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Teodori Massimo - 21 settembre 1971
In morte del giornalisti democratici
di Massimo Teodori

SOMMARIO: Nascita e dissoluzione del movimento dei giornalisti democratici: sorto dalla consapevolezza maturata anche grazie e dopo il 1968 dai giornalisti e dai lavoratori dell'informazione, di trovarsi al centro di problemi vitali per il manenimento e lo sviluppo della democrazia. Una consapevolezza maturata, in Italia a differenza che in Francia, attraverso un vecchio vizio dei "democratici", quello di essere solo capaci di reagire all'autoritarismo nei suoi ultimi e più manifesti momenti, ma non d'intervenire nei suoi continui e nascosti processi di formazione e di sviluppo. Cause della fine del movimento, il frontismo e gli aggiustamenti di regime, il minimalismo degli obiettivi e l'inazione.

(LA PROVA RADICALE N.1 - AUTUNNO 1971)

Il »Movimento giornalisti democratici per la libertà di stampa è morto. Ucciso da malattia le cui epidemie ricorrenti hanno sempre un effetto letale: frontismo e aggiustamenti di regime, minimalismo degli obiettivi e inazione. Era nato composito ma pieno di energie, impreciso ma carico di aspettative. Alla fine del 1969 si usciva dalle stagioni fervide in cui i movimenti contestativi del 1968 e quelli sindacali del 1969 avevano rimesso in moto l'intera scena politica mostrando anche ai più scettici che la mobilitazione di massa, l'intervento nei gangli della società civile e nelle istituzioni avrebbe potuto mutare assetti ed equilibri da tempo pressoché immobili e incrostati. Era la lezione delle proteste che percorrevano tutto il mondo industrializzato e opulento, di cui anche la sinistra rispettosa doveva tener conto se non voleva farsi tagliare fuori dai movimenti reali nella società. I »nuovi tecnici erano dappertutto coinvolti nella ondata di presa di coscienza della condizione di sfruttamento e di al

ienazione a cui anche le ex-professioni liberali e il lavoro intellettuale sono sottoposti. I giornalisti e i lavoratori dell'informazione si andavano accorgendo di trovarsi al centro di un complesso di problemi la cui soluzione è vitale per il mantenimento e lo sviluppo della democrazia; e che la stessa propria condizione, al di là del glamour molto poco reale e dei privilegi molto poco intellettuali e molto materiali, risultava nella sostanza tra le più subordinate e servili. La stampa, l'informazione e la comunicazione, inoltre, apparivano sempre più "strutture" di importanza primaria in stretta correlazione con lo sviluppo e la complessità della società tecnologica, quindi luogo di tensioni e contraddizioni pregnanti in termini di sviluppo della libertà effettiva in una società modernamente organizzata. Erano state esemplari, in questo senso, le vicende del maggio francese che avevano visto proprio nell'ORTF uno dei punti di lotta e un tentativo di organizzazione alternava dei lavoratori dell'informazion

e per l'uso democratico della radiotelevisione. In Italia era stata la cosiddetta repressione a svegliare i giornalisti dal lungo sonno in cui era immersa la categoria più corporativizzata e il settore più infeudato del regime. In quell'autunno caldo, accanto alle migliaia di denunce contro operai, la stretta governativa e padronale aveva trovato modo di prendersela anche con alcuni direttori responsabili di fogli di sinistra: Fausto Tolin, Piergiorgio Bellocchio, che avevano prestato il nome rispettivamente agli extraparlamentari "Potere Operaio" e "Lotta Continua", erano stati l'uno incarcerato e l'altro incriminato per reati di opinione, e poi la stessa sorte era toccata anche ad Alessandro Curzi, direttore responsabile dell'"Unità". Come in altri casi, anche i giornalisti si muovevano per "difendersi" dagli attacchi più tangibili del regime, piuttosto che "attaccare" quelle strutture che erano all'origine della repressione. Un vecchio vizio dei »democratici , capaci di reagire solo di fronte all'autorita

rismo nei suoi ultimi e più manifesti momenti e non nei suoi continui e nascosti processi di formazione e di sviluppo. Del resto questi erano gli ultimi episodi di una abitudine consolidata: ora si levava una »sana ondata di protesta antifascista per i due intellettuali e per il direttore responsabile del quotidiano comunista mentre per anni una serie di altri simili casi (non da ultimi gli attacchi di cui era stata oggetto la stampa porno-erotica quando aveva fatto qualche mossa sgradita al regime) erano passati sotto silenzio o quasi. Ma tant'era che le lezioni studentesche e operaie (si ricordi l'episodio dei giornalisti di Milano manganellati violentemente durante un corteo che nel dicembre 1969 li vedeva per la prima volta non cronisti ma promotori di una manifestazione di piazza anti-repressione) avevano delle ripercussioni nel mondo certo non molto sollecito della carta stampata.

Prima a Milano si forma nel gennaio 1970 un »comitato di giornalisti per la libertà di stampa e la lotta contro la repressione e poi a Roma si tiene una sorta di assemblea costituente del "Movimento Giornalisti Democratici per la libertà di stampa". Le premesse sono ottime: per la prima volta si ritrovano in un tentativo di organizzazione democratica al di fuori delle diverse corporazioni (ordine, associazioni, organizzazioni settoriali...) un gran numero di lavoratori dell'informazione. I 400/500 giornalisti di Roma hanno in sé tutte le premesse per dar vita ad una azione efficace: vi sono nomi prestigiosi del giornalismo ma anche una base di massa che passa attraverso un gran numero di testate: le provenienze politiche sono difformi ma fin dall'inizio convergenze e divergenze danno origine a schieramenti diversi da quelli tradizionali della politica del paese; accanto alla sinistra tradizionale v'è anche una presenza delle nuove forze: insomma, un punto di partenza carico di potenziale se solo si fosse im

postata una azione politica dinamica, si fossero precisati gli obiettivi di fondo capaci di dare slancio alla nuova iniziativa e si fosse organizzato un movimento capace di coinvolgere la gran nassa dei sottoproletari del giornalismo. Le minoranze radicali, alla assemblea costituente e poi nel corso delle riunioni dei primi mesi, indicavano quale dovesse essere l'obiettivo principale, anche se non unico, qualificante del movimento: abolizione dell'Ordine dei giornalisti quale struttura burocratica corporativa e nei fatti limitativa della libertà di stampa e creazione in prospettiva di un sindacato dei lavoratori dell'informazione. In questo modo si sarebbe dato al movimento una tensione verso un obiettivo dirompente in vista del quale azioni particolari e battaglie intermedie avrebbero acquistato un significato: altrimenti, già da allora si avvertiva il pericolo, il MGD non sarebbe servito altro che per compiere una operazione di ricambio della classe dirigente sostituendo ad un vecchio gruppo di potere, ana

cronistico perché impregnato di qualunquismo e corporativismo una `nuova classe' di giornalisti, più moderni e magari `antifascisti' ma certamente più omogenei al regime e disimpegnati da una sostanziale battaglia di libertà di stampa nel paese. Insomma ancora una volta si sarebbe scambiato il potere dei giornalisti `democratici' (nelle organizzazioni professionali, nei luoghi di lavoro, nella rappresentanza di una determinata categoria) con l'impegno e le responsabilità di democratici che fanno i giornalisti in modo democratico.

Le vicende di questa breve stagione del movimento stanno a dimostrare quanto fossero fondate le preoccupazioni allora espresse dalle minoranze e come ingannevole risulti sempre la scelta di tattiche che mettono in sordina gli obiettivi di fondo per `realismo' politico. Quel realismo in nome del quale il movimento é progressivamente scivolato da una posizione minimalista ad una più minimalista, da un tatticismo ad un compromesso, fino al punto in cui, oggi, il MGD non esiste più né per politica né come struttura sia pur labile, né per capacita di mobilitazione. La partecipazione alla vita degli organismi di categoria esistenti sarebbe dovuta essere un momento di una azione più vasta e il concorso agli organismi direttivi sarebbe dovuto avvenire sulla base di un programma in rapporto alla capacità di far passare anche attraverso una strategia dal di dentro un movimento che agiva sopratutto dal di fuori.

Alle eiezioni del maggio 1970 per il consiglio direttivo della Associazione Stampa Romana la lista del MGD, sullo slancio della costituzione del movimento, riportava un successo con circa il 43% dei voti tra i professionisti ed il 25% tra i pubblicisti, con la elezione di cinque professionisti su undici (Salvatore Atzeni dell'"ANSA", Federico Bugno, della "Voce Repubblicana", Nuccio Fava della "RAI-TV", Giorgio Lauzi dell'"Avanti!", Giulio Mazzocchi, della "Stampa") sulla base di una piattaforma non massima ma certamente capace di costituire un punto di partenza per successive battaglie: »"1. fare della Associazione ciò che deve essere, un sindacato degli operatori della informazione, strettamente legato alle redazioni, che non rimanga alla porta delle aziende editoriali in cui si svolge il nostro lavoro, capace di farsi sentire e rispettare sia dagli editori, sia dal potere politico; 2. rafforzare i poteri delle redazioni all'interno delle aziende, modificando nel contratto di lavoro la funzione dei comitat

i e delle assemblee di redazione; 3. eliminare ogni impedimento legislativo alla libertà di stampa, sia rimuovendo tutte quelle norme limitative che, in parte, sono un retaggio dei codici fascisti, sia modificando radicalmente la nostra legislazione professionale da cui va eliminata ogni chiusura corporativa" ("Stampa democratica", n. 4, 5 maggio 1970). Ebbene dopo oltre un anno non risulta che il gruppo dei democratici alla Associazione Stampa Romana abbia fatto molto per realizzare il programma su cui era stato eletto o abbia compiuto atti importanti per dissociarsi dalla gestione della esigua maggioranza corporativo-qualunquista da cui pure dissente. Del resto sarebbe stato per essi molto difficile muoversi nella direzione della piattaforma iniziale, dal momento che il movimento stesso, progressivamente ha finito per non esistere. Il MGD non ha preso una sola iniziativa per creare nuove strutture sindacali di tutti i lavoratori dell'informazione; quanto alla rimozione delle norme limitative della libertà

di stampa, i giornalisti democratici non si sono certo impegnati a fondo nell'iniziativa del referendum abrogativo dei reati d'opinione promosso da un largo comitato di organizzazioni di sinistra, mentre un appoggio concreto di un largo settore della stampa avrebbe potuto contribuire decisamente ad un successo dell'iniziativa con la raccolta di 500.000 firme; il superamento, attraverso la non applicazione di una singola norma limitativa della libertà di stampa (quella relativa alla firma di un direttore responsabile iscritto all'albo per qualsiasi pubblicazione anche politica), è stata ottenuta unicamente grazie alle decisioni dei presidenti degli Ordini di Milano prima e di Roma poi (di certo non `democratici') in seguito alle `azioni dirette' individuali di assunzione della direzione, allo scopo dichiarato o implicito di nullificare le norme anticostituzionali, da parte di intellettuali e militanti come Bellocchio, Baldelli, Pannella, Pasolini ed altri [vedi le dichiarazioni in questo numero di PLR in occ

asione del processo a "Lotta Continua"]. Quanto alla modifica della legislazione professionale, centrata sull'aberrazione di un Ordine doppiamente autoritario perché considera professione liberale una professione che come nessun altra è subordinata nel rapporto di impiego e perché prescrive l'iscrizione alla corporazione soltanto per decisione dei padroni (il contratto di lavoro) e per cooptazione attraverso un ridicolo esame, nessuno ha mosso un dito, ed anzi, paradossalmente, si può dire che la struttura dell'Ordine ed il suo gruppo dirigente si siano rafforzati.

Infatti la partecipazione alle elezioni del maggio 1971 per il rinnovo del Consiglio interregionale del Lazio e del Consiglio nazionale da parte di liste di `Rinnovamento' come espressione del MGD (rompendo la tradizione del consueto `listone' corporativo e pseudounitario) e la loro netta sconfitta ha finito per avere un duplice effetto negativo. Non solo non è stato `conquistato' l'Ordine locale e nazionale come potrebbe esser stato nelle intenzioni di qualche malaccorto realista che crede a questo tipo di piccole strategie di potere, ma la presenza autonoma dei democratici ha dato una copertura al gioco (peraltro truccato per il sistema elettorale maggioritario) interno dell'ordine e sopratutto ha conferito, volenti o non, nuova legittimità politica ad un organismo fino ad oggi screditato quanto a funzioni e ben delimitato quanto a rappresentatività. Il presidente Gonella, incarnazione la più autentica del clerico-reazionarismo, ed il gruppo dirigente di destra, rimangono saldamente in sella all'ordine naz

ionale: gli uomini che sarebbero dovuti essere il maggiore bersaglio dei democratici sopratutto "in quanto difensori dell'Ordine stesso e della sua ideologia corporativa, prima ancora che come dirigenti" escono rafforzati da una malintesa tattica di partecipazione elettorale rimanendo i rappresentanti del supremo organo della corporazione. Così, la storia della contestazione dell'Ordine potrà anche avere una fine non molto gloriosa: ciò che i giornalisti democratici non hanno saputo o voluto ottenere come conquista democratica e dal basso - l'abolizione dell'Ordine - potrà realizzarsi per decreto in seguito all'iniziativa di qualche parlamentare o addirittura per decadenza con l'entrata in vigore dei regolamenti comunitari europei sulle professioni.

Al progressivo esaurirsi di ogni tentativo di mobilitazione della base dei giornalisti e degli altri operatori dell'informazione, ha corrisposto nel MGD il parallelo rafforzamento di pratiche neo-frontiste di vertice e di accomodamenti nella opera di conquista di posizioni di potere. A Roma v'era stata nella primavera del 1970 una spinta di base ed a ciò fu dovuto il successo alle elezioni della Romana a cui non ha fatto seguito un adeguato uso di quei risultati per obiettivi che non fossero di semplice gestione ordinaria. Un anno dopo, alle elezioni dell'Ordine interregionale, nonostante il tentativo di un compromesso molto poco chiaro, poi non riuscito, con l'Unione Cattolica della Stampa Italiana (UCSI), e nonostante lo smussamento di ogni aspetto della politica del MGD che - si diceva - avrebbe potuto restringere i consensi, i candidati democratici andavano incontro ad una decisiva sconfitta, a nessuna elezione ed alla perdita di ogni credito in termini di opposizione di fondo alla istituzione da smantel

lare. Al congresso di Salerno della Federazione Nazionale della Stampa Italiana (ottobre 1970) una spinta di base, analoga a quella iniziale di Roma e proveniente soprattutto dal profondo scontento dei delegati periferici nei confronti della precedente gestione, serviva per portare alla testa del maggior organo sindacale una maggioranza `democratica' e di coalizione; anche questa nuova dirigenza nazionale, nella sua più importante prova, lo scontro per il rinnovo del contratto giornalistico, non è riuscita a colorarlo fortemente in direzione di quella democratizzazione sui luoghi di lavoro che avrebbe dovuto essere l'elemento sindacalmente più qualificante dei democratici.

Certo la nuova dirigenza della FNSI, con il democristiano Ceschia alla segreteria, il comunista Curzi ed il socialista Barbato nella giunta esecutiva, è più dinamica e sindacalmente più attiva nel proporre le esigenze della base di fronte ai datori di lavoro che non la precedente dirigenza di destra, ma il punto in discussione è un altro: cioè che non è stato dato corpo a nessuno dei grandi temi della libertà di stampa e della democrazia per i giornalisti anche e soprattutto a partire dalle nuove posizioni di responsabilità assunte dai democratici. E forse, in queste condizioni, non sarebbe potuto avvenire altrimenti data la completa assenza del MGD come momento e forza autonoma capace di far vivere fuori delle istituzioni di categoria una propria volontà e dinamica politica. Un solo esempio, tratto dal vasto campo delle omissioni, basterà per segnare l'assenza di un movimento nato sotto l'insegna »per la libertà di stampa dagli stessi problemi costituenti il suo esser movimento: la RAI-TV che costituisce l

o scandalo più madornale in termini di concreto affossamento della libertà di informazione e di monopolio di regime. Non una chiara e decisa presa di posizione, non una proposta, non un semplice e franco dibattito in un momento in cui stampa e mondo politico sono a più riprese intervenuti sull'argomento.

Del resto dopo i dibattiti sia pur limitati del primo tempo, la vita del MGD si era ridotta nell'inverno 1970-1971 ad una sopravvivenza senza alcuna consultazione e partecipazione diretta della base, gestita secondo vecchie abitudini da un comunista più un socialista più un democristiano più un repubblicano più un cattolico di sinistra, quasi che la delega diretta o la rappresentanza indiretta delle organizzazioni politiche fosse matrice di quell'unità democratica che si conquista e risulta feconda solo attraverso le lotte unificanti. Il distacco dalla base, la sostituzione di accordi tra rappresentanti o delegati delle forze politiche all'unità nella lotta; la riduzione di tutta una possibile linea alternativa (si ricordino i temi della controinformazione, della libertà di stampa per i cittadini, della libertà per la stampa di fronte ai processi di concentrazione editoriale, della gestione dei giornali, oltre che dell'abolizione dell'Ordine, sollevati nei dibattiti dei primi tempi) alla gestione di fette di

potere da parte di uomini degli `equilibri più avanzati' ma in realtà molto più adeguati a questo regime di quanto non fossero gli anacronistici residui del pompierismo giornalistico: la sostituzione del continuo confronto con la base con il sempre più frequente intervento dei dirigenti democratici a riunioni incontri e convegni dell'establishment come quello organizzato dall'UCSI (presieduta, guarda caso, dal ministro delle partecipazioni statali Piccoli che deve saperne qualcosa della libertà di informazione alla RAI-TV e del finanziamento politico dei giornali tramite le `partecipazioni' petrolifere); tutto ci non poteva che portare all'affossamento di "questo" movimento di giornalisti democratici, così concepito. Ma l'esigenza da cui era nato rimane oggi più che mai in piedi ed insoddisfatta aveva sì ragione il maggiore animatore del Movimento, Enzo Forcella quando scriveva che »"non mi faccio illusioni sui `tempi brevi'... la lotta per un nuovo e più soddisfacente assetto degli strumenti di informazion

e italiani si svolge sempre su due piani all'interno e all'esterno delle aziende. I problemi della stampa italiana non possono essere risolti esclusivamente dai giornalisti, alla fine si ritrovano sempre strettamente legati agli sviluppi complessivi della società italiana e delle sue forze politiche..." ("L'Espresso" 25-10-1970), ma per imboccare una strada vincente nei tempi lunghi occorre muoversi e muoversi nella direzione giusta. Altrimenti non solo accadrà che "i giornalisti" non risolveranno "da soli" i problemi della libertà di informazione ma che un bel giorno, ai prossimi sommovimenti che questa società si appresta periodicamente a darci, quale che siano i giornalisti `democratici' alla guida delle organizzazioni di categoria e quale che sia il grado `avanzato' dei nuovi equilibri settoriali, la libertà di informazione e lo smantellamento delle bardature corporative saranno conquistati democraticamente "contro" i giornalisti anche quelli `democratici'.

MASSIMO TEODORl

 
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