frequentissimo, ma purtroppo di difficile abuso, il motto di Orwell - che tutti gli animali sono eguali, ma alcuni (nel suo racconto i porci) sono più eguali degli altri - calza anche nel caso delle proposte di legge sul finanziamento dei partiti a carico dello Stato.

Come radicali riteniamo di aver scritto cose ovvie a un intendere democratico quando, nel nuovo statuto del partito approvato nel 1967, indicammo - per poi praticarlo - nell'autofinanziamento il mezzo di sostentamento delle nostre attività e nella pubblicazione e discussione del bilancio un momento essenziale del dibattito politico interno, in un partito che si vuole reggere su criteri di autogestione. Rilevammo altresì che lo Stato deve agevolare le volontà di espressione politica che si manifestino nella società, attraverso la messa a disposizione gratuita o la riduzione dei costi per tutta una serie di servizi e dei beni: luoghi pubblici di riunione, trasporti, tipografie e materiali per la stampa, ecc. Sosteniamo insomma che solo un ampio sistema di agevolazioni in natura, di carattere "indiscriminato", a tutti i partiti ed altre forme di organizzazione politica può realizzare in modo pieno questo diritto della collettività. E, a costo di far sorridere gli "apparatchniki", affermiamo anche che a questi p

arametri la sinistra deve commisurare la propria struttura e la propria organizzazione. Rileviamo infine che l'iniquità derivante dai finanziamenti concessi da gruppi di potere economici e non economici ad alcuni partiti non è che un'ulteriore conferma che quei gruppi costituiscono oggetto di lotta politica, vanno abbattuti e sostituiti con assetti e gestioni più democratiche e controllabili dalla collettività.

Ritenemmo invece inammissibile la ipotesi di un diretto finanziamento pubblico ai partiti, equivalente a una statalizzazione della attività politica e a una cristallizzazione di una casta di chierici lontana e diversa - nei pensieri, nelle parole e nei comportamenti - dal comune cittadino.

Posizione non isolata, di recente espressa da "Il Manifesto" (7 e 30 settembre 1971) proprio in risposta alle proposte di legge e ribadita con toni più sfumati ma non equivoci dal settimanale "Settegiorni" (n. 22, 12 settembre 1971). Tesi che trova il sussidio di fondate argomentazioni non solo negli interventi ormai lontani nel tempo di Ernesto Rossi e di Jemolo, ma anche in più recenti contributi di Ugoberto Alfassio Grimaldi e soprattutto di sociologi della politica quali Giorgio Galli e Stefano Passigli (vedi gli atti del convegno organizzato dal club Turati e dal centro "Puecher", dicembre 1969).

Promotore di una legge per il finanziamento pubblico diretto ai partiti rappresentati in Parlamento è stato l'on. Giulio Andreotti. La proposta prevedeva ("Panorama" 2-9-1971) un miliardo l'anno a tutti i Partiti più 500 lire per ogni voto ottenuto per la Camera ed il Senato nelle ultime elezioni politiche: con riferimento a quelle del 1968, il costo per lo Stato sarebbe di 39 miliardi, di cui 13,5 alla DC 9,5; al PCI; 5,6 al PSI più PSDI; 2.8 al PLI; 2,6 al MSI; 2,4 al PSIUP; 1,6 al PRI; 1,4 al PDIUM. Questo criterio di ripartizione non ha sinora sollevato obiezioni esplicite, tranne quella del fanfaniano Arnaud, le cui preferenze vanno a un puro sistema proporzionale che semplificherebbe la geografia politica italiana con »la cancellazione dei piccoli partiti . I partiti e le formazioni politiche non rappresentate in Parlamento non dovrebbero, in via generale essere finanziati: »se si finanziassero i partiti-speranza - dice Andreotti ("Oggi" 6 settembre 1971) - si potrebbero avere facili truffe, impostate

su liste di comodo miranti solo a far riscuotere i sussidi statali. Semmai ... si potrebbe far depositare una cauzione, magari fideiussoria, e con questa ed altre garanzie potrebbero finanziarsi anche partiti nuovi . La proposta sembra avere incontrato l'approvazione di massima dei suddetti partiti (nessuno sinora ha detto no). Sui perché della ventilata legge cerchiamo risposta nelle dichiarazioni di esponenti politici apparse quest'anno sulla stampa.

Andreotti innanzi tutto ("La Stampa" 16 e 20-4-1971 e "Oggi" 6-9-1971). Peggio che ipocrita sarà chi farà il conto »di quante scuole ed ospedali si potrebbero costruire con la stessa spesa. Anche Giuda - ci dice il Vangelo - criticava la spesa degli aromi usati per onorare il Signore, dicendo che potevano vendersi e dare il danaro ai poveri. Mai poi si seppe che egli voleva il denaro nella cassa degli apostoli perché vi attingeva di nascosto rubando... . D'altra parte osserva il nostro sofferto credente (nel potere), per altri »servizi pubblici lo Stato dà già sovvenzioni (p. es. pratiche sindacali di assistenza sociale); gli stessi gruppi parlamentari ricevono un contributo sul bilancio delle Camere. E' ben vero che in teoria un partito potrebbe reggersi sull'autofinanziamento e il volontarismo, »ma la virtù della perseveranza non è tra le più comuni e comunque quando un partito »lancia di tanto in tanto una campagna di sottoscrizioni (un miliardo per l'"Unità" e simili) si suscitano in dosi uguali scars

a curiosità e ironica indifferenza : chi non sa che il PCI prende soldi da Mosca? per cui il PCI, insinua l'astuto, ha più da guadagnare che da perdere da questa legge, anche se ciò implicherebbe la sua sottomissione a qualche forma di controllo pubblico: anzi, il sommesso auspicio è che una legge, oggi di ardua attuazione, garantisca il metodo democratico all'interno dei partiti. In ogni modo ci sarà - e il tono echeggia Quintino Sella - una regola rigida, quella della pubblicità del bilancio dei partiti: »Lo stato, riconoscendo concretamente la loro funzione pubblica, ha il diritto di sapere cosa spendono e cosa incassano i partiti . Ma, aggiunge, »non credo che la legge possa stabilire il divieto di contributi privati... .

Per il PSI il più avanzato degli equilibristi l'on Bertoldi, dice inciampando ("La Stampa" 14-4-1971) che l'autofinanziamento »poteva bastare una volta, quando gli apparati dei partiti erano più ridotti e lo stile di vita del paese era diverso più sobrio e più parco... Non è solo un problema di moralizzazione della vita pubblica, è anche una questione politica: si tratta di garantire l'autonomia politica di un partito. Prendiamo il caso del partito socialista: è chiaro che una cosa è stare al governo, un'altra cosa stare all'opposizione. E se dovessimo passare all'opposizione? Ancora più seria sarebbe la situazione per la DC, se dopo 25 anni di permanenza al governo, con il controllo di tante leve di potere, dovesse trovarsi all'opposizione . In via transitoria le consigliamo, onorevole, una polizza INA.

Intransigente parrebbe la posizione del PSDI: l'on. Orlandi ("La Stampa", 20-4-1971) richiama »due esigenze di principio: che il finanziamento pubblico sostituisca interamente i contributi privati...; che ci sia una regolamentazione del partito politico per la legge... Riteniamo che tutti i partiti debbano contenere alcune norme che garantiscano la democrazia interna . Ma, salvata l'anima, Orlandi aggiunge: »Naturalmente non poniamo pregiudiziali; indichiamo queste esigenze, ma cerchiamo un'intesa .

Anche i teorici della democrazia pura sono favorevoli, malgrado spesa pubblica da contenere e politica dei redditi. Nota l'on. La Malfa ("La Stampa", 20-4-1971) che non va trascurato »il momento in cui questa nuova spesa viene deliberata. La condizione attuale del paese certamente non è la migliore. Tuttavia il vantaggio che si ricaverebbe in termini di pulizia finanziaria e di autonomia politica è così grande... ecc. . Ciò, badate, si può esprimere in modo che capiscano anche Pareto e Samuelson: osserva infatti Adolfo Battaglia ("Quattrosoldi" agosto 1971) che col finanziamento pubblico »l'utilità marginale del finanziamento privato diventa certamente minore e si dà ai partiti la possibilità marginale del finanziamento privato diventa certamente minore e si dà ai partiti la possibilità di rinunciare a quelli che considera compromettenti o per i quali vengano richieste controprestazioni che il partito in coscienza non si sente di dare . Far subito la legge, dunque; basta che si respinga la liberticida propos

ta di Arnaud: »Consentire ai grandi partiti di schiacciare i piccoli - è sempre Battaglia che parla - con disposizioni legislative che incidano sulla loro vita economica significa adottare un provvedimento autoritario e forzare la volontà dei cittadini . Sembra di capire che la curva della libertà di far politica (i quattrini) parte della DC e arriva, al margine, al PRI: più oltre, si arrangino.

Per il PCI l'on. Jotti ("La Stampa", 16 e 20-4-1971) si è detta a favore sia di agevolazioni varie in occasione della campagna elettorale sia di aiuti diretti; ma »per l'aiuto diretto ai partiti riteniamo che si debba dare peso prevalentemente ai servizi rispetto al contributo finanziario. Altra questione per noi molto importante è la possibilità di far vivere i giornali di partito . Né l'on Jotti esclude un eventuale »controllo . Per quanto riguarda il controllo interno dei fondi pubblici il problema si porrebbe quando si formasse una »minoranza organizzata ; quindi il problema si pone già, secondo la on. Jotti, per DC, PSI, ecc., mentre la radiazione del "Manifesto" ha provvidenzialmente evitato che si ponesse anche il PCI. Cinque mesi dopo, nel fondo dell'"Unità" del 5 settembre. Cossutta, mentre ribadisce »l'imperiosa necessità di un sostegno pubblico agli organi di stampa dei partiti non ripete più, nel pur lungo articolo, che il sostegno pubblico debba essere la prevalenza ai servizi; conferma invece

che sul finanziamento diretto il PCI è pronto a giurare all'accordo con gli altri partiti, perché »convinti profondamente, in linea di principio e in linea di fatto, che lo Stato deve intervenire per mettere tutti i partiti in grado di svolgere "effettivamente" la funzione, loro affidata dalla Costituzione, di informazione e di organizzazione politica dei cittadini . Per »tutti i partiti vanno intesi, non facendo Cossutta obiezioni al riguardo, i soli partiti con rappresentanza parlamentare; d'altro canto il PCI già ostacola, con gli altri partiti, l'accesso alla TV delle formazioni politiche extraparlamentari.

Veemente è invece la replica (ad Andreotti, Orlandi e altri) sul punto del controllo, facendo piazza pulita dei distinguo della on. Jotti. Che nessun reazionario di casa nostra si metta in mente di utilizzare l'espediente delle »verifiche per tentare di introdurre controlli e limitazioni alla autonomia dei partiti!. Ma il PCI non ha »bisogno dell'aiuto dello Stato: il sì al finanziamento trova ragione altrove, cioè nella realizzazione di un "diritto" dei partiti e nel contributo alla moralizzazione della vita politica, anche se »non siamo così ingenui da credere che... cesserebbero le vergogne di un sottogoverno condito di grandi e piccole ruberie . Nondimeno certi settori dello schieramento politico democratico conclude Cossutta, potrebbero uscire da condizionamenti limitativi della loro indipendenza politica. Quindi sembra di capire, la legge va fatta per partiti come il PSI.

E il PSI parrebbe voler dar ragione a Cossutta. Da questo clima di apparente unanimità, infatti, sarebbe dovuto scaturire un progetto sottoscritto da tutti i partiti; però, felicemente, non è stato così: a fine settembre il PSI, accusando la DC di frenare l'iter della proposta ha presentato tutto solo un impudente e sgangherato progetto di legge. Il progetto è stato ampiamente illustrato dall'"Avanti!" del 30 settembre, ove tra l'altro si affermava che esso ripete lo stesso meccanismo adottato dalla legge della Germania federale. Il progetto è comunque giunto opportuno perché consente una maggior concretezza e precisione di giudizi; ne richiamiamo i punti salienti.

- Beneficiari del finanziamento: i partiti politici che hanno partecipato alle elezioni della Camera e abbiano avuti eletti un minimo di 5 deputati (il che corrisponde ad almeno l'1% dei voti); titolari del contributo gli organi previsti dagli statuti dei partiti, cioè in pratica le segreterie.

- Entità del finanziamento; 1.000 lire annue per ogni iscritto nelle liste elettorali, cioè un totale di 36 miliardi da suddividersi il 20% in parti eguali tra i partiti (circa 800 milioni ciascuno) e il resto in proporzione al numero di voti ottenuti; quindi la cifra globale per partito non sembrerebbe discostarsi gran che dalla proposta Andreotti. Tuttavia il progetto aggiunge che i partiti hanno diritto a un rimborso di tre milioni di lire annue per ogni dipendente, nella misura massima di uno ogni 15 mila voti ottenuti alla Camera, il che fa un totale di circa 7 miliardi all'anno; inoltre, nel primo anno di ogni legislatura il contributo sarà del 50% superiore, a rimborso delle spese elettorali. Si giunge così a un contributo statale medio annuo di 43 miliardi, che sale ogni cinque anni a oltre 60.

- Controlli: il bilancio deve essere discusso e approvato dalle organizzazioni centrali elettive (comitato centrale, consiglio nazionale, ecc.). Ogni partito nomina un collegio revisore dei conti che, se nelle ispezioni riscontra gli estremi del reato, trasmette la relativa documentazione al presidente della Camera. Questi d'intesa col presidente del Senato, trasmette gli atti alla procura della Repubblica se gli uffici di presidenza delle Camere hanno confermato a seguito di esame, gli estremi del reato.

- Divieti di finanziamenti esterni e sanzioni: sono vietati da qualsiasi ramo della pubblica Amministrazione da enti pubblici economici e non economici statali e parastatali; da società a partecipazione statale (ENI, IRI, ecc.); da società private se i finanziamenti non sono stati deliberati dall'organo sociale competente e non sono iscritti nel bilancio; dai servizi segreti. Chi effettua o avalla falsificazioni dei bilanci dei partiti paga multe (sino a 5 milioni) e va in galera (sino a 3 anni). L'inosservanza della legge da parte dei dirigenti di società private e delle persone rappresentanti capitale pubblico o che agiscono per conto del capitale pubblico in società in cui esso è in minoranza (p. es. nella Montedison) comporta pene pecuniarie sino 10 milioni e la gattabuia sino ad un anno. Più gravi le sanzioni per i dirigenti delle società a partecipazione statale: sino a 10 milioni la multa, ma fino a 4 anni la galera; in questo caso alle stesse pene soggiacciono coloro che hanno accettato tali sovvenzi

oni.

Infine, in allegato al progetto di legge si espone lo schema di bilancio tipo, così articolato:

"entrate": 1) contributi statali; 2) quote sociali; 3) contributi dei gruppi parlamentari e altri contributi regolari; 4) entrate a) patrimoniali b) provenienti da manifestazioni, esercizio di attività editoriali e vendita di pubblicazioni, nonché da "ogni" altra attività commerciale; 5) atti di liberalità; 6) crediti; 7) contributi di associazioni sindacali di lavoratori e di datori di lavoro; 8) contributi di società private; 9) altre entrate; "spese";

"differenza in più o in meno".

Un sia pur breve commento di questo progetto non può esimerci da alcune obiezioni di carattere giuridico. Ci sembra innanzi tutto assai discutibile sotto il profilo costituzionale la esclusione dal finanziamento diretto non solo dai partiti nazionali minori, ma anche dei partiti regionali come il Partito sardo, l'Union Valdotaine, la Volkspartei, che si troverebbero gravemente discriminati e danneggiati nelle elezioni regionali nei confronti dei partiti nazionali. Altrettanto può dirsi del passaggio dei partiti, all'atto dell'erogazione del contributo (art. 5), da associazioni di fatto a persone giuridiche di diritto privato. Ciò non solo per il fatto in sé per cui si avrebbe domani la curiosa convivenza di partiti-persone giuridiche e partiti-associazioni di fatto; ma soprattutto perché non si capisce in che modo il partito persona giuridica del progetto socialista rispetterà il codice civile e la Costituzione: il codice per esempio prevede all'art. 17 che »la persona giuridica non può acquistare beni immob

ili né accettare donazioni o eredità né conseguire legati senza l'autorizzazione governativa e all'art. 23 che »le deliberazioni dell'assemblea contrarie alla legge all'atto costitutivo o allo statuto possono essere annullate su istanza degli organi dell'ente, di qualunque associato o del "Pubblico Ministero" . Il progetto del PSI, nel primo caso, mentre prevede la possibilità di acquistare beni immobili e di accettare donazioni, non lascia ben capire se, in nome della autonomia dei partiti dal potere esecutivo tende ad escludere la necessità dell'autorizzazione governativa. Nel secondo caso, più grave, il progetto fa dipendere (art. 10 e 11) dai revisori dei conti del partito e dagli uffici di presidenza delle Camere la possibilità di intervento del magistrato privato così di una propria capacità di iniziativa: in primo luogo, ciò sembra contrastare non solo con l'articolo del codice citato, ma anche con l'articolo 112 della Costituzione . Il Pubblico Ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale ;

in secondo luogo, tenendo conto che i reati previsti dal progetto socialista possono essere anche commessi da non parlamentari, si crea una situazione doppiamente criticabile: perché da un lato si attribuisce alle Camere di stabilire preventivamente, cosa che loro non compete, se un atto è reato o meno, dall'altro si pongono in una condizione di virtuale privilegio rispetto alla giustizia ordinaria i responsabili di questi reati.

Dunque, una forte puzza di incostituzionalità.

Osserviamo infine che il bilancio-tipo previsto dal progetto prevede nove voci di entrate e un'unica voce di spesa: ci si domanda soltanto che tipo di lavoro diventa quello dei revisori, oltre a un po' di aritmetica elementare. Ci si domanda anche, uscendo dal campo delle considerazioni giuridiche, che reali possibilità di controllo politico - che, dando lo Stato così copiosi fondi, è più sulle spese che sulle entrate - hanno le minoranze dei partiti e l'invocata opinione pubblica. E già che ci siamo, non è un bel caso di controllori-controllati il fatto che i revisori siano nominati dai partiti? Per salvare almeno la faccia, non dovrebbero nominarli i presidenti delle due Camere?

Se dunque il progetto socialista, che non riprende neppure la stessa proposta del 1968 per la riduzione della durata e quindi delle spese della campagna elettorale, presta il fianco a numerosi rilievi di carattere giuridico, politicamente costituisce un atto di demagogia irresponsabile: infatti già oggi un'ONMI, un'ANAS, un CNE, una ENI, una RAI, un INGIC, eccetera, contravvengono a leggi se danno soldi ai partiti, così come i partiti vanno contro le leggi se si prendono tangenti sulle licenze edilizie; cioè, già oggi il magistrato, certo bisognoso in proposito di un consenso della classe politica che troppo spesso gli manca, può e deve intervenire. E, malgrado il progetto socialista, imprese private e pubbliche, alla faccia dei bilanci (le gestioni fuori bilancio le fa anche lo Stato!), praticherebbero anche domani i sistemi odierni, dalla pubblicità ai conti in Svizzera, e più ancora il sistema bancario protetto dal segreto, per erogare fondi non solo a chi di piacere ma anche a chi di dovere; i partiti, d

a parte loro, non mancheranno di prestanome e di società di comodo. Infine un sifarita, già oggi perseguibile dalla legge, si guarderà bene dal far sapere, se non per sputtanare, di aver dato soldi a dei compagni. Ha poi il marchio dell'impotenza quell'alludere, prevedendo pene più aspre, a quanto pericoloso sia il capitalismo di Stato. Il PSI ha un sottosegretario alle Partecipazioni Statali, l'on. Principe; ha un consigliere e quasi vicepresidente nell'ENI, Francesco Forte; ha un consigliere nell'IRI, Guido Borghese, ex vice sindaco della Bologna di Dozza. Non solo, ha l'on. Giolitti ministro del bilancio, coadiuvato dal Giorgio Ruffolo, buon conoscitore dell'ENI. Ha cioè se non il potere, che è la DC, almeno gli strumenti e le occasioni per il controllo di questo potere. Una protesta che non fosse platonica, una denuncia, delle dimissioni chieste o date: mai un gesto del genere, e uno Scalfari non riesce proprio a far primavera. Quindi o va tutto bene o, come è invece, il PSI mostra di non avere non già i

mezzi, quanto la volontà politica di affrontare questo grosso nodo; è una presa in giro tentare di far credere di risolverlo col meschino artifizio di questa legge.

Per completezza di giudizio, e per dare a ciascuno il suo, non possiamo a questo punto sorvolare sull'illustrazione politica del progetto scritta da Giuseppe Tamburrano ("Avanti!" del 30 settembre) che, in quanto principale elaboratore del progetto stesso, ne è ovviamente interprete autentico. Due motivi soprattutto inducono a ricordarla. In primo luogo la temerarietà del nucleo centrale delle argomentazioni: »Il finanziamento pubblico dei partiti si può rivelare uno strumento importante della riforma dei partiti e rappresenta un terreno di incontro tra la cultura e l'opinione democratiche e i dirigenti politici e settori degli apparati dei partiti più sensibili e aperti... Questa concordanza ideale... non deve essere sciupata . Tutti i buoni hanno da guadagnare: i partiti e le minoranze dei partiti, lo Stato, il paese, la cultura. Ma la reazione è in agguato: »interessi occulti , »gruppi di potere pubblici e privati i quali con i loro maneggi hanno costruito una rete di potere reale che è cancro pericolosis

simo per la nostra democrazia . Quindi il progetto socialista avrà anche la funzione »di far venire allo scoperto coloro che vogliono realmente rinnovare la vita pubblica e la democrazia e coloro che invece mirano a denigrare e screditare i partiti per aprire la strada ad un tentativo autoritario . In un breve spazio ci si sbatte in faccia: una non specificata cultura democratica, senza neppure il conforto di qualche nome (da parte nostra mettiamo in dubbio che possa far testo l'eventuale assenso al riguardo di quell'intellighenzia che dipende dall'industria culturale inestricabilmente intrecciata con il sottopotere della sinistra); un'opinione democratica, per ora altrettanto fantomatica: gli articoletti di "Quattrosoldi", "Panorama", o di O. M. Petracca su "Mondo Economico" e persino dell'"Espresso" non registrano opinione pubblica, ma sono pura »promotion pubblicitaria; i partiti, dichiaratamente assunti nella loro dimensione di apparati e non in quella di iscritti e di militanti; gli interessi occulti,

che invece sono noti a tutti tranne che a Tamburrano; una fasulla visione manichea di gruppi di potere privati e pubblici personificanti il male e di partiti in veste di anime candide schiave (e pensare che - si veda "Quattrosoldi", agosto '71 - il capo delle relazioni pubbliche dell'ENI, Franco Briatico, lamentò a Vittorio Gorresio che »i partiti ormai riscuotono le sovvenzioni convinti di valersi di un diritto acquisito, che neppure comporta la resa di un servizio! ); l'aberrante affermazione - di un socialista! - che la riforma dei partiti può procedere dalla possibilità di ottenere e spendere i soldi del contribuente; la comprensione - di fatto - di radicali, "Manifesto" e "Settegiorni" tra coloro che vogliono aprire la strada a un tentativo autoritario.

Il secondo motivo del richiamo è che Tamburrano, al convegno Turati-Puecher di neppure due anni fa, così argomentò: il finanziamento statale ai partiti porta con sé la necessità di un controllo da parte della Corte dei Conti o della Corte Costituzionale; il che implica non solo il frugare di enti estranei nella vita interna dei partiti ma anche »l'esistenza di una legge o statuto che stabilisca i fini leciti delle spese dei partiti . Se il controllo è dunque inaccettabile, parimenti non accettabile è l'assenza di ogni controllo. »Per uscire dall'impasse, "bisogna abbandonare l'idea del finanziamento consistente in una somma di danaro" e cercare di individuare forme empiriche di finanziamento. Penso che ci si deve orientare verso un finanziamento indiretto consistente nella concessione delle sedi centrali e periferiche e in agevolazioni su servizi pubblici (poste, telegrafo, fisco, ecc.) ai partiti e alla loro stampa . Inoltre »lo Stato dovrebbe accollarsi gli oneri delle campagne elettorali mettendo a dispos

izione dei partiti e dei candidati, entro proporzioni e limiti prefissati, locali, altoparlanti, tipografie.. .

Tamburrano A e Tamburrano B, ieri come oggi in concordanza ideale con la cultura democratica.

Queste, e di questo livello, sinora, le proposte e le argomentazioni a favore. La RAI-TV ha rigorosamente taciuto. Nessun grande organo di stampa ha cercato di suscitare giudizi e reazioni nell'opinione pubblica. Di più: nessun partito, su una questione come questa che ne investe i caratteri costitutivi, ha ritenuto doveroso far maturare questa decisione dopo un dibattito fra gli iscritti e militanti; nessun partito della sinistra, né il PSI, né il PSIUP, né il PCI.

Il finanziamento dei partiti a carico dello Stato, tema vissuto e partecipato in questi mesi da un centinaio di parlamentari e funzionari di partito, rischia di essere una delle poche »riforme , per di più voltata all'unanimità, di cui si potrebbe fregiare questa legislatura. Ma è quantomeno una mossa malaccorta sostenerla come fanno Andreotti, Bertoldi, Tamburrano e il repubblicano Ungari, (v. per quest'ultimo "La Stampa" del 20-4-1971) invocando esperienza estere. Alcuni paesi - in pratica Germania, Svezia e Turchia - hanno adottato, è vero, organiche misure di sostegno finanziario ai partiti. Se si applicasse in Italia la legislazione vigente in Germania, ove più vistoso è il fenomeno (e ove la legge regola con minuzia l'ordinamento interno dei partiti), lo Stato, oltre a dover finanziare, in via di principio e a seguito di una sentenza della Corte Costituzionale, le "campagne elettorali" e non gli "apparati" dei partiti, sopporterebbe un onere inferiore ai 15 miliardi, e non di 40-45 (e ricordiamo che il

reddito pro-capite tedesco e quindi, per esempio, gli stipendi dei funzionari dei partiti, sono assai più elevati); non solo, ma, pur vigendo il quorum del 5% dei voti per ottenere rappresentanti in parlamento, ogni partito che raggiunga lo 0,5% dei voti ha diritto alla sovvenzione della propria campagna elettorale. Quindi l'"Avanti!" dice un bel mucchio di bugie affermando che il progetto del PSI si ispira a quello tedesco. In Svezia, lo Stato finanzia direttamente i partiti e la loro stampa sostenendo un onere che in Italia, la cui popolazione è più di sei volte tanti, diverrebbe di 17 miliardi; ma per contro il reddito svedese è almeno il doppio di quello italiano.

L'entità, mostruosa, della cifra richiesta è quindi un buon indice del grado di pesantezza, disfunzione e inefficienza raggiunto dai partiti italiani; a questo proposito il repubblicano Giovanni Ferrara, non contrario in via astratta al finanziamento, osserva tuttavia onestamente ("Il Mondo", 5-9-1971): »Si dice: ma il finanziamento occulto è molto peggiore di quello pubblico. Ma come rispondere a chi obiettasse: sarebbe meglio che i partiti riducessero a un decimo le loro spese attuali causate in buona parte da sperpero burocratico e interesse privato? . Politicamente grave non è però solo il quanto, ma prima ancora i criteri e le modalità che caratterizzano la proposta Andreotti e il progetto socialista. A questo proposito torna conto riportare una considerazione di Paolo Ungari (tavola rotonda al club Turati, 3-4-68), vicina agli accenni di Andreotti e ad affermazioni di Nenni di dieci anni or sono: »Anche nei regimi democratici il partito tende a trasformarsi in una specie di ente pubblico con due tenden

ze molto precise, una a limitare il gioco all'interno di una cerchia definita di partiti, cioè a costituirsi in un club chiuso, e l'altra a offrire ai cittadini una serie limitata di alternative . Allora è da chiedersi come si può accettare che la collettività, e per essa lo Stato, paghi al buio un quasi ente pubblico; come sia lecito che l'erario sborsi quattrini senza prima conoscere, non diciamo le attuali entrate, ma neppure le uscite globali dei partiti e le loro articolazioni per voci. I partiti chiedono, o meglio impongono, di essere creduti sulla parola: cosa che formalmente non si permettono, nei confronti dello Stato, neppure potentati come la FIAT o l'industria di Stato. I partiti cioè si arrogano una condizione di insindacabilità da parte di quella collettività a cui impongono regole in quanto gestori del Parlamento e a cui chiedono fiducia quando si propongono come strumenti di raccolta del giudizio e del consenso popolare. Questa è, in senso proprio, partitocrazia.

Che sia lecito parlare di partitocrazia (o almeno di »apparatocrazia ) è dimostrato da altri due fatti, anche essi gravi. In primo luogo il fatto che i partiti italiani - nota Giorgio Galli nella relazione citata - hanno in pratica rinunciato, con l'eccezione del PCI e in parte del PSIUP (e forse anche del PSI), a raccogliere quote dai propri quattro milioni di iscritti. Ora, se invece raccogliessero le quote, e non quelle del 1950 (le cento lire al mese), han quelle oggi corrispondenti tenendo conto della svalutazione nonché dei maggiori redditi individuali (vale a dire almeno 600 lire al mese), la massa degli iscritti ai partiti fornirebbe un gettito intorno ai 30 miliardi.

Quindi per i partiti, esclusi in parte quelli di sinistra, i soldi dello Stato sono sostitutivi di quelli che non si riesce o non si vuole chiedere agli iscritti. Il che illumina, se ve ne fosse bisogno, il tipo di rapporto vigente tra gli apparati e i loro iscritti, non più partecipanti e militanti, ma al tempo stesso clienti e massa manovrata; che peraltro obbliga, per esempio, a tenere aperte migliaia di simulacri di sezioni pagando un sacco di quattrini per affitti di locali che si riempiono di un pugno di persone in poche occasioni che non siano quelle elettorali e congressuali. In secondo luogo, è ricco di significato proporre oggi la legge invocando quella Costituzione cui ci si sarebbe potuti richiamare da quasi un quarto di secolo, ma evitando rigorosamente di confrontarsi con l'istituto regionale creato di recente; le regioni, ove si consentisse a un loro fisiologico sviluppo, potrebbero costituire, si sa, strumenti essenziali di espressione autonoma e dal basso di esigenze collettive e mettere ser

iamente in discussione, e non si dice, le strutture verticistiche degli attuali partiti. Quindi questa legge è anche una risposta di centralismo burocratico.

Con essa si surrogano o si negano partecipazione, autonomia, decentramento e liberalizzazione dell'espressione politica: i partiti - che oggi hanno raggiunto un massimo di penetrazione nelle attività civili, dall'economia alla cultura, cioè un massimo di potere, e nel contempo il punto più basso quanto a partecipazione e militanza, cioè quanto a forza politica - vogliono trasferire sulla collettività, far pagare ad essa il costo politico e finanziario della loro crisi. Costo politico, non solo finanziario. Perché la legge proposta non è per l'indipendenza dei partiti esistenti, che potrebbe in buona parte essere recuperata con una partecipazione attiva degli iscritti, ma innanzi tutto "contro" quanto, in termini di organizzazione politica, può nascere e sta effettivamente nascendo nella società al di fuori di essi. E' una legge che, aggiunta al monopolio già affermato sul l'informazione politica della RAI-TV, consoliderebbe un vero e proprio "sindacato dei partiti di regime".

E' importante a questo punto considerare cosa implica questa legge nel rapporti tra gli stessi partiti rappresentati in Parlamento, in particolare tra la DC e la sinistra. Non e un caso che nella DC il maggior fautore della legge sia l'on. Andreotti. Il canaio interno della DC è ormai giunto a un punto tale da mettere in forse non già l'»unità del partito - della quale e ancora sufficiente garante Paolo VI (vedi le reprimende e le imposizioni alle ACLI e i loro immediati effetti nella DC) - ma la capacità di questo di assicurare quel minimo di governo nel paese necessario per non suscitare un vasto moto di ripulsa da parte di una grossa fetta dello stesso tradizionale elettorato democristiano. Ad Andreotti - padrone di una corrente debole, centrata sul Lazio, che si abbevera a fonti forse relativamente non copiose (la pianura Padana è certo più ricca), senza influenza dominante nel settore pubblico dell'economia (ove prevalgono nettamente i fanfaniani, seguiti da dorotei di Piccoli e Colombo, basisti e alcu

ni pochi morotei), non più a capo di ministri come l'Industria o la Difesa che sapeva così sapientemente gestire - ad Andreotti, capogruppo parlamentare alla Camera, si può far credito di avvertire più di altri e comunque sotto un certo angolo visuale il pericolo delle dilacerazioni endemiche che caratterizzano la DC. Una delle cause fondamentali di queste dilacerazioni consiste certo nella pluralità di interessi che trovano coagulo della DC: solo in essa la rappresentanza di una molteplicità di gruppi di potere ha assunto carattere costitutivo della stessa fisionomia del partito.

Che questa sia la situazione della DC e provato dal fatto che, essendo un partito di massa e vantando un milione e mezzo di iscritti, l'autofinanziamento militante non giunge a coprire il 5% delle spese. Situazione che porta ad osservare come sia discutibile per certi versi parlare, con riferimento a pressoché tutta la DC, di finanziamenti esterni: infatti, al di là di un criterio formale, il finanziamento non è che un aspetto interno dei rapporti tra elementi di uno stesso gruppo di potere, gli uni dislocati nel partito e in Parlamento, gli altri alla direzione di enti economici, assistenziali, culturali di informazione, ecc.; solo nell'ambito del complesso clerico-democristiano si realizza in modo diffuso, consuetudinario sistematico il passaggio di uomini (potremmo riempire pagine di nomi) dall'un campo all'altro. Il complesso clerico-democristiano, e prescindiamo qui dall'apparato confessionale vero e proprio, o è l'espressione organica di questi gruppi (Federconsorzi e Coltivatori Diretti, CIDA cioè dir

igenti d'azienda controllati da Togni, UCID cioè associazione degli industriali cattolici) o addirittura li possiede, li occupa come è il caso di tutto il territorio pubblico dell'industria e della finanza, con qualche »enclave e una manciata di vicepresidenze lasciate agli altri. E quanto all'industria privata, basti ricordare come fatto esemplare che i presidenti della Confindustria - Angelo Costa, Alighiero De Micheli, Furio Cicogna, Renato Lombardi - appartengono tutti, »vecchio corso o »nuovo corso non importa, all'area clerico-democristiana e li ritroviamo tutti, se non andiamo errati, nell'UCID. Il risultato di questa condizione è che la DC riflette immediatamente al proprio interno con conseguenze paralizzanti e dilanianti i contrasti di interessi rappresentati (industria - agricoltura, industria privata - industria pubblica, piccola industria - grande industria, ecc).

La soluzione a questo stato di cose è o realizzare la netta prevalenza in termini di dominio di uno o alcuni interessi rappresentati con tutte le conseguenze del caso, di rottura e di ricomposizione di vecchi e nuovi equilibri politici ed economici (e sembra la strada imboccata dai fanfaniani sin dagli anni '50 prescegliendo e occupando con propri uomini soprattutto gli enti economici pubblici) o ed e la più cauta ed equilibrata indicazione di Andreotti, assicurare alla DC, in quanto apparato, un nucleo di potere contrattuale - e lo sono una quindicina di miliardi erogati dallo Stato - rispetto ai diversi interessi senza doverne necessariamente perdere o privilegiare alcuno, ridando ad essa un po' del respiro necessario per continuare a svolgere quella funzione di mediazione di »istanze varie smerciata per venticinque anni sotto il nome di interclassismo e pluralismo col sussidio pseudo-ideologico della dottrina sociale cristiana. E' perciò inconsistente, almeno nel caso della DC, la motivazione che il fina

nziamento diretto permetterebbe di resistere meglio ai gruppi di pressione e di acquistare maggior indipendenza; sarebbe invece un buon lubrificante, per ridare una qualche efficienza ad una macchina di potere che a volte mostra di incepparsi.

Non stupisce dunque che la proposta di finanziamento statale ai partiti sia sostenuta da una cospicua frazione dei fondatori del regime clerico-capitalistico, nell'intento di perpetuarsi in ogni modo come gruppo dominante. Piuttosto stupisce (si fa per dire) il sì di partiti della sinistra, comunista e socialista: il sì del PCI che, per bocca di Cossutta, dichiara di non aver bisogno dell'aiuto dello Stato; l'unico partito che ha ancora una buona capacità di mobilitazione delle masse popolari, che riesce ancora a coprire con il finanziamento interno una consistente quota (50 per cento?) del proprio fabbisogno. L'unico, cioè, obiettivamente in grado di porsi nelle condizioni attuali, il concreto obiettivo a non lunga scadenza di un vero e proprio autofinanziamento; dunque il partito maggiormente in grado di far seguire, al proprio no alla legge una battaglia politica, e non soltanto di moralizzazione, sul tema del sostentamento dei partiti. Non si vuol qui far pensare che sarebbe un'operazione senza costi per

il PCI, implicando una radicale revisione politica: rinnovamenti organizzativi, posizioni nuove sull'economia pubblica, una gestione diversa della politica urbanistica nei comuni da esso amministrati e tante altre cose, compresa la rinuncia ai finanziamenti dall'Est. Ma assai maggiore, sino a farsi insostenibile, sarebbe il costo che potrebbe far pagare alla DC.

Ci pare inoltre che non solo il PCI, ma anche i socialisti, proprio mirando a una condizione politica che non ne faccia il vaso di coccio dello schieramento politico italiano avrebbero interesse a respingere questa legge superando certe comprensibili ma contingenti angosce (tipo: e se andiamo all'opposizione chi ci darà i soldi?) e superando in un modo corretto, di sinistra, pur comprensibili traumi e sensi di colpa connessi ad assegni Sifar o a vicende ANAS o petrolchimiche o altro ancora. Il saldo negativo tra guadagni e perdite che oggi il PSI può registrare nei suoi tentativi di imitare l'uso del potere democristiano e la consapevolezza della propria relativa debolezza in quanto apparato dovrebbe renderlo forse più di altri partiti fautore di un sistema diverso, aperto e non chiuso, egualitario e non discriminante, di pubbliche agevolazioni all'espressione politica. Infatti la DC, per la struttura che la caratterizza, potrà con tutta naturalezza aggiungere (senza trovare ostacoli nel progetto socialista)

e non sostituire, i miliardi dello Stato a quelli che già si procura, accrescendo ancora, come se non bastasse, il proprio peso contrattuale nei confronti del PSI che, non essendo un cartello di gruppi di potere, non riuscirà certo a realizzare questa somma. Né il PSI, il cui punto di forza è la possibilità di esplicazione della inventiva e dell'iniziativa politica dei suoi militanti e de suoi parlamentari, potrà mai sfruttare un finanziamento diretto al suo apparato ai livelli di efficienza e di produttività politica propri del PCI.

Concludendo e ribadendo, mentre è vero che il finanziamento esterno non è, per la DC, che un corollario di un sistema di rapporti organici di potere, per i partiti della sinistra è un grave segno di contraddizione che va eliminato; ma non davvero con il finanziamento statale. Infatti questo, oltre a rafforzare in modo preminente la DC, è una misura politicamente omogenea alla sua essenza corporativa e conservatrice e alla sua intima vocazione clericale di rifiuto dello Stato moderno che si traduce, in una condizione di potere, nella occupazione e manomissione dello Stato stesso. E' invece un ancor più grave segno di contraddizione per i partiti di sinistra, che, se non hanno ancora rinunciato a indicare come obiettivo, sia pur lontano, la riappropriazione e la gestione dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori, non possono nel contempo diminuire per legge agli stessi quel pieno possesso del loro primario strumento di lotta che è il partito, possesso che deriva innanzi tutto dalla integrale dipendenza d

el vivere o del morire di questo strumento dalla partecipazione anche finanziaria del militante. Il finanziamento pubblico, e dell'entità prevista, aggiunto al monopolio dell'informazione pubblica, creerà invece le condizioni non già di conquiste socialiste, ma di sopravvivenza di burocrazie partitiche al di là e contro l'autentica volontà politica delle masse popolari; e gli iscritti ai partiti continueranno probabilmente ad esserci, ma non più in veste di militanti bensì di clientele anche nel PCI. Accentuerà la tendenza a ridurre la politica in una dimensione aziendale e pubblicitaria, a bene di consumo aggiungerà una giustificazione alla violenza di quella minoranza politica »deviante che non accetta questo gioco truccato.

Il favore a questa legge di PCI e PSI, che non vogliamo credere condiviso dalle loro basi; lungi dall'iscriversi nella sia pur moderata e rispettosa linea di »coesistenza competitiva con la DC, è piuttosto, nel fondo, un'andata in soccorso dell'avversario politico e di classe, di conferma e accettazione del suo ruolo egemone. Il che, se non risponde a un malsano autolesionismo, si può spiegare soltanto con l'annettere più importanza all'esigenza di difesa nei confronti di una società che di fatto si ammette di non saper più adeguatamente interpretare e rappresentare: all'esigenza di erigere mura e chiudersi in fortezze. Di più, l'approvazione di questa legge sarebbe un segno allarmante di quale legame, al di là della resistenza, della repubblica, del socialismo, unisca oggi, in atti e fatti condizionanti la vita democratica del paese, la sinistra degli apparati alla DC di Fanfani, Andreotti e Bonomi, ad Almirante, a De Lorenzo. Sarebbe sentirsi dire, anche da PCI e PSI, che la politica è »cosa nostra .

VlTTORlO TAPPARONE

P.S. - Il progetto di legge dell'on. Bertoldi sul finanziamento pubblico dei partiti non è fenomeno eccezionale e circoscritto. Esso si inserisce in una tendenza (su cui occorrerebbe effettuare una analisi più approfondita) tipica della società italiana, verso una corporativizzazione accentuata e generalizzata. Ne abbiamo la conferma in due ulteriori notizie, delle quali l'una si riferisce ad un avvenimento non recente, mentre l'altra appartiene alla cronaca più attuale.

In sede di discussione della riforma fiscale - apprendiamo dal "Notiziario Forense", bollettino dei Sindacati Veneti Forensi - il Ministro Preti aveva avanzato anche la proposta di escludere dall'IVA i canoni di locazione degli immobili destinati alle attività dei partiti politici rappresentanti nelle assemblee nazionali o regionali, nonché delle istituzioni che promuovano attività culturali, ricreative, educative, sportive, o di circoli aderenti ad organizzazioni nazionali, sportive, o di circoli aderenti ad organizzazioni nazionali ricreative o di enti di mutuo soccorso. Infine, lunedì 2 ottobre, il "Corriere della Sera" informava che, nel corso di un convegno dei »Centri Sturzo si era discussa la possibilità e la necessità di una legge che stabilisca il finanziamento pubblico non solo dei partiti, ma anche (e insieme) delle organizzazioni professionali di categoria. Insomma, la proposta Bertoldi apre la strada al trionfo postumo di Bottai.

 
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